La Balena Bianca va in vacanza. Per un mese circa sarà avvistata in altri mari. Ma, prima di partire, vuole darvi tutto quello che serve per affrontare il caldo e la ressa della vita da spiaggia. In più, per dimostrarsi all’altezza delle proprie tradizioni, ha deciso di aumentare il numero di suggerimenti. Più libri, più letture, più lettori: questa l’equazione audace! Così, ecco i ricchissimi consigli di lettura messi insieme dalla redazione e da alcuni dei suoi collaboratori. Ce n’è per tutti i gusti, dalle più recenti novità ai grandi classici. Trovate tra questi suggerimenti quello che fa per voi. Ne riparleremo a settembre.
Davide Saini, C. McCharty, TRILOGIA DELLA FRONTIERA (Einaudi 2008)
A volte può bastare un solo libro per un’intera vacanza, basta che sia un libro come la Trilogia della frontiera di Cormac McCarthy. Tre romanzi appassionanti, epici, che tengono incollati assicurando un grande piacere di lettura abbinato a una riflessione mai banale sulla vita e sul mondo. Storie di viaggi, avventure, giustizia ma soprattutto storie di uomini e di umanità. Un libro da leggere in treno, sotto l’ombrellone, la sera sulla veranda, in aeroporto seduti sul trolley, aspettando che il traghetto smetta di oscillare. E se il traghetto non smette di oscillare, l’aereo è in ritardo, la sera in veranda è troppo bella, la giornata in spiaggia è noiosa o il viaggio in treno è la transiberiana non preoccupatevi vi faranno compagnia Cavalli selvaggi, Oltre il confine e le Città della pianura con le loro 1038 pagine complessive (rimanendo anche un’ottima arma da autodifesa in viaggio).
Damiano Sinfonico, E. Vila-Matas, PARIGI NON FINISCE MAI (Feltrinelli 2006)
Sulla scia di Festa mobile di Hemingway, Enrique Vila-Matas ci dona un ritratto di un aspirante scrittore immerso nelle follie di Parigi e dei suoi scrittori. Una festa continua fatta di battute fulminanti, rievocazioni letterarie e domande sull’arte di scrivere. Hemingway, Duras, Duchamp, Flaubert, Borges, Perec attraversano questo spazio scintillante, assurdo, onnivoro. Alleggerito di ogni tentazione erudita, Parigi non finisce mai costituisce un monumento alla sovrana felicità di scrivere (e di leggere). Anche la disperazione si tinge di azzurro. Travolti dal suo ritmo, sarete grati e sollevati di sapere che scrittori come Vila-Matas ancora esistono.
Sergio Peter, A. Ernaux, IL POSTO (L’Orma 2014)
Non posso che consigliarvi di mollare ogni occupazione ed andare subito a prendere il miglior libro che abbia letto quest’anno: Il posto, di Annie Ernaux. Pubblicato in Francia nel 1983, ed ora finalmente tradotto da Lorenzo Flabbi grazie all’iniziativa de L’Orma editore. Una figlia, madre e maestra, racconta in prima persona, con una scrittura limpida e asciutta, attraverso brevi frammenti narrativi, la storia del padre, e del progressivo allontanamento di classe tra lei e lui. Ne viene fuori un testo che sfugge alle definizioni: non è solo autobiografia, non è solo romanzo. Una prosa bellissima, moderno Lessico famigliare, sembra emanare direttamente da quanto scrisse Benjamin, che grazie al morente lasciato spirare in casa è ancora possibile ascoltare l’indimenticabile della sua vita.
Matilde Quarti, G. Pontiggia, LE SABBIE IMMOBILI (Mondadori 2007)
L’estate, si sa, è per definizione italiana e non da meno sono Le sabbie immobili di Giuseppe Pontiggia. Un’italianità che non è storica o televisiva, ma profondamente quotidiana. Fatta di code agli sportelli del comune, di opinioni offerte al bar con il caffé, di scrittori che guardano pensosi verso l’orizzonte nelle foto in quarta di copertina, di altri scrittori da anni in crisi da pagina bianca e di critici per cui tutto è graffiante, stimolante, altresì interessante. Quello di Pontiggia non è un romanzo, non è un saggio, non è una raccolta di aforismi da leggere ad alta voce sotto l’ombrellone. Le sabbie immobili è una raccolta di scene, riflessioni e definizioni che prendono in giro quei vizietti così squisitamente italiani – che sono anche i vizietti dell’autore. Pontiggia disserta su quanto sia esasperante dormire in coppia quando uno dei due russa, o sull’inaspettata versatilità dello scrittore postumo; dà definizioni di quei termini che fondano il nostro lessico quotidiano – come gazzella e tangente – e letterario – non vorrete dimenticarvi di usare icastico o denso? Un libretto snello, per affrontare la feroce vita da spiaggia e ricordarsi che anche ai critici può finire la sabbia negli occhi.
