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Visit Palestine #4 – A cosa serve il riconoscimento europeo della Palestina?

Negli ultimi due mesi sembra che la coscienza europea si sia improvvisamente ridestata. Dapprima la Svezia, poi a ruota l’Inghilterra, l’Irlanda, la Spagna e adesso la Francia hanno riconosciuto la Palestina come Stato. Il processo di riconoscimento pare aver intrapreso una notevole impennata dopo il voto transalpino in quanto si temevano dissapori e frizioni in sede di Consiglio di Sicurezza che avrebbero potuto affossare le buone intenzioni francesi.

Pare tuttavia che questo impasse sia stato superato senza particolari intoppi. Tale dimostrazione non può far altro che attrarre decisioni simili dagli ormai due ultimi stati europei di una certa importanza che ancora non si sono espressi sulla materia: Germania ed Italia.

Per la cronaca il Belgio voterà nelle prossime settimane.

Cerchiamo di capire qual è il senso politico di questo riconoscimento e quali effetti può portare concretamente.

Partiamo da una definizione giuridica.

Nel diritto internazionale, il riconoscimento è un atto unilaterale, cioè compiuto da un soggetto singolarmente, o da più soggetti collettivamente, attraverso il quale si prende atto di una data situazione di fatto o di diritto.

Tale riconoscimento si dice non aver valore costitutivo della personalità giuridica di uno Stato, in quanto questa dipende, in conformità al principio di effettività, dal fatto che il nuovo ente (Stato) da un lato sia in grado di amministrare il proprio territorio e la propria popolazione, e dall’altro agisca in piena indipendenza nelle relazioni internazionali, su un piano di parità con gli altri soggetti internazionali. Nel caso della Palestina ad esempio possiamo dire che l’ente agisca come uno Stato, in conformità dunque al principio di effettività, in quanto dotato di strutture di governo in grado di amministrare un territorio e una popolazione e in grado di intrattenere rapporti di tipo internazionale. Le visite di Abu Mazen presso l’Unione Europea, le Nazioni Unite o con alti Stati della regione testimoniano questa capacita. Il riconoscimento di Stati, dunque, se abbiamo detto non avere una valenza costitutiva, ha sicuramente una valenza politica, testimoniando la volontà degli Stati pre-esistenti di intrattenere relazioni internazionali con lo Stato riconosciuto. Questo fatto è rilevante dal punto di vista giuridico poiché gli Stati che procedono al riconoscimento mostrano in tal modo di ritenere che sussistano tutte le condizioni previste dal diritto internazionale per la formazione di un nuovo Stato.

Fatta questa breve introduzione di carattere giuridico risulta più facile intravedere il senso politico del riconoscimento dello Stato palestinese da parte degli Stati europei.

Prima di questo particolare momento storico la Palestina era comunque già riconosciuta dalla maggior parte degli Stati del mondo, tuttavia si trattava di stati dalla esigua capacità politica e dalle deboli forze economiche. Parliamo della maggior parte degli stati africani, degli stati asiatici e degli stati sudamericani. Mancando però l’appoggio politico dell’Europa e degli Stati Uniti, schierati con Israele, la Palestina deficitava del riconoscimento politico degli stati più ricchi e più potenti.

Cosa è cambiato dunque in questi pochi mesi?

L’ultima guerra di Gaza ha riportato sui tavoli internazionali la questione Medio-Orientale che era invece stata da qualche tempo messa da parte data l’emersione di altre crisi più urgenti, l’Afghanistan e l’Iraq a partire dal 2003, la questione nucleare in Iran, la guerra in Libia, la guerra civile in Siria, le primavere arabe che hanno sconvolto il nord Africa, e da ultimo la deriva islamista/jhiadista dell’ISIS.

L’attacco israeliano dello scorso giugno ha riacceso i riflettori sulla cruciale questione israelo-palestinese che da molti è stata vista come la vera e cruciale sfida su cui si gioca l’equilibrio di tutto il Medio Oriente.

Israele ultimamente ha rivelato al mondo i propri piani politici, dichiarando che la soluzione a due stati ormai è morta che l’amministrazione di Tel Aviv perseguirà esclusivamente la soluzione a uno Stato in quanto non ci sono altre soluzioni sul tavolo.

Le dichiarazioni di Naftali Bennet – ministro dell’economia – al «New York Times» del 5 novembre scorso non lasciano molto all’interpretazione: «For Israel, Two-State Is No Solution».

Il consesso delle potenze Europee nel periodo giugno-agosto 2014 è stata obbligato a prestare attenzione al massacro che si stava compiendo sulla sponda orientale del Mediterraneo e ciò ha costretto a una riflessione.

Ultimamente la visita dell’Alto rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini ha risottolineato la necessità di trovare nel breve periodo una soluzione condivisa, riportando dunque alla luce quella paventata possibilità di una soluzione a due stati che pare essere stata messa sotto al tappeto sia dalla parte israeliana che, a dir la verità, anche dalla controparte palestinese, la quale oramai ha perso qualsiasi fiducia in tale ipotesi.

Gli stati europei dunque al fine di risolvere una questione che sembra ormai incancrenitasi su posizioni totalmente sterili ha riaperto la partita tramite l’unico strumento di cui disponeva, e cioè quello politico.

In Europa la sensazione che il crescente stato di tensione e di violenza porti alla nascita o al rafforzamento di movimenti terroristici islamisti o nazionalisti è molto forte. Tale percezione di covare uno scomodo e insidioso nemico con cui dover fare presto i conti è l’elemento che sta prendendo sempre più spazio sui tavoli europei. Ciò che spaventa maggiormente è sicuramente la vicinanza territoriale con la zona interessata e in second’ordine la paura che il mancato raggiungimento di un accordo condiviso porti rapidamente la regione fuori da qualsiasi controllo.

