Mi è capitato di recente di leggere due romanzi molto diversi ma i cui titoli contengono entrambi la parola eroi: L’eroe discreto di Mario Vargas Llosa e Gli eroi imperfetti di Stefano Sgambati.
Dopo queste letture, quasi involontariamente, sono finito a riflettere su quanto la parola eroi sia stata consumata e abbia perso significato (desemantizzazione). In effetti si tratta di una delle parole più consunte e strapazzate dalla retorica di tutti i tempi (da una parte e dall’altra, senza distinzione, ha riempito le bocche di tutti). In questo processo di abuso lessicale credo però che la nostra cultura più recente abbia rimosso e deviato definitivamente il concetto di eroe (in passato era la finalità ad essere discutibile non l’azione, che poteva essere falsificata ma non poteva essere assente). Come siamo arrivati a una perdita di significato così profonda? Quale processo ha deviato nella nostra cultura il concetto di eroe ben al di fuori del suo significato originario?
Partiamo dall’inizio, partiamo da Vargas Llosa, uno dei protagonisti del suo più recente romanzo si oppone in maniera ferma e decisa alla richiesta del pizzo. Si scoprirà attraversando una meravigliosa narrazione come in realtà Felicito Yanaqué, oltre ad essere completamente contrario a piegar la testa a un ricatto, abbia anche una discreto numero di segreti. Segreti che incrinano di un bel po’ la sua posizione morale e che, alla fine dei conti, sono causa dei suoi mali (e si sa, chi è causa del suo mal pianga se stesso). È però importante sottolineare come ne L’eroe discreto il valore etico derivi non da una decisione personale ma dal giuramento richiesto in punto di morte dal padre a Felicito «di non farsi mai mettere i piedi in testa da nessuno».
Insomma, il protagonista è un eroe perché mantiene acriticamente un giuramento fatto al padre. Fin qui, comunque, tutto bene: nonostante lo slittamento l’eroe è pur sempre chi è disposto a rinunciare a tutto per seguire un’ideale (per quanto in maniera acritica). Felicito è a pieno titolo un eroe, per quanto questa acriticità colpisca proprio l’elemento di maggior soggettività del concetto: l’ideale, la finalità dell’atto. A venir meno non è l’azione ma l’elemento di soggettività morale che dev’esser coerente con i valori condivisi dalla società o da un gruppo di persone (una SS era un eroe per i nazisti).
Subito dopo ho invece letto Gli eroi imperfetti. Nel libro di Sgambati il concetto di eroismo si complica e si modifica ulteriormente, e la questione diventa più interessante. Per rendere l’idea potrei partire dalla quarta di copertina, che cita il testo:
Gli eroi non si arrampicano sugli alberi nelle foreste amazzoniche, non si fanno sparare in Bolivia, non tendono agguati e non organizzano frange d’opposizione. Gli eroi si siedono a un tavolino da due e trovano qualcosa da dirsi, occhi negli occhi, rimanendo zitti durante la salita in ascensore. Questi sono gli eroi, gli stakanovisti della vita
Lasciando stare il resto del libro, che è un prodotto davvero ben fatto e ben scritto, a interessarmi è stata proprio l’idea di eroe che soggiace. Innanzitutto, questa frase fa ben capire la confusa base logica dell’eroe tipo in questione, ha infatti lo stesso valore logico di:
Gli eroi non si commiserano nei cocktail bar a Shangai, non si fanno massaggiare in Thailandia, non montano tende e non progettano film d’animazione. Gli eroi si siedono a un tavolino da due e trovano qualcosa da dirsi, occhi negli occhi, rimanendo zitti durante la salita in ascensore. Questi sono gli eroi, gli stakanovisti della vita
O anche di:
Gli eroi non si arrampicano sugli alberi nelle foreste amazzoniche, non si fanno sparare in Bolivia, non tendono agguati e non organizzano frange d’opposizione. Gli eroi si siedono a un tavolino da due e fumano oppio, occhi negli occhi, scoreggiando zitti durante la salita in ascensore. Questi sono gli eroi, gli stakanovisti della vita
Quindi nessuno.
È forse il caso di ripartire dalla definizione di eroe: a. Nel linguaggio com., chi, in imprese guerresche o di altro genere, dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie: comportarsi, combattere, morire da e.; gli e. omerici, gli e. della Tavola Rotonda; un e. del Risorgimento; l’e. dei due mondi, titolo attribuito per antonomasia a G. Garibaldi; fig., fare l’e., esporsi ostentatamente e senza necessità a pericoli. Con uso antifrastico, di persona pavida: è proprio un vero e.; che e.!, che bell’eroe!; e per litote, non essere un e., avere doti normali (o anche limitate) di coraggio e di abnegazione. Talora è usato come agg.: un popolo eroe. b. Chi dà prova di grande abnegazione e di spirito di sacrificio per un nobile ideale: e. della fede, della libertà, della scienza; gli e. della carità. (http://www.treccani.it/vocabolario/eroe/).