Marco Bellardi, G. Vasta, IL TEMPO MATERIALE (minimum fax 2008)
Si può scrivere un romanzo con una lingua sbagliata? Chi non avesse ancora ascoltato la voce del Nimbo e dei suoi due compagni undicenni descrivere l’eversione totale, probabilmente farà bene a prendere in mano il libro di Vasta e lasciarsene turbare almeno per il tempo di subirne la fascinazione. La trama è ormai nota. Rasati i capelli, i tre piccoli emuli brigatisti studiano i loro corpi e il funzionamento degli alveari, mutuano posture televisive inventando l’alfamuto per comunicare, progettano furti, sequestri, attentati e omicidi, duplicano la crescente violenza dell’anno 1978 in cui vivono attraverso una pressione ideologica ai limiti dell’irreale. In questa direzione va anche la sfida stilistica di questo libro tra i più interessanti degli ultimi anni, quella di forzare il realismo grazie a una resa verbale allo stesso tempo non allucinata ma rigorosamente iperbolica, sovradeterminata, e attraverso una potente visività scenica farci capire infine il sano scandalo che viene dall’amore.
Michele Turazzi, C. D’Amicis, QUANDO ERAVAMO PREDE (minimum fax 2014)
Premessa: il riferimento a La strada di McCarthy in bandella è sicuramente eccessivo. Ma non importa, Quando eravamo prede è comunque un romanzo forte, che sa colpire come un pugno allo stomaco e allo stesso tempo accarezzare con inattese svolte liriche. D’Amicis scrive qualcosa di completamente diverso (dai suoi libri, dagli altri italiani) e lo fa servendosi di una lingua precisa come un orologio svizzero, lirica e brutale. La storia post-apocalittica è quella di un’umanità regredita all’istintività più becera (o più pura?), di un gruppo di uomini che si comporta come un branco di bestie, ma che proprio per questo riesce a illuminare di una luce diversa quello che siamo abituati a chiamare civiltà. Non sarà così semplice distinguere il bene dal male pagina dopo pagina, non con i nostri canoni morali. È giusto trattare una donna come una schiava? Tentare di masturbarsi guardando un uomo e una donna scopare? E leggere la Bibbia? Istituire la proprietà privata? Non aspettatevi risposte da Quando eravamo prede, aspettatevi un romanzo potente, ben calibrato, intelligente. E, al giorno d’oggi, non sono cose da poco.
Lorenzo Cardilli, D.F. Wallace, CONSIDERA L’ARAGOSTA, (Einaudi 2005)
Leggere Considera l’aragosta di Foster Wallace sotto l’ombrellone potrebbe rivelarsi – a dispetto del titolo – una scelta temeraria. Considera l’aragosta non è un libro da spiaggia, ma è uno di quei testi che dovresti sottolineare fino a stracciarne le pagine. Le perle saggistiche che raccoglie sono affondi dolci e brutali nella cultura americana: dal reportage sugli Awards del porno alla settimana di campagna elettorale del senatore McCain, da una recensione fiume su un dizionario d’uso Americano al Festival dell’aragosta del Maine. Oltre il genere del saggio o del reportage, quella che Wallace ci fornisce è critica allo stato puro. Un catechismo logico che sconvolge con grazia le nostre presupposizioni. Dietro e dentro parole, abitudini e simboli, Wallace buca gli autoinganni e smonta le macchine della retorica, ma senza snobismo e con un coinvolgimento personale vicino alla pietà. Il suo linguaggio mischia il massimo dell’estro con una precisione chirurgica a volte anche dolorosa. Se un tale shock non è esattamente l’esperienza che cerchi per il tuo Agosto in villeggiatura, lascia stare. Se invece sei coraggioso ti aspetta una piccola grande rivoluzione: con un imprevedibile coup alla The Others (o alla Matrix), poter tornare finalmente a casa dopo una lunghissima e lussuosa vacanza – pagata – dal pensiero.
Fabio Disingrini, N. Englander, IL MINISTERO DEI CASI SPECIALI (Mondadori 2008)
Che cos’hanno in comune la tragica Argentina di Videla e la storia semitica? Una guerra sporca, un attentato alla memoria, la rimozione umana. Così, mentre Kaddish Poznan cancella i nomi di prostitute e ruffiani nel camposanto ebraico di Buenos Aires, deputato dagli eredi della Società dell’Impulso Generoso, suo figlio Pato svanisce nel baratro del Processo di Riorganizzazione Nazionale. Kaddish vaga di notte fra le lapidi di un cimitero che sembra Staro Město mentre sua moglie Lillian, il cuore pulsante di questa trazione narrativa nella sua stasi circostanziale, si aggira per le strade e gli uffici di una città non meno lugubre, irradiata da una luce indifferente, svuotata dai silenzi. È l’espressione dell’annullamento, l’azione dell’apparato burocratico-terroristico della Junta, il termine de Il Ministero dei casi speciali. L’autore, Nathan Englander è il più giovane alfiere della letteratura ebraica americana e proprio in questi giorni, leggendo una sua intervista concessa a “Repubblica” sulla crisi israelo-palestinese, ho ripensato al suo romanzo d’esordio, sapido e drammatico, estraneo e amorevole, austero e remissivo. Multiforme come la distopia di Orwell, sul piano allegorico, e quella di Saramago nei suoi riflessi vivaci. Come (ri)scrive Englander nel suo ultimo libro, Di cosa parliamo quando parliamo di Anne Frank, «A volte ci chiediamo quali dei nostri amici cristiani ci nasconderebbero nel caso di un Olocausto americano».
