Potrebbe davvero sembrare che Anna Karenina e il capitano Achab non abbiano nulla in comune, se non le lettere iniziali dei loro nomi. Cosa c’entra un vecchio storpio ossessionato da una balena bianca con una fascinosa adultera dallo strano rapporto con la rete ferroviaria? Presumibilmente Achab non l’aveva nemmeno mai visto un treno.
E in effetti il brodo di Tolstoj era tutto diverso da quello di Melville: se uno viene dall’alta società della Russia zarista, pregiudiziosa e opprimente come l’impero di cui fa parte, l’altro è ancora fresco degli ideali di un’America giovane, che trova nella sua stessa ragion d’essere la democrazia e paventa l’eccessivo individualismo in nome del bene comune. Mondi diversi, non c’è dubbio, ma che condannano allo stesso modo chi deborda oltre i confini delle loro regole; questo perché qualsiasi collettività, in ogni tempo e in ogni spazio, si basa su criteri pratici e razionali di funzionamento. Personaggi come il capitano Achab e Anna Karenina sono connotati da un’irrazionalità che non è utile alla conservazione della comunità, perché nel peggiore dei casi ne minano l’equilibrio, nel migliore sono solo autodistruttivi. Per questo motivo sono considerati devianti dalle società in cui si trovano a vivere e per questo motivo si assomigliano più di quanto sembra.
Melville ci segnala subito che Achab è “al di sopra del normale” fin dalla sua prima entrata in scena, perché porta in volto sfrontatamente i segni della sua ossessione: una cicatrice gli attraversa la faccia e non ha una gamba; la balena bianca l’ha “disalberato”. Insomma, a pelle Achab non sembra esattamente il candidato ideale cui affidare le sorti di un equipaggio, di una baleniera e del suo remunerativo bottino. Sorprendentemente però chi lo conosce racconta che sì, il capitano ha combattuto contro la balena bianca e che sì, forse ha perso il senno per qualche tempo dopo l’amputazione, ma adesso è di nuovo in sé: è un vecchio marinaio con moglie e figlio che “non ha qualche tara decisiva e irreparabile” ed è pronto per salpare ancora.
Solo una volta in mare aperto il capitano rivela ai marinai l’unico vero fine del viaggio: uccidere Moby Dick. Ed è qui che la pericolosità di Achab emerge in tutta la sua potenza, perché in pochi istanti l’intera ciurma accetta entusiasta di inseguire un’unica balena, dimentica di ogni razionale scopo mercantile. Tutti vittime del contagio di un’ossessione.
Anche se la baleniera è una collettività un po’ strana, i criteri che la regolano non sono poi molto diversi da quelli di ogni società: la caccia si fa se si può vincere. La battaglia contro Moby Dick, al terzo giorno – e forse già al secondo – è una battaglia persa, lo sanno tutti. Anche Achab lo sa, ma lui non conosce istinto di sopravvivenza, conosce solo la sua diabolica ossessione. E dopo essersi alienato completamente dal resto della nave scompare negli abissi insieme al bianco oggetto del suo desiderio, fusi per sempre.
Qui il cerchio delineato all’inizio del viaggio si chiude. La fine che attende Achab non poteva essere diversa: colui che non accetta la realtà e i suoi compromessi, finisce inghiottito in un vuoto assoluto, bianco abbagliante.
Poi c’è Anna Karenina, giovane signora capace con la sua vitalità di affascinare uomini e donne; è amata dal marito, dal figlio, dai parenti, dall’intero bel mondo moscovita. Lei ha davvero tutte le carte in regola non solo per far parte della sua società, ma addirittura per esserne albero maestro. Anche sul suo volto però, a guardar bene, c’è un che di inconsueto e malcelato, “come se un’abbondanza di qualcosa colmasse talmente il suo essere al di fuori della sua volontà ora nello scintillio dello sguardo, ora nel sorriso”. Quando la incontriamo la prima volta il suo ardore è tutto in potenza, finché non si riversa nell’affair con il Conte Vronskij. Questa relazione, nella Russia di metà Ottocento, avrebbe anche potuto esistere se vissuta in segreto tra i due amanti; ma Anna, per sua natura, è granitica nel voler vivere interamente questa passione, sua nuova ragione di vita. Il primo a metterla in guardia da se stessa è proprio il marito, che le pone come unico veto di non ricevere in casa l’amante, e lei lo infrange. Piano piano la passione diventa manifesta ossessione, portandola prima a fare rinunce impensabili, poi travolgendola completamente. Anna per Vronskij – che per altro non è niente di speciale ed è anche un po’ vigliacco, ma incarna l’ossessione – è disposta a tutto.
Così viene lentamente esclusa dal suo bel mondo finché realizza di non poter più comprendere quella stessa società in cui aveva per un po’ recitato tanto bene la sua parte; e allora si butta sotto un treno, pieno di gesti sfuocati e di persone ormai incomprensibili.
Ecco l’ultimo punto in cui i nostri protagonisti dalle stesse iniziali si incontrano: Achab sprofonda con la sua balena bianca e Anna, poco prima di essere travolta, vede un ultimo squarcio di luce chiara. Sia Melville sia Tolstoj sembrano suggerirci un colore, il bianco. Forse perché racchiude una purezza che entrambi i protagonisti in fondo cercano, ovvero l’unione ideale con il proprio desiderio incontaminato dalla realtà e dai suoi limiti. Perché il vecchio capitano e la giovane signora, in egual maniera, non accettano la morsa di una vita reale, fatta di una quotidianità insufficiente per uno spirito fuori dall’ordinario, e scelgono di morire in nome di un ideale che forse ha solo l’apparenza di un conte o di una balena.