Leggendo la definizione il dubbio può nascere sulla morale e le finalità (come in Vargas Llosa), oppure al massimo su cosa si intenda per “azioni straordinarie”, ma il significato della parola non può in nessun modo slegarsi da un nobile ideale o da una situazione di grave pericolo …. Se lo si vuole slegare allora bisogna semplicemente usare un’altra parola, altrimenti da potente figlio di una divinità l’eroe si trasforma in buon borghese ordinato e alla fine anche cucinare una aglio e olio può diventare eroico.
L’eroe non è più l’essere umano senza macchia che insegue un’idea di giustizia con straordinari mezzi intellettivi e fisici ma chi semplicemente conduce la propria vita. Insomma, andiamo verso l’eroicizzazione del vivere borghese e dei dolori del giovane Brambilla Fumagalli.
Perché può essere interessante questo sproloquio? Innanzitutto perché le parole sono importanti e lo studio del lessico non è una passatempo per onanisti stanchi ma può essere un prezioso termometro dell’evoluzione culturale. Una traslazione di significato così profonda è sintomatica proprio di un cambiamento di mentalità, di uno spostamento di realtà.
È questo ad essere interessante e che vorrei provare ad interpretare. Capire come da Achille, Garibaldi, Gilgameš, Batman, Superman, Martin Luther King, Don Chisciotte, Che Guevara .. siamo arrivati a Brambilla Fumagalli che fa la aglio e olio.
Qui entriamo nel campo dell’interpretazione e dell’ipotesi bella e buona, ma ci proviamo. La realtà in cui viviamo, per fortuna, non è più popolata di situazioni estreme, non ci mette di fronte a mortali bivi morali. Non essendo più a contatto con queste situazioni siamo più portati a ritenere eroiche cose che fino a pochi anni fa erano ritenute cose semplici e normali: la vita quotidiana. Ingigantiamo i problemi dell’uomo comune fino ad avere una visione distorta anche della grandezza altrimenti sempre più lontana. Del resto tanta parte della letteratura occidentale si è concentrata e ha portato in primo piano gli struggimenti interiori e la dimensione intimistica dell’umanità borghese. Tutto ciò credo abbia aiutato lo slittamento di cui dicevamo sopra per cui l’eroe è colui che fa il normale, che affronta la sua quotidianità senza soccombere (e con ciò non voglio dire che la quotidianità non sia faticosa).
A questo punto sorge spontanea la domanda: e se uno fa l’eroe davvero? Perché è vero che non viviamo più situazioni estreme come quelle che vissero i nostri nonni, ma è anche vero che gli eroi (etimologicamente) esistono ancora. E allora come li consideriamo?
Per fare degli esempi, chi si impegna contro la mafia a rischio della vita, chi si impegna per migliorare le condizioni delle popolazioni africane, chi raccoglie i pomodori per mantenere la famiglia, chi rischia la vita per la pace, chi rischia la vita per informare il mondo, ecc., come vengono visti dalla nostra società? A livello sociale rimangono ufficialmente in un limbo di ammirazione, un’ammirazione che si è imparato essergli dovuta (un retaggio culturale). Ma grattando solo un poco in più, ascoltando il discorso del signore seduto al bar con il giornale si vede il «bravo bravo bravo, non avrà niente da fare, ma del resto sono scelte di vita» fino al più esplicito «ma chi gliel’ha fatto fare? Se l’è cercata». E non è solo una incomprensione totale per una realtà distante in cui si lavora per sopravvivere in cui i problemi da affrontare sono reali, pratici e interiormente laceranti. È anche una scala di valori cresciuta nel tempo, dal dopoguerra ad oggi, in cui il valore dell’uomo sta nel lavoro, nel mantenere la famiglia, nella scalata sociale ed economica, nel tenersi lontano da guai che non lo riguardano e (se forse non l’ho ancora detto) all’incompatibilità concettuale tra EROE e BORGHESE (non c’entra niente in questo caso l’eroe borghese che eroe lo era per davvero), tra il sistema di valori del sistema capitalistico e i valori morali/eroici.
Forse sarà solo una mia impressione, forse sarà solo una riflessione sconclusionata, sicuramente è un’interpretazione discutibile, ma Sgambati (non so quanto coscientemente) ha finito per colpire il ventre molle della nostra società, un punto vivo che meriterebbe la riflessione di tutti e un’analisi migliore di quella che ho saputo fare io.