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Jobs Act, fra stabilità e stitichezza

Un po’ per professione, un po’ per curiosità e un po’ per coinvolgimento personale ultimamente mi sono interessato alle politiche del lavoro e al Jobs Act di Renzi (sul significato del termine Treccani.it). Le politiche del lavoro in Italia, queste sconosciute. L’idea al momento è che deregolamentare il lavoro a tempo determinato, semplificare la contrattualistica, dare agevolazioni per le assunzioni, consentire bene o male alle aziende di far come vogliono, farebbe crescere l’occupazione. Che è un po’ come dire a uno stitico che se toglie la porta del bagno andrà più facilmente di corpo o come regalare una cucina nuova a chi sta morendo di fame.

Il risultato non cambia: se c’è lavoro si può pensare a come favorirlo, se non c’è lavoro ogni ragionamento o legge tratta di una cosa che non esiste. Le aziende non assumono per passatempo, assumono per necessità: se ho lavoro ho bisogno di lavoratori e allora penso a come assumerli. Più è stabile il contesto, più è sicura la rendita del lavoro più è probabile che assuma a tempo indeterminato. Le aziende non assumono per solidarietà, non rispettano i diritti dei lavoratori per etica spassionata, non pagano stipendi più alti per un senso di correttezza. Le aziende lavorano per guadagnare. E con questo non voglio suggerire che sia l’unico modo di condurre le cose e tanto meno il più corretto, semplicemente è il mondo in cui viviamo. E se non è economicamente vantaggioso assumere le aziende non assumono. Se cuoci nella vaporiera conservi tutte le qualità organolettiche ma se non hai niente da cuocerci il risultato è sempre niente.

In tutto ciò, mi sembra che il Jobs Act stia da un lato producendo un grande fumo e dall’altro buttando il discorso in caciara. Mi spiego, le grandi novità consisterebbero: 1. Abolizione dei Co.co.co, contratti che dopo la riforma Fornero e le varie reprimende sono già rarissimi e che con ogni probabilità finiranno per trasformarsi in lavori con P.IVA (tipologia di cui lo Stato si interessa solamente lato Agenzia delle entrate); 2. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, ma tra un tempo determinato di tre anni e un tempo indeterminato in cui nei primi tre anni puoi essere lasciato a casa senza problemi la differenza non si coglie (senza contare che le due cose si potrebbero presentare una dopo l’altra); 3. Deregolamentazione dei tempi determinati fino a 36 mesi (già attuata con il primo pezzo del Jobs Act) che penalizza il sistema della Somministrazione a mio avviso più cautelativo per il lavoratore. Ma non appena si cerca di ragionare sull’argomento si finisce dispersi nel fumo ideologico, arrivando direttamente al casus belli tra governo e sindacati: l’articolo 18. Detto in poche parole: se mai un giovane dovesse essere assunto a tempo indeterminato per lui l’articolo 18 non varrà e non potrà quindi essere reintegrato a seguito di licenziamento per ragioni economiche (verrà solo indennizzato). Per tutti gli altri, cioè per tutti gli assunti prima del prossimo gennaio, non cambia niente (siam sempre nell’ambito delle ricette di cottura al vapore del nulla).

L’articolo 18 sotto molti aspetti è un argomento di confronto completamente fuorviante, utilizzato per alzar la caciara, ma a nascondersi dietro questa nuvola di fumo e di grida c’è un tema ben più importante: la disuguaglianza dei diritti dei lavoratori. Al momento tra i semigiovani-giovani-neolaureati e i loro fratelli maggiori di 5 anni c’è una diversità di diritti notevole. Questa diversità andrebbe attenuata non aumentata! Ma per far ciò bisognerebbe togliere diritti acquisiti da alcuni per ripartirli in maniera più equa e lavorare su delle vere politiche del lavoro. Non considero qui, per non infilarmi con la testa in un vespaio, i lavoratori nullafacenti che abitano le grandi imprese e che per vari motivi finiscono per essere non licenziabili ammorbando la competitività, né tanto meno il tema della progressiva perdita di utilità dei sindacati.

Intanto la disoccupazione continua a crescere vertiginosamente e ci troviamo a gioire della diminuzione dei licenziamenti e del leggero aumento delle assunzioni, alla faccia della peggior situazione da non si sa nemmeno quanti anni (non mi addentro nella valutazione dei dati per cercare di evitarmi la gastrite, ma per chi volesse approfondire consiglio questo articolo su La Stampa). Di fronte a una situazione come questa non si capisce bene perché non tentiamo in nessun modo di agire sulle cause ma ci limitiamo a utili o inutili palliativi sulle conseguenze. Alla fin dei conti, ormai da molti anni, l’unica ricetta proposta per agevolare il mercato del lavoro e la competitività rimane la flessibilità. Finendo così non solo per togliere la porta del cesso allo stitico ma dicendogli anche che alla fine è colpa sua e che mica può pretendere di andare regolarmente di corpo, i tempi sono cambiati.

Per finire in bellezza questa mia riflessione sul lavoro, vorrei sottolineare come le posizioni ufficiali sui tempi determinati confondono due cose nettamente diverse: stabilità e sicurezza. I “giovani” (che anno dopo anno son sempre meno giovani) non vogliono la stabilità a tutti i costi, checché ne dicano i vari giornalisti, governanti e giuslavoristi, non vogliono essere messi a una scrivania dicendo «bene, tu stai seduto qui per i prossimi 50 anni e poi andrai in pensione». Vogliono sapere di poter lavorare, essere utili e produttivi, con anche periodi di pausa per carità, cambiando azienda ci mancherebbe, in partita IVA senza problemi, pagando tutte le tasse dell’anno e gli acconti dell’anno successivo (che lo stato è il primo a scommettere che rimarrai disoccupato), ma vorrebbero avere un vago senso di sicurezza di non morire di fame, di poter essere autosufficienti.

Forse sarò un po’ drastico nel mio modo di pensare, ma in questo momento gli sforzi andrebbero indirizzati tutti verso una spinta economica, verso una politica industriale sensata (stiamo ancora alle acciaierie), verso una valorizzazione dell’agricoltura, verso un investimento nella cultura e nel turismo… non verso l’ennesima riforma del lavoro che cambia nome alle cose senza modificarle di una virgola. Più prodotti e più servizi si vendono più si guadagna più si ha bisogno di lavoratori (poi ci pensiamo dopo alle modalità di assunzione). Dovremmo smetterla di alzare fumo, buttare tutto in caciara, lasciare spazio alle nostre paure più irrazionali e alla fine aspettare con rassegnazione. E soprattutto dovremmo ricordarci prima di parlare (di cosa si lamenta… io alla sua età saltavo i fossi per il lungo ecc. ecc.) che non solo la nostra è una repubblica fondata sul lavoro, non solo il lavoro è mezzo di sostentamento fondamentale, ma che il lavoro è uno dei pilastri per l’equilibrio psicologico delle persone.

E certo magari non moriremo di fame, che in qualche modo si fa, ma evitare di far impazzire i “giovani” potrebbe essere un buon investimento sul futuro.