La rada è un’estensione di mare al riparo da venti e correnti, dove una nave può sostare in attesa di raggiungere il porto o salpare nuovamente verso il mare aperto. In rada si attende, si inganna il tempo, ci si riposa, ci si annoia. “Rada” è un documentario scritto e diretto dal regista Alessandro Abba Legnazzi insieme alla ciurma di marinai di stanza presso la casa di riposo per gente di mare di Camogli. “Rada” ha vinto l’ultima edizione di italiana.doc, la sezione del Torino Film Festival dedicata ai documentari italiani. Dopo averlo rivisto a Filmmaker, ed essercene innamorati una seconda volta, abbiamo chiesto ad Alessandro di raccontarci come è nato, cosa c’è stato prima, e – strizzando l’occhio a Cassavetes – qual è l’idea di cinema partecipato e di scrittura condivisa che sta dietro ad ogni suo lavoro.
Da laureato in lettere, come ti sei avvicinato al cinema?
Ho partecipato a un laboratorio di scrittura per il cinema tramite la facoltà di lettere che frequentavo, ma la passione c’era già, mi informavo, andavo spesso al cinema. Dopo la laurea ho studiato regia per un anno, anche se non lo considero veramente significativo per i lavori che ho realizzato in seguito. Insieme a un compagno di corso ho realizzato “Il senso del vento” un documentario di fine corso, della durata di circa 50 minuti, dove raccontavo la storia di un gruppo di ragazzi non vedenti che seguivano un corso di vela sul Lago di Garda. È stata un’esperienza importante: a livello tecnico ho imparato a riflettere sul sonoro e sulla percezione che i ragazzi avevano del vento e dei segnali acustici provenienti dalle boe. Ma è dal punto di vista umano che ho avuto il maggior arricchimento: sono una persona curiosa e socievole, e questa è stata la mia prima esperienza con un gruppo di persone che sarebbero state protagoniste di un mio lavoro. Hanno sentito che da parte mia c’era della sincerità, che erano parte di un’opera collettiva e non il semplice soggetto di un esperimento visivo. Il bello di fare un documentario è proprio la possibilità di conoscere le persone con cui lo si costruisce, legami che restano anche in futuro.
“Io ci sono” è invece un progetto in grande: un documentario, ma anche un’esperienza totale che comprende cortometraggi scritti e girati dagli stessi bambini protagonisti. Come è iniziato tutto?
Nel 2008 ho iniziato a frequentare la scuola elementare “M. Calini” di Brescia per 3-4 mesi, seguendo una terza elementare. Volevo fare un film con i ragazzini e, con l’aiuto delle maestre, avevo scritto una piccola sceneggiatura a partire da quello che aveva destato il mio interesse partecipando alla vita quotidiana della classe. L’anno successivo, tornando a scuola, mi sono reso conto che quello che avevo scritto era una traccia difficilmente percorribile: la realtà era che mi trovavo in una scuola, maestre e bambini avevano un programma da seguire, e non mi andava di sottrarre tempo all’insegnamento. Ho lasciato perdere il vecchio script e mi sono messo a piena disposizione delle maestre. Sono andato a scuola tutti i giorni, per un anno intero. Ero di nuovo in quarta elementare. Partecipavo alle lezioni, davo una mano nei compiti e alle maestre in classe. L’anno successivo, in accordo con loro, ho portato per la prima volta la telecamera a scuola. La fiducia era tale che era come se non l’avessi con me: era diventata invisibile. Il sito del progetto contiene anche una serie di cortometraggi prodotti interamente dai ragazzini durante un laboratorio tenuto a scuola.
Rispetto a “Rada” l’approccio al gruppo è stato differente?
Per “Io ci sono” il materiale di girato era tantissimo rispetto a quello di “Rada“. In entrambi casi però, l’approccio è stato un immergersi totalmente in una realtà esterna fino a divenirne parte integrante. Credo sia questa la mia idea di cinema. Trascorrere del tempo con le persone che desidero ne facciano parte, condividere con loro la mia idea, scrivere con loro il progetto e, infine, farlo interpretare.
Come è avvenuto l’incontro con la casa di riposo per gente di mare “G. Bettolo” di Camogli?
Come in ogni casa di riposo, gli ospiti hanno molto tempo libero e si annoiano molto. Qui, in particolare, le visite esterne erano rade. Nella prima fase di conoscenza del gruppo, che è durata circa 5 mesi – da maggio a settembre – durante i quali andavo a trovarli 3 giorni a settimana, avrò visto al massimo un paio di visitatori. Ho pensato che fare un film poteva essere un’esperienza interessante per me, che entravo in contatto con una realtà inconsueta, e per loro che non avevano mai avuto un’esperienza simile. