Se di ingegneria critica si tratta, sarà delle più morbide e tradizionali: è una pratica costante contrapporre due modelli di poesia, e mi atterrò a questa facile, ma utile, usanza. I libri in questione sono di Tommaso Di Dio, Tua e di tutti, uscito nel giugno 2014, e di Jacopo Ramonda, Una lunghissima rincorsa. Prose brevi, febbraio 2014. Gli autori si passano solo un anno, nati nel 1982 e nel 1983. Tralascio le solite considerazioni sulla “giovane” età, distinzioni tra opera prima o seconda, didascalie sul marchio editoriale. Tutto li accomuna, tranne l’idea di poesia. O il loro punto di vista su ciò che è la poesia. A una prima lettura non sfuggiranno quattro opposizioni: difficoltà del verso vs linearità della prosa; apertura epica verso la totalità vs parcellizzazione atomistica e individuale; vita come soffio vs vita come storia personale; modelli lirici vs modelli analitici.
Tua e di tutti affascina subito, con il taglio sicuro dei versi, la precisione e la dolcezza delle parole, l’ordine franto della frase, il respiro spezzato dagli enjambements innaturali e violenti. La sua poesia instilla la speranza che questo mondo e questa vita siano abitabili, portando uno sguardo delicato sull’albero che non notiamo più, sugli strati di terra che ignoriamo o le anse del fiume di cui non conosciamo il lavorio, sulla persona che ci sta accanto, sulla mendicante in cerca di calore. Ha tratteggiato un mondo bisognoso di essere compreso, portato alla luce, rischiarato da una avvolgente intuizione: siamo parte di un tutto e questo tutto ha il sapore del dono. Lo ha fatto senza retorica, stringendo i testi in un percorso di senso, necessario e naturale insieme.
Una lunghissima rincorsa conquista con la minuziosità e linearità della sua prosa, l’ordine analitico delle frasi, che scrupolosamente sezionano emozioni, gesti, vite. In queste prose, come in delle novelle, il lettore trova uno specchio glaciale e spietato in cui prendono forma i suoi fallimenti, le sue frustrazioni, i suoi inceppamenti. L’immagine è quella di un mondo frammentato in tante vite duplicate, ordinarie, schiacciate da pesi che si finge di non vedere, compresse e non salvate da nessuno spiraglio. La clausura dei suoi personaggi non offre sbocchi su soluzioni né su consolazioni possibili: tutto, impassibile e inarrestabile, si svolge come se i personaggi stessero guardando il film (la vita) di un altro a-eroe.
Di Dio: … c’è una vita | nella vita che ancora non ha | trovato un nome. (p. 30); Ramonda: Ripercorro le deviazioni che ho imboccato senza rendermene conto, forse per mancanza di intuito o di esperienza, e che mi hanno portato qui, a questa vita che non mi somiglia, che sembra essere frutto di un equivoco. (p. 63). Da queste piccole notazioni emerge l’abissale differenza fra le due posture discorsive. Di Dio è lirico, tende all’astratto, l’illimitato; Ramonda invece è razionale, esamina la contingenza, chiude gli eventi nel cerchio dell’io. La parola “vita” entra nel loro discorso con due accezioni diverse: per Di Dio essa si riconduce al soffio, l’energia primordiale che trapassa tutti gli esseri; per Ramonda essa coincide con la biografia di ciascuno, con la sequenza di eventi che connota l’individuo.
Il primo aspira alla totalità: “tutto” compare ventotto volte nel testo, più una nel titolo (l’incipit del libro: Tutto questo non possiamo noi dimenticare, p. 15; alcuni esempi: e sembra tutto catrame | questo tempo, p. 23; Mi chiedo come tenere tutto questo, del mondo e | della mente, p. 51). Nel secondo, una stagna parcellizzazione isola gli individui nel loro ordinario orizzonte personale: ognuno partecipa di una storia che è solo sua, unica e solitaria. Prevale pertanto il timore di essere solo una copia: Per descrivere le mie giornate tutte uguali si potrebbero usare quelle immagini di repertorio con cui montano i servizi dei telegiornali a Natale e a Ferragosto, quando non c’è niente da dire. (p. 86).
