La prima cosa che ho pensato quando ho saputo che gli Afterhours sarebbero usciti con una versione rimasterizzata di Hai paura del buio? è stata: i soldi (per la bamba) sono finiti. HPDB è l’album che ha consacrato Manuel e soci nell’olimpo del panorama del rock alternativo italiano; è un album controverso e, a mio parere, bellissimo, un album superbamente strutturato nonché il primo disco degli Afterhours che io abbia mai ascoltato (ed è risaputo che il primo amore non si scorda mai). Essendo un album del 1997 non c’è nessun anniversario, compleanno o occasione speciale che possa giustificare tale mossa commerciale. Forse è necessaria una premessa: non sono assolutamente in grado di esprimere un giudizio imparziale sugli Afterhours, essere imparziali è fuori dalle mie corde e mi appello a Gramsci per le giustificazioni del caso.
Tuttavia, ogni qualvolta qualche artista o band ripropone vecchie glorie della propria carriera dopo un periodo di silenzio, mi viene spontaneo il paragone con abietti individui che, rispuntando dalle nebbie del passato, domandano cose tipo come va, è un po’ che non ci sentiamo; individui che, è forse superfluo specificarlo, stanno tra le macerie della fine di una storia e, pervasi dall’horror vacui, decidono di voltarsi indietro, effettuando pesca a strascico tra i fasti del passato.
La mossa degli Afterhours mi lasciava perplessa, lo ammetto, e contemporaneamente mi spaventava: in seguito a decisioni di questo tipo, è comprensibile prepararsi al peggio, insinuare che si tratti del canto del cigno, convincersi che la vena creativa della band sia ormai prosciugata del tutto.
La paura che le tenebre stessero per inghiottire una delle mie band preferite mi ha convinta ad acquistare il biglietto per il concerto del 24 marzo, all’Alcatraz di via Valtellina (e a pagare altri venti euro per la data del 6 settembre al Carroponte); ma forse non è stato solo questo: io, gli afterhours, ho cominciato ad ascoltarli quando avevo diciassette anni, proprio con questo album: e si dà il caso che siano dieci anni che non ne ho più diciassette e quindi sono dieci anni che li ascolto. Le nozze di stagno mi sembravano una ragione sufficiente. Come se non bastasse, pare che il duemilaquattordici sia l’anno degli esorcismi: l’anno in cui scelgo di leggere finalmente IT di Stephen King, sperando che il pagliaccio sanguinario abbandoni le mie notti di quasi trentenne; poiché HPDB è stato la colonna sonora di vicende sentimentali con Voldemort, e cioè colui che ha spezzato il mio cuore come un biscotto saiwa, andare a riascoltare quell’album dal vivo mi sembrava un ottimo modo per sconfiggere i Mangiamorte che popolano il mio passato.
Non sentivo gli Afterhours dal tour di Padania, al concerto di Villa Arconati dell’estate 2012 e mi mancavano, eccome se mi mancavano; ero titubante e curiosa perché avevo letto da qualche parte che avrebbero suonato con “i costumi dell’epoca”, come se gli anni novanta appartenessero ad un’era lontana e remota, un’età dell’oro di cui ormai solo pochi sopravvissuti custodivano il dolce ricordo… e anche un po’ risentita perché avere 27 anni significa trovarsi immersi in quell’età di mezzo in cui gli adolescenti ti danno del Lei, in cui i commessi cominciano a chiamarti Signora e qualche coraggioso coetaneo decide di sposarsi, avere dei figli materializzando il demone della Stabilità con le sue ali nere e il suo mantello.
Gli Afterhours hanno suonato due ore. Sono saliti sul palco alle 9 e mezza, indossando occhiali da sole. Manuel ha dei capelli lunghissimi tipo Pocahontas e l’ho trovato in gran forma. L’esecuzione è stata perfetta, un crescendo ben calibrato di tutti i pezzi del disco; e poi eravamo tutti contentissimi, giovani di oggi e di ieri, quarantenni nel pogo sottopalco, magliette dei Soundgarden e dei Pearl Jam come leitmotiv. Mi sono sentita giovane, finalmente, constatando che esistono ancora persone nate negli anni Settanta; mi sono sentita giovane e mi sarei fatta sputare volentieri da Manuel, ammettendo senza vergogna che l’alternativo è il mio papà.
Anche in questa data settembrina non sono mancate chicche di repertorio (basti pensare a Strategie, La verità che ricordavo, Quello che non c’è e una chiusura trionfale su Bye Bye Bombay): sicuramente una data meno “teatrale” di quella di marzo, con un unico cambio d’abiti avvenuto fra il primo e il secondo tempo del concerto: il primo costituito da una tirata unica sulla tracklist di HPDB e il secondo dedicato, invece, al cacofonico Padania (a mio parere disco alquanto ostico da suonare live ma tant’è). L’esecuzione, impeccabile e intensa, Manuel che, a petto nudo, rotea il microfono come un guerriero ninja, il momento revival, le zanzare, Sesto San Giovanni e una notte di fine estate hanno diradato (nel tempo di una media) tutte le mie perplessità e finalmente ho capito: gli Afterhours hanno capito tutto e hanno deciso di essere generosi, regalandoci ciò di cui abbiamo bisogno.
Non solo abbiamo nostalgia di epoche mai vissute ma abbiamo anche una nostalgia estrema di quelle appena passate, nostalgia di autocompatirci, leccarci le ferite (oltre che l’adrenalina). Se non si usciva vivi dagli Ottanta, figuriamoci dagli anni Novanta: sappiamo perfettamente quanto sia stata dura ma siamo ancora tutti qui, malconci e stanchi, e ce lo possiamo raccontare.
E vogliamo raccontarcelo e vogliamo che ce lo raccontino. Forse vogliamo anche raccontarcela, irrigidendoci se in metropolitana si alzano per farci sedere, stizziti dalla sicumera dei nuovi ventenni, imbarazzati dal fatto che le matricole di quest’anno siano nate e vissute sempre sotto l’egida berlusconiana e condannati nel girone dei lavoratori flessibili, impegnati eternamente nella vana lotta contro il mulino a vento della precarietà.