Teju Cole arriva al 18° Festivaletteratura di Mantova a pochissimi giorni dall’uscita del suo ultimo libro, Ogni giorno è per il ladro (I Coralli, Einaudi), resoconto del ritorno a Lagos di un personaggio autobiografico, che con sguardo attento racconta e fotografa problemi e contraddizioni di un Paese, la Nigeria, irretito da corruzione, violenza e povertà, e incapace di trasformare in progetto la voglia di cambiamento che anima tante persone.
Tuttavia a Mantova, dove si presenta al pubblico insieme a Diego De Silva, Teju Cole è venuto per parlare soprattutto, e ancora, di Città aperta, pubblicato l’anno scorso sempre da Einaudi (e discusso qua): un romanzo dal titolo rosselliniano (anche se Cole ammette che è lo sguardo di Fellini ad averlo sempre affascinato), che racconta la flânerie per le strade di New York prima e Bruxelles poi di Julius, psichiatra nigeriano installatosi nella Grande Mela. Un romanzo introspettivo, in cui il plot soccombe alle necessità di riportare l’intensità e il tono delle epifanie – culturali e memoriali –che l’attraversamento della città evoca in Julius, personaggio dalla sensibilità spiccata. D’altra parte, come afferma Cole durante l’incontro con il pubblico, camminare è un’attività che ha una grande affinità con il leggere, e anche con il disegnare: «Sono gesti apparentemente infiniti, ma che, a uno sguardo retrospettivo, rivelano una forma».
Diceva Paul Klee, «disegnare è portare a spasso una linea»: con il proprio personaggio Cole sembra fare esattamente questo, perché il camminare detta il ritmo della narrazione, scandisce i picchi e le flessioni nella soglia dell’attenzione di chi legge.
Quella per le narrazioni reticenti è una predilezione esplicitamente dichiarata da Cole, che rivendica l’importanza che lo scrittore “impegni” il proprio lettore: «Per me, la cosa più importante quando leggo, è constatare che c’è un’omissione strategica, che mi richiede attenzione, e anche intuito». Dichiara insofferenza per la propensione di tanti suoi colleghi contemporanei a rendere tutto esplicito, a mostrare l’opera, ma anche il progetto che l’ha prodotta. D’altra parte, se la scrittura sceglie di giocarsi le proprie carte sul campo dello storytelling, della narrazione pura, sarà costretta a soccombere davanti alla potenza sinestetica della televisione e del cinema. Chi scrive un romanzo dovrebbe cercare invece di fare quello che gli altri media non possono: «La forza della tv consiste nella dinamica e nella narrativa; allora, nella scrittura, io cerco l’intimità, che può sfociare in una tensione all’oggettività [Cole è anche un ottimo fotografo], ma soprattutto nell’estasi». Sono le epifanie del quotidiano che in Città aperta interpellano la memoria di Julius (i ricordi dell’infanzia in Nigeria, la scuola militare, il rapporto difficile con la madre), ma soprattutto la sua cultura, la passione per la musica (Mahler su tutti), per la fotografia e per l’arte: la cultura come filtro e strumento per la comprensione del mondo che lo circonda (con quanto di manieristico e performativo un simile atteggiamento necessariamente comporta).
Un approccio alla scrittura che può apparire in certi momenti un po’ naïf; ma che acquista persuasività perché si regge su una fiducia profonda in un potere effettivo della letteratura di détourner il nostro sguardo sulla realtà. «Dentro questo mondo ce n’è nascosto un altro», diceva Paul Éluard, e Cole ha assunto questa frase a norma della sua scrittura, che lavora su un’educazione dello sguardo a percepire gli spazi, le variazioni d’intensità, i rallentamenti dello scorrere del tempo. Bastano queste oscillazioni a dare un ritmo alla narrazione, a snodare una linea che conduce il lettore dentro una realtà parallela, che necessità di pazienza e attenzione per essere percepita. Una realtà che fa appello a tutti i sensi e a tutte le arti, e nella quale Cole ha ormai imparato a ritrovarsi. A chi gli chiede se si riconosca nella recente voga di autori africani che scrivono in lingua inglese e che nel mondo anglosassone trovano accoglienza, Cole risponde rivendicando la propria appartenenza a un’altra e più estesa comunità di menti creative, dove si trovano poeti e artisti, pittori e compositori.
Eppure, mi sembra che proprio in questa sua insofferenza verso l’etichetta “africana” apposta all’opera di certi autori suoi contemporanei – e bollata come semplice trovata commerciale – si celi un nodo della sua scrittura. Decido quindi di cominciare da qui la mia breve intervista.