Giacomo Raccis, E. Carrère, LA SETTIMANA BIANCA (Adelphi 2014)
Immaginatevi Emmanuel Carrère prima di Limonov. E prima di Vite che non sono la mia. E prima ancora dell’Avversario. Immaginatevi, cioè, un altro scrittore. Uno scrittore che non ricorre alla cronaca, pubblica o privata che sia, per raccontare storie, per proiettare la sua sagoma ingombrante sui lutti altrui. Se avrete la pazienza di risalire così indietro troverete questo libro del 1995 (ormai quasi 20 anni!), appena ripubblicato da Adelphi: La settimana bianca. Una storia normale, banale quasi. La gita annuale di una classe di ragazzi, in montagna, accompagnati dalla loro insegnante e seguiti da due istruttori che dovranno farli divertire per tutto quel tempo passato lontano dai genitori. Eppure, anche in una trama apparentemente così distante dal gelo russo o dalle tragedie sudestasiatche, si fa largo piano piano un sentimento di disagio, di inquietudine. Un sentimento che all’improvviso esplode e ci pone, impreparati, di fronte al trauma più angosciante, visto con gli occhi indifesi di un bambino. Forse un azzardo, ma in questo libro si può leggere un Carrère filtrato, depurato, forse nel suo tono migliore. Una scommessa da tentare.
Giuseppe Deva, W. Fontana, SPLENDIDO VISTO DA QUI (Giunti 2014)
Un futuro in cui il futuro è stato abolito dividendo il mondo in zone militarizzate: ’60, anni ’70, anni ’80, anni ’90 e anni Zero. Quando si arriva in fondo alla decade si ricomincia da capo con un riassortimento di tutti gli oggetti, così abbiamo eliminato il futuro. O meglio, abbiamo eliminato ciò che del futuro disturba, quella sensazione di vuoto che occlude l’orizzonte. Nulla può passare da una zona all’altra e inflessibili sono i poliziotti e gli spazzini che controllano oggetti e possibili viaggiatori tra ere. In tutto ciò una storia di vita, quella dello spazino Leo, che pian piano esce dal gioco cui ha sempre partecipato, smette di seguire le regole e finisce a combattere per la libertà grazie all’incontro con una bella fuggitiva dagli anni 70, Maia. Un libro da portare in spiaggia, da leggere in viaggio; un libro in cui la distopia è usata per creare divertimento, ironia, satira ma anche per generare spunti di riflessione tutt’altro che leggeri. Un libro per ridere ma anche per riflettere sulla nostra civiltà.
Andrea Cirolla, C. Bobin, AUTORITRATTO AL RADIATORE (AnimaMundi 2012), FRANCESCO E L’INFINITAMENTE PICCOLO (San Paolo 2012)
«I libri non sanno, come i tulipani, morire e rinascere e infine morire per davvero. Ciò che aiuta è ciò che passa. Ciò che aspira all’eternità non è di alcun conforto» (da Autoritratto al radiatore, AnimaMundi, trad. di Valerio Pignatta). «Si dice per esempio: san-Francesco-d’Assisi. Lo si dice come lo direbbe un sonnambulo, senza svegliarsi dal sonno della lingua. Non si dice, si lascia dire. Si lasciano le parole venire, esse vengono in un ordine che non è il nostro, che è l’ordine della menzogna, della morte, della vita in società. Pochissime vere parole si scambiano ogni giorno, davvero poche. Forse ci si innamora soltanto per cominciare a parlare davvero. Forse si apre un libro soltanto per cominciare davvero a comprendere» (da Francesco e l’infinitamente piccolo, San Paolo, trad. di Giovanna Troisi Spagnoli).
L’autore di questi due brani sulle parole e sui libri è uno di quegli scrittori (schivi, appartati) di cui non si parla mai abbastanza. Anzi, nel suo caso non se ne parla quasi per niente. Quando lo si scopre, poi ci si domanda il perché. La sua discrezione e la sua sobrietà sono le stesse della sua prosa. Ha scritto brevi narrazioni che hanno la densità della poesia e stanno in un corpo semplice, un’espressione chiara, ciò che accade del resto proprio con la poesia, se vera, anche la più chiusa, in quanto naturale, spontanea – come quel tulipano. Recentemente è stato avvistato in esergo all’ultimo romanzo di Aldo Nove. Se per le vacanze vi trovaste a passare dal Salento, sappiate che l’etichetta discografica e casa editrice AnimaMundi di Otranto (via Maiorano, 8) è una meta sicura dove incontrarlo, conoscerlo, cioè scovare qualche suo libro (con l’Autoritratto, AnimaMundi ha pubblicato anche Folli i miei passi, in coedizione con Socrates, e Sovranità del vuoto, giusto l’altro ieri; altri due li farà uscire prossimamente, iniziando da La vita e nient’altro).
Francese, nato a Le Creusot nel 1951: è Christian Bobin.