Insolito ritrovare un film di David Fincher in cartellone durante le vacanze natalizie, tra colossal, cartoni animati e cinepanettoni. Eppure è stata tra le pellicole più viste di fine anno. Piazzare in locandina un solitario e corrucciato Ben Affleck, può aver di certo contribuito alla causa, ma non è sufficiente a spiegare l’interesse suscitato da quest’ultimo noir del regista di Seven, Fight club e The Social Network (per citarne alcuni) basato su un argomento alquanto sfruttato dal genere, quello delle sparizioni.
Partiamo dal titolo: Gone girl, L’amore bugiardo. Mai traduzione fu più maldestra e allo stesso tempo funzionale al successo di un film. L’autore di questo sottile capolavoro di incomprensione contribuisce involontariamente al piano di David Fincher, mescolando le carte, promettendo allo spettatore italiano un film dalle atmosfere mélo, un dramma esistenziale sulla natura dell’amore, infarcito di lacrime, primi piani intensi e catarsi per giovani coppie, che dalla sofferenza del tradimento e dell’inganno trarranno degli insegnamenti – “noi non saremo mai così, vero, amore?”.
Ad attenderli nella sala buia è invece tutt’altro, c’è la fiction, nel significato del termine latino fingere, cioè rappresentare avvenimenti non realmente accaduti al fine di muovere emozioni e convincere lo spettatore. Ad andare in scena è infatti un thriller claustrofobico basato sul concetto di manipolazione, dove vittima e carnefice condividono un unico potente strumento: l’arte di raccontare.
Amy e Nick, entrambi scrittori, si incontrano ad una festa a New York e si innamorano. Lei è il modello in carne e ossa di un personaggio di fantasia, The Amazing Amy, sorta di suo alterego vincente creato dai genitori, mentre lui scrive articoli per una rivista maschile, sognando un futuro da romanziere. Tra i due l’intesa è perfetta e l’inizio della routine matrimoniale non sembra scalfire una complicità fatta di giochi intellettuali e irrefrenabile passione. La loro storia scorre seducente e sublime come una patinata réclame di profumi, in una parola: inverosimile. Giunge però la recessione economica a travolgere i coniugi, che perdono il lavoro e si trasferiscono nel Missouri, per assistere la madre morente di Nick e forse ricominciare. Sperduti nella provincia americana e depressi, i due assistono impotenti al declino del loro rapporto, fino al giorno in cui Amy scompare misteriosamente, lasciando il marito alle prese con stampa e media da tutto il Paese, attirati dalla notorietà della donna e dalla possibilità di catalizzare la morbosità di milioni di telespettatori.
I telegiornali e i talkshow ci hanno del resto abituati a casi di sparizioni con cui infestare palinsesti televisivi per mesi, corredati da fantasiose ricostruzioni di vite e fatti, con conseguente cerchio mediatico che progressivamente si restringe su un solo indagato, lo bracca con ostinazione, allestendo il rogo ancor prima di avere tra le mani prove che si possano definire tali. La casa di Nick diventa un set illuminato perennemente dai flash dei fotografi e circoscritto dai furgoncini delle emittenti, speranzosi di vedere capitolare quello che per tutti può essere l’unico plausibile colpevole. Il pubblico preme alle porte del privato del protagonista, rovista tra i suoi rifiuti, analizza con sconcerto un suo selfie sorridente scattato dopo la scomparsa della moglie, crea un personale diorama della vita di Nick per soddisfare il proprio desiderio di controllo, in un confortante schema di elementari cause ed effetti.
Per la prima parte del film, anche al pubblico in sala è offerta la possibilità di divenire giudice e giuria, che ascolterà la versione dei fatti dei testimoni e degli accusati, da ogni punto di vista, da ogni inquadratura, quella di un talkshow, quella di un diario ritrovato in cantina, della voce narrante, dei social media e persino delle telecamere a circuito chiuso. Lo spettatore viene gettato in un turbine di indizi e piste, insinuazioni, falsità che si sovrappongono a mezze confessioni, in un gioco spietato quanto lucido che ha un unico fine: delegittimare e ridicolizzare il concetto di verità, o quantomeno seppellirla, renderla irriconoscibile sotto un cumulo di versioni sovrapposte.
Fincher torna dunque su un tema antico, dal sapore pirandelliano, quello dell’impossibilità di imporre la propria verità senza il rischio che questa venga fraintesa o peggio, si trasformi in un’arma contro noi stessi.
Nick lotta con le innumerevoli maschere che i media vorrebbero affibbiargli, quella di marito distaccato, di traditore, persino di assassino. Amy ha scelto di adattarsi alla personalità del proprio partner, diventando ciò che lui vuole che sia, per poi esigere a sua volta quella stessa perfezione che lei ha faticosamente dimostrato.
In una realtà in cui il consenso e l’approvazione contano più dei fatti e delle azioni, la persuasione vale più di qualunque prova. Così il personaggio Tanner Bolt (interpretato da Tyler Perry) l’avvocato di Nic specializzato nella difesa di imputati indifendibili, consiglia al suo cliente di mostrarsi in TV, di vomitare via cavo tutta la sua inettitudine come uomo e marito, e costruire così un empatia con gli spettatori- forcaioli: ciò che più conta è che Nick sia likeable, la verità è superflua.
La regia è impeccabile, chirurgica nello scandire con ritmo serrato l’azione che si svolge su più piani temporali attraverso un uso sapiente del montaggio e con l’aiuto di una fotografia dal cromatismo freddo, a sottolineare l’assenza di qualunque sentimentalismo, in favore di una lucida analisi del caso.
Come per le ultime pellicole, Fincher sceglie ancora la coppia Trent Reznor e Atticus Ross per disegnare il suono che accompagna questo noir opprimente, e i due artisti ripagano la fiducia confezionando una colonna sonora presente per la quasi totalità delle scene, come un algido e serpeggiante brusio ipnotico.
Ben Affleck, nel ruolo di Nick, conferma la sua maturità attoriale con una recitazione sobria e quasi in levare, funzionale a mettere in luce la personalità ben più articolata e oscura della moglie Amy, interpretata da una sorprendente Rosamund Pike, in grado di dar vita a un personaggio femminile affetto da una sorta di forma aggiornata di bovarismo, ossessionata da un’idea di perfezione insostenibile. David Fincher si candida così alla vittoria delle prossime statuette che contano, dimostrando di saper dosare qualità visiva, brillanti sceneggiature e una buona dose di riflessione sulla pericolosa seduzione delle narrazioni.
Gone Girl di David Fincher (Usa 2014 Thriller Drammatico 145′) con Ben Affleck, Rosamund Pike, Neil Patrick Harris, Tyler Perry, Kim Dickens.