Anche l’adesione a un modello discorsivo si rafforza nei finali, spesso di grande impatto e bellezza. L’appartenenza di Di Dio a un orizzonte lirico si esplicita per esempio nei frequenti rimandi a Sereni concentrati nelle chiuse: Sono queste cose che non continuano | dopo di noi, che muoiono | con dolcezza, senza di noi (p. 53) ribaltano i celebri versi … la duplice | la subdola fedeltà delle cose: | capaci di resistere oltre una vita d’uomo | e poi si sfaldano trasognandoci anni o momenti dopo (Il muro); il tombale nulla nessuno in nessun luogo mai (Intervista a un suicida) traspare nei finali in negativo come: … Qualcosa va perduto | non sarà di nessuno nessun tempo lo avrà | mai. (p. 21), Ma lei dove è stata dove è | nessuno potrà dirlo mai. (p. 28), … Nessuno | finché vive, potrà dimenticare | cosa chi una per volta per tutte va || mentre nessun pronome resta. (p. 52). La scomposizione chimica delle situazioni è invece per Ramonda un pungolo per cercare nuove immagini nelle scienze naturali: Mentre parliamo, presto particolare attenzione a quello che non mi dici. Mi chiedo di quanti decenni siamo invecchiati quest’anno; immagino di tagliarti a metà, all’altezza della vita, per contare i cerchi concentrici. (p. 27); V. sostiene di aver sentito dire, probabilmente in un documentario sullo spiaggiamento dei cetacei, che non si conosce la ragione precisa per cui, ogni anno, un notevole numero di esemplari si arena a riva. Stando ai ricordi di V., alcuni studiosi ritengono che finiscano semplicemente per perdersi, mentre altri non escludono l’ipotesi di un disorientamento interiore più profondo e radicale, che culminerebbe in questo atto di autoeliminazione. (p. 69)
Anche il tu (noi), quando appare, è immerso in una luce differente, calda e caritatevole in Di Dio, fredda e disillusa in Ramonda: Ho cara la tua carne […] Tu invece mostri | come la tua carne sempre sia | foglia, neve; tu non hai paura | ogni giorno di fronte a me | di cadere. (p. 37); Come archeologi del rancore, scaviamo a mani nude negli anni, riportando alla luce vecchi torti, scorie radioattive seppellite sotto una colata di cemento. Siamo carie, ruggine. Il livore è cresciuto in noi come una stalattite, goccia dopo goccia, fino a diventare tangibile, solido: un monumento del nostro malessere. (p. 43).
Anche la riflessione sull’identità in relazione ai luoghi abitati si scinde in due modalità opposte: Di Dio scrive: Ho cercato tanto un tempo del tempo | per dire qui. (p. 46). Ramonda: si ripete che devono solo finire di portare lì le loro cose, e presto anche quel posto diventerà un nuovo modo di dire casa. (p. 70). Tanto il primo è disincarnato e metafisico quanto il secondo è contingente e sedentario. Ma a entrambi è comune la necessità di “dire”: dire qui, dire casa, hanno scritto: anche l’identificazione del soggetto in un luogo abitabile passa attraverso la parola. Anche su questo tema centrale della nostra esperienza, i poeti hanno molto da insegnare.
Di Dio e Ramonda ci hanno dato quest’anno due libri di grande valore. Leggendoli in parallelo, si gustano due strategie inconciliabili che però condividono un presupposto: la necessità della poesia. Che si tratti del lirismo dolce di Di Dio o dell’analisi suggestiva di Ramonda, entrambi celebrano la freschezza di una parola capace di dire qualcosa di noi. Anche lui, mentre mette in opera il mondo | sorride | in nome di nessuno. (p. 15). Anche questa, sai, è soprattutto una questione di sistemi di riferimento. (p. 50).
Tommaso Di Dio, Tua e di tutti, Faloppio, LietoColle, 2014, pp. 89, € 13
Jacopo Ramonda, Una lunghissima rincorsa. Prose brevi, introduzione di Andrea Inglese, illustrazioni di Ilaria Bossa, Roma, Bel-Ami Edizioni, 2014, pp. 94, € 10