In Città aperta racconti la storia di un personaggio, Julius, la cui identità è divisa tra le origini africane (peraltro ibridate da un’educazione già orientata a un modello europeo) e l’American way of life accolta insieme all’insediamento a New York e arricchita continuamente dai connotati storici, artistici e anche professionali che questa sembra portare con sé. In questo schema, la componente africana originaria appare così schiacciata dalla “nuova cultura”: è un equilibrio che hai cercato consapevolmente, o è soltanto una mia impressione?
Il mio personaggio ha un’identità divisa, hai detto bene. Ma non divisa tra un lato moderno e uno non moderno, o anti-moderno. L’Africa è moderna, proprio come l’Italia è moderna. La sua è semplicemente un’identità mista, internazionale, come lo è quella di ciascuno di noi. Perché internazionale è il nostro modo di essere e vivere, oggi. Usiamo computer che sono progettati a Cupertino e assemblati in Giappone; i vestiti “occidentali” che indossiamo vengono prodotti in Cina. Si tratta di un dato di fatto, qualcosa che fa parte del nostro mondo, della nostra vita. E non ci pensiamo, perché non percepiamo questi oggetti come dotati di diverse identità.
Il mondo è globale, ma l’Occidente non ci pensa e costruisce modelli dialettici rispetto all’Asia o all’Africa. Invece, nelle singole identità delle persone, non si distinguono un’autenticità occidentale e una orientale o africana. Bisognerebbe imparare a cogliere le sfumature che determinano l’identità, per cui non c’è solo l’indigeno e lo straniero [insider e outsider], ma esiste tutta una serie di gradazioni che mischiano i due elementi in proporzioni diverse da individuo a individuo. E lo storytelling dovrebbe provare a riflettere questa condizione.
La domanda sull’autenticità esiste solo nel momento in cui qualcuno la tira fuori; altrimenti c’è solo il tentativo di vivere in maniera “moderna”, come fa ciascuno di noi. Tutto quello che conta per me è il contemporaneo; a me interessava costruire un personaggio contemporaneo. E credo che Julius lo sia.
Come è stato notato da più parti, nella tua scrittura è evidente l’influenza di un autore come Winfried Sebald. La costruzione di uno sguardo che cerca nella realtà i segni del passato, che sono poi i segni della storia culturale dei luoghi e delle persone, si ritrova in tanti suoi libri, come Gli anelli di Saturno, e mi sembra di trovarla anche nel tuo romanzo. Non credi che questo tentativo di affidarsi alla storia e alla cultura per comprendere il mondo, per renderlo “significativo” produca uno sguardo eccessivamente rivolto al passato, piuttosto che al futuro?
Questa in effetti è una mia inclinazione letteraria. Quando guardo un luogo, un edificio, qualcosa, percepisco la presenza del passato. In questo mio modo di vedere, però, più che Sebald c’è Walter Benjamin e la sua idea di una “haunted flânerie”. Quando osserva gli edifici, i muri delle case, i monumenti, Benjamin ne fa come una stratigrafia storica, riconosce i depositi che le varie epoche hanno lasciato. Come il Duomo di Mantova, che ha il campanile romanico, una parte della facciata gotica e via così.
E ancora, più di Sebald, direi che sono stato influenzato da Thomas Brown, uno scrittore inglese sebaldiano prima di Sebald si potrebbe dire: l’ho letto a 16 anni e da lì ha condizionato il mio modo di vedere le cose. E poi c’è Montaigne, che quando parla dei luoghi che osserva interpella la propria sensibilità, ma anche la filosofia, la letteratura…
Sebald l’ho letto molto tardi ma, visto che oggi se ne parla tanto, tutti lo citano. Ma non c’è solo lui.
Finisce il tempo a disposizione, anche se molte ancora sarebbero le mie domande. Cosa intende quando parla di “openness“? Una semplice qualità dello sguardo? O qualcosa che è nelle cose, nel mondo? Come si fa a risolvere le violenze e i contrasti che animano il mondo, e che pure il suo Julius riconosce, in un’osservazione così pacata e a tratti anche distaccata, al punto da trascendere sempre dal concreto al piano astratto di un trattamento culturalistico. Davvero la “questione delle origini” e il rapporto con gli scrittori africani possono essere liquidati così diplomaticamente?
Forse il nuovo libro già contiene alcune di queste risposte. Senz’altro, nuove domande sorgeranno. Per adesso si può tornare a leggere; ma con uno sguardo nuovo.