I movimenti islamisti e nazionalisti che risiedono sul territorio stanno covando ormai da tempo l’intenzione di rovesciare uno status quo fortemente restrittivo di qualsiasi libertà personale si possa immaginare, da quelle più ampie nel territorio della West Bank a quelle minime e basilari per la sopravvivenza nella Striscia di Gaza dove persino l’accesso all’acqua è quotidianamente una sfida.

Ma vi è di più.

Gli Stati, soprattutto quelli dell’Europa occidentale, attribuiscono una grande importanza al fatto di rispettare la legge. Lo Stato di Israele tramite il sistema delle colonie e del muro, tanto per citare solo i due più importanti esempi, è in assoluta violazione di tutte le regole di diritto internazionale, e in tal senso si è espressa la Corte Penale Internazionale.

Il sistema delle colonie è uno dei punti di forza dell’impresa israeliana e, dato che il sistema economico, sociale e culturale è inestricabilmente legato con quello delle colonie, arrivare a bloccare tale attività significherebbe apportare un decisivo vulnus all’economia israeliana.

Per esempio, singoli Paesi, come la Gran Bretagna, dal 2009 hanno iniziato a etichettare i prodotti che provengono dagli insediamenti israeliani in modo che i consumatori possano sapere quello che stanno comprando – anche se si tratta solo di un timido e tardivo passo nella giusta direzione. Più recentemente, molti altri Paesi hanno emanato avvertimenti alle industrie riguardo ai rischi di operare negli insediamenti.

Nel 2013 tutta l’Unione Europea ha rivisto la sua legislazione ed ha emanato linee guida per escludere entità israeliane che fanno base o operano nelle colonie illegali dal ricevere fondi dell’UE – un passo potenzialmente molto efficace che ha ricevuto molte proteste da parte di Israele, ma che ha ottenuto il risultato finale di garantire che l’UE e i suoi Stati membri facciano rispettare la sostanza in questa materia. In novembre più di 300 sindacati, partiti politici e gruppi per i diritti umani europei hanno chiesto la sospensione degli accordi di associazione tra l’UE e Israele, sostenendo che l’accesso ampiamente liberalizzato di Israele ai mercati europei e la partecipazione ai programmi dell’UE rappresenta un «aiuto materiale alla violazione delle leggi internazionali da parte di Israele».

Al momento, il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) guidato dai palestinesi ha ottenuto notevoli successi nel rendere Israele responsabile, grazie all’azione dei cittadini di vari Paesi. Tra le altre cose, ha portato fondi pensione e banche a togliere i propri investimenti da imprese israeliane. All’inizio dell’anno il fondo pensioni lussemburghese ha disinvestito da nove importanti banche e imprese israeliane e da una statunitense a causa del loro coinvolgimento nelle colonie, seguendo l’esempio di fondi pensione olandesi e norvegesi.

Il riconoscimento dello Stato palestinese arriva dunque a chiosa di questo processo in quanto riconoscere lo Stato significa anche riconoscerne la sovranità sopra al proprio territorio e qualsiasi violazione di tale sovranità da parte di un altro Stato significa una violazione del diritto internazionale, che normalmente produce o l’autodifesa dello Stato invaso (cosa impossibile per lo Stato palestinese in quanto non dotato di un esercito) oppure la reazione della comunità internazionale tramite sanzioni di tipo economico. A tale riguardo si ricorda quali sono stati le reazioni della comunità internazionale nei casi di invasione del Kuwait da parte dell’Iraq, o più recentemente dell’Ucraina da parte della Russia.

Non si vuole certo dire che ci sarà una mobilitazione militare da parte dell’Unione Europea in difesa del popolo palestinese, ma di certo una serie di contromisure economiche potrebbero a questo punto essere prese a pieno titolo dagli stati europei i quali non si troverebbero più nell’imbarazzo di non sapere come giustificare eventuali sanzioni in difesa di non si sa quale principio. Il processo di riconoscimento europeo dunque se adeguatamente guidato e indirizzato, esercitando l’adeguata pressione tramite gli strumenti sopra descritti, potrebbe portare nel giro di un paio di anni a un serio tavolo delle trattative.

Sicuramente il governo israeliano sta fronteggiando un periodo particolarmente difficile. Solo settimana scorsa è stato votato il decreto per far diventare lo Stato israeliano uno Stato a tutti gli effetti ebraico, ponendo dunque le basi per uno stato di apartheid vero e proprio dove ai non ebrei è consentita una semplice “residenza” e non una vera e propria cittadinanza, cittadini di serie B dunque (forse C), e in secondo luogo il primo ministro ha annunciato che in primavera ci saranno le elezioni politiche.

Il sostegno degli Stati Uniti per il momento non è ancora stato messo in discussione anche se prima della sconfitta del 4 novembre alle elezioni di mid-term Obama aveva fatto vacillare la certezza di un incondizionato appoggio al governo israeliano se questo non avesse perlomeno sospeso la costruzione dei nuovi insediamenti previsti nella zona est di Gerusalemme. Tale dichiarazione aveva scatenato l’ira di Netanyahu il quale si era addirittura appellato al trattamento riservato agli indiani pellerossa da parte degli statunitensi per ricordare loro da dove venissero.

Vero è che una recente inchiesta del «Washington Report» dice che ormai il 60% degli americani ritiene che vengano dati troppi soldi ad Israele, sarà una sfida della prossima amministrazione fronteggiare tale dato.

La partita rimane ancora aperta ma qualcuno comincia ad intravedere spiragli per un cambiamento.