Il poeta abita in un solo giardino.
Magnifica ossessione, quella che da lettore mi accompagna da anni, e si chiama Peter Handke.
Ora Guanda, nell’ambito di una più ampia riproposizione dell’opera dello scrittore carinziano, con la bella traduzione di Alessandra Iadicicco, pubblica questo Saggio sul luogo tranquillo. Che non è un trattato storico-sociologico sui cambiamenti relativi al modo di espellere i propri bisogni da parte dell’umanità, come è stato detto. Che, conoscendo l’opera del grande autore austriaco, si configura subito come chiara dichiarazione di poetica, e libera divagazione sulle condizioni che danno luogo alla scrittura.
Il luogo tranquillo è in primis la toilette di un romanzo letto da Handke, E le stelle stanno a guardare di Cronin, dove il piccolo eroe si rifugia per trovare nell’isolamento e nel silenzio la materia per sviluppare liberamente la propria fantasia: là dentro vive una luce.
Lungo il testo, il discorso su questo spazio privilegiato di ritiro e serenità è anche sragionamento su certi barlumi che lì si formano – e che aiutano il libero sfogo del pensiero umano – e su determinati rumori o voci sentiti da lontano, o tracce intraviste nei paraggi, che generano la narrazione.
Io, alla prima lettura, avevo pensato a quella scena di Nel corso del tempo di Wenders, nella quale Rudigler Vogler, in un campo all’aperto, bianco e nero, si accovaccia e defeca, e non si capisce bene, dove miri il suo sguardo, una cagata a cielo aperto: che sia lì, l’origine della lingua, della cultura, che sia nell’atto più basso e umile, l’atto di defecare, e concimare la terra, che voglia dirci questo Handke, che cioè nel momento di maggiore intimità e raccoglimento, – e di bestialità, asocialità – lontananza dal contemporaneo stato delle cose, dato dal Luogo Tranquillo, stia l’origine della parola? Letteratura come fenomeno minore essenzialmente asociale, cioè costruito ai margini della nostra umanità?
Tutto il saggio è una ripresa, nel ricordo, dei differenti luoghi tranquilli attraversati dallo spirito dell’autore, che si identifica col narratore: si segue la storia del luogo tranquillo senza una direzione precisa, partendo dalla Carinzia e dalla latrina della casa di campagna, passando per confessionali, infermerie e i cessi di varie stazioni: salta all’occhio la lontananza, lo stare in disparte, del Luogo Tranquillo, ma anche subito la particolare illuminazione: un chiarore diffuso. Cogliere questi due aspetti sarà fondamentale per la comprensione profonda del libro, che non è tanto un saggio sul water come luogo tranquillo, ma una camminata e una (coscienziosamente) disordinata indagine per figure e memorie sulle condizioni dell’ispirazione del fabulatore-poeta. Perché la luce avvolgente del Luogo Tranquillo apre un nuovo campo percettivo, suscita pensieri, e immagini di immagini, e soprattutto accoglie.
I luoghi tranquilli dell’infanzia, quelli nella casa del nonno, non erano ancora veramente percepiti come tali, perché non frutto di fuga. Ma nel corso del libro il posto tranquillo si presenta soprattutto come luogo di ritirata dalla rigida amministrazione degli spazi: che sia in un collegio, o in un’università, o persino in un cimitero, il gabinetto rappresenta, dentro il razionale, il punto di partenza verso esperienze altre, e più alte, emozionali. Prima certo è un semplice luogo di riparo, dentro il collegio, per esempio; poi però dalla condizione di orfano pisciasotto il passaggio alla condizione di fabulatore è dato dall’ascolto dei fruscii lontani. Il luogo tranquillo è la stanza dove intuire e confessare la tonalità di una nuova rappresentazione del mondo. Qualsiasi dettame dogmatico è escluso, qualsiasi regola scritta, e soprattutto appresa per irregimentazione da altri, viene cancellata.
Il giovane è un malato che necessita di essere curato dagli spazi, ma la febbre, lo status di possessione e ispirazione che coincide con la scrittura, non va del tutto sanata. Ecco che si apre un nuovo sguardo, che poi incontreremo ancora nelle ultime pagine di questo piccolo capolavoro:
Un paesaggio che, con i suoi boschi e prati disseminati di mucche al pascolo, era molto familiare e al tempo stesso nuovo, non vi erano più i confini del collegio.
In ogni parte del libro vivono due richiami, e lo scrittore è sempre in mezzo: c’è qualcosa che viene dall’alto, di trascendentale, una luce, e dall’altro lato s’incontra la bassura, letame mischiato a paglia. In questo limbo concesso dal Luogo Tranquillo affiorano le storie. La ricerca del Luogo Tranquillo è così tentativo di avvicinamento alla libertà necessaria allo scrivere: e noi capiamo chiaramente che Handke ci sta parlando proprio di questo, quando fa riferimento al suo testo sperimentale I calabroni, o al suo più grande libro, quel vagabondaggio nel paesaggio che è La ripetizione.
Handke in questo modo risale la genealogia della propria opera letteraria fino alla sorgente primeva, cioè l’ascolto dei luoghi, e la percezione affettiva della durata, che più che essere un “cogliere l’attimo” è un continuo ritorno sui propri passi, un’infinita ripresa di pose svianti. Il Saggio sul luogo tranquillo porta in prosa quanto già manifesto nella poesia di Canto alla durata: ripetizione è il piacevole delirio intuitivo di sentirsi al proprio posto, e di volerci rimanere. Ripetersi nell’accoglienza dello spazio, librarsi dentro una certa durata. Dall’esperienza del posto tranquillo viene il linguaggio: prima della parola sta il silenzio, e lì va a rannicchiarsi Handke.
Un’apertura e rivelazione definitiva, quella del Luogo Tranquillo, che coltivata nel tempo arriva fino a non necessitare della presenza fisica in un particolare posto, poiché si trova nel presenziare affettivamente all’Evento: la patina davanti agli occhi è tolta, bastano l’oggetto necessario e il senso di protezione: «Quello allora diveniva un luogo tranquillo».
La coscienza di stare nel Luogo Tranquillo è una deviazione dalla naturale condizione di orfano e apolide, dello scrittore austriaco: lì dentro ritrova la terra, la madre, una patria dell’immaginazione in cui vivere, «ed era come dondolare ed essere cullati».
C’è dunque all’origine uno strappo, la pisciata nei pantaloni ne era il sintomo: il senza padre non è soltanto il montanaro della Slovenia meridionale, per sua natura emarginato dalla società, ma è anche un bambino ferito, sofferente per la distanza da casa, esiliato.
Uno dei massimi punti nella crescita dello sguardo premoderno cui somiglia la partecipazione al luogo tranquillo è perciò il ritrovarlo ovunque, in un qualsiasi posto, come punto di fuga, via di ritorno, padre vicino: come quando in una mensa alla televisione proiettano al tg la notizia della morte di Faulkner. Cala il silenzio. Ecco però il mentore, l’iniziatore della parola, e custode, nel caos odierno, della familiarità del Luogo Tranquillo.
Ed è senz’altro atteggiamento del corpo, spostamento, gesto imprevisto, testa all’indietro. Rivolgersi al proprio Angelo-Musa nascosto: penso alla percezione del Luogo Tranquillo come sguardo dall’alto, a volo d’uccello – sarà casuale la comparsa di così tanti volatili nelle pagine finali? -, penso alla cinepresa del Cielo sopra Berlino, e alla parola handkiana che ne scaturisce come dall’oltretomba, come dal regno del possibile, e dei non-nati (bambini prima che nati).
Facile sentirlo, questo sentimento d’immanenza nel proprio posto, visitando i cimiteri, per Handke: «Le anime dei trapassati si ridestavano, ti facevano cenno, e ti fluttuavano accanto». Cosa abbia a che fare la scrittura con la morte e coi camposanti ce lo dice più avanti, parlando del cimitero di Nara. Farsi investire da un bagliore, superare soglie, guardare attraverso fessure, compiere un passo nella direzione indicata dal risvegliato occhio interiore.
L’accademia, il rigore, vanno aggirati: ogni spazio burocratico nasconde in sé stesso la propria falla.
Nel caso dell’università è ancora una volta il cesso, luogo di momentaneo rimpatrio dei pionieri delle lettere. Chino sul lavabo a lavarsi i capelli, come lo scemo del villaggio, genera parole differenti, nuove, solitarie. Stare nel luogo tranquillo è come trovarsi in un film di Ozu, inginocchiati in una delle stanze e bere sakè. Nel di qua radicale rappresentato dal Luogo Tranquillo agisce uno spirito capace di liberare, accogliere e generare.
Il Luogo Tranquillo è per Handke frutto di intuizione, idea da continuamente circumnavigare, illuminazione spaziale da cui farsi di nuovo investire: si tratta di fare una promessa al luogo e a se stessi, affermazione di spensieratezza e lettura di tracce, deviare dall’alveo principale.
Nasce così il racconto, seguendo i lontani fruscii, le voci dell’aldilà, del fuori lontano: fantasticare. Gesto archeologico di nuova configurazione: le impronte rimaste nei water danno il via a immaginazioni libere. Ma lo scrittore, come il protagonista di un altro grande romanzo di Handke, Il lento ritorno a casa, è anche un misuratore di spazi, un geometra, cui dio concede la parola per segnalarci la meraviglia, l’apparizione di una forma, l’evento della durata delle cose percepite come nuove, con vergini occhi di bestia.
Epifania scaturita dalla solitudine del Luogo Tranquillo, questo ritorno alla Parola Prima si manifesta nella pagine finali, dalla 96 alla 100. Quando, come oggi, il fuori toglie respiro, con la scomparsa nel luogo tranquillo, momentanea dipartita e viaggio tra ombre, nasce una lingua fresca, limpida; animale tra animali, lo scrittore porta a noi quel suo canto pagano di lode alle creature:
«Le allodole, sopra i campi lasciati a riposo […]
Poi c’era il fagiano, che andava su e giù di fronte a casa […]
E la famigliola dei cinghiali che, dopo essere sopravvissuta a un altro giorno di caccia, grugniva a più voci nel sottobosco […]
Le civette, in pieno giorno, volavano fuori dal loro nascondiglio […]
A ciò si univa lo schiamazzo delle galline, il muggito dei bovini, il gemito dell’asino o il suo mutismo».