Questo articolo è uscito sul n. 3 di «Orlando Esplorazioni»

Il 21 novembre 1989, all’indomani della sua morte, i principali giornali italiani ricordavano Leonardo Sciascia, come l’“anticonformista che sfidò il potere”, “l’intellettuale contro”. È questa l’immagine che più tradizionalmente ci viene consegnata dello scrittore siciliano. I ragazzini lo incontrano molto presto, tra i banchi di scuola, leggendo Il giorno della civetta o A ciascuno il suo, esemplari rappresentazioni dei meccanismi oscuri e silenziosi attraverso cui la mafia s’insinua nelle pieghe della società civile. Per questa strada Sciascia assume la statura di un’icona, quella del fustigatore del malcostume, del denunciatore delle collusioni tra mafia e politica; scrittore siciliano, Sciascia ci parla da una Sicilia che si erge a “metafora” del mondo, archetipo di tutto quanto accade anche nel resto della nostra società.

Eppure c’è qualcosa di più per cui varrebbe la pena oggi riprendere in mano i suoi libri, qualcosa che rende Sciascia un “classico” della letteratura prima ancora che dell’impegno civile, qualcosa che ne stacca il profilo sullo sfondo di tanti scrittori che ieri e (soprattutto) oggi cercano nella denuncia o nell’invettiva la propria investitura intellettuale. La carica etica che anima la sua verve accusatoria, l’icastica persuasività delle sue indagini e l’esemplarità delle sue rappresentazioni traggono tutte forza da una medesima fonte: la fiducia nella “superiorità ispirata” della letteratura.

In un tempo come il nostro, in cui la lettura del presente viene spezzettata tra le competenze di diverse branche del sapere (dalla sociologia all’abominevole scienza della comunicazione, a una cultura psicanalitica “q.b.”) e dove, per converso, allo scrittore si chiede un’infarinatura generale che permetta di esprimersi con familiarità sul tema del giorno, la potente presa di posizione a favore della finzione e dell’invenzione, elementi letterari per eccellenza, rende Sciascia quantomeno inattuale. Troppo manifestamente parziale l’idea che la letteratura non vada potenziata con il ricorso ad altre conoscenze, ma che porti già in se stessa tutto quanto possa spiegare e interpretare la realtà.

La sua posizione è quella di chi non può accettare che la realtà si limiti a uno strato di superficiale chiarezza, di apparente comprensibilità di fronte al quale l’uomo taciti le proprie domande: c’è un’intera tradizione letteraria pronta a riaccenderle (da Montaigne agli amati Pirandello e Brancati, passando per l’illuminismo di Voltaire). Per questo Sciascia ha sempre portato la sua attenzione su quei momenti della storia in cui il mistero ha imposto la propria presenza: dall’immaginario imbroglio del Consiglio d’Egitto fino alle tante ricostruzioni documentarie di piccoli e grandi casi irrisolti della storia, Sciascia ha sempre affrontato la sfida dell’ignoto dalla specola dell’«uomo di lettere» (definizione che preferiva a “intellettuale”, «termine di generica e imprecisa massificazione»), di cui collaudò un codice di comportamento fatto tanto di intransigenza morale quanto di spregiudicatezza creativa. Da questa prospettiva, la più pesante eredità che egli ha lasciato ai posteri è custodita in due libretti usciti a distanza di pochi anni: La scomparsa di Majorana (1975) e L’affaire Moro (1978).

La scomparsa improvvisa del giovane fisico italiano nel 1938, il rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana per mano delle Brigate rosse nel 1978 testimoniano, a due diversi livelli, l’impegno dello scrittore di fronte alla Storia. Una Storia i cui fatti si sono inevitabilmente trasformati in documenti, lettere e testimonianze scritte, uniche tracce certe e durevoli del passaggio in vita degli uomini. E se la realtà prende la forma delle parole, viene allora naturale utilizzare, per scomporla e comprenderla, quelle tecniche che specificamente con le parole hanno a che fare: gli strumenti dell’analisi letteraria, quelli della retorica, l’intertestualità sono i perfetti grimaldelli per penetrare oltre la superficie delle apparenze e accedere alla profondità del reale. E di fronte a una realtà che assume i contorni dell’archivio, del deposito di materiali, lo scrittore non depone la propria casacca, ma anzi può permettersi di esercitare sui “testi” tutte le audacie interpretative che sarebbero legittime per una qualsiasi opera letteraria, a patto che siano sostenute da un apparato di deduzioni razionale e persuasivo. Così Majorana può diventare lo scienziato che comprende prima degli altri la possibilità della fissione nucleare e decide di sparire, presagendo le nefaste conseguenze che quella scoperta avrebbe portato con sé. Così Aldo Moro può diventare l’autore di un lungo messaggio cifrato, fatto di informazioni velate e richieste d’aiuto, decrittabile sotto la retorica oscura da lui stesso codificata in tanti anni di attività politica e, proprio per questa, non compreso dai suoi destinatari.

L’orgoglio della letteratura di fronte alle sfide della storia e della realtà quotidiana: questa è la lezione da recuperare dall’opera sciasciana. Una lezione che dovrebbe intrigare anche gli scrittori d’oggi, sempre più attratti dal “potenziale letterario” dei “buchi neri” della storia e della cronaca. Ma le loro riscritture, inquinate dalla fame di mistero del nostro presente televisivo, si accontentano di indicare ipotesi ambigue, che possono anche contraddirsi reciprocamente, lasciando in mano nulla più che un effetto di realtà. A questo contesto poco si adatta il nitore di pensiero di Sciascia, sicuro a tal punto del proprio “ruolo” da poter dichiarare la fallibilità e la parzialità delle proprie risorse per pronunciare una verità che non si pretende certo definitiva, ma sicuramente più affidabile di quelle tramandate dalla Storia.

Chi scrive sa di poter sbagliare, di poter rimanere solo, isolato, ma è un rischio che vuole correre, che deve correre. È il pegno che ogni intellettuale paga alla necessità di capire. Una necessità intima e profonda; quella necessità che distingue un “classico” da chi si accontenta soltanto di assumerne la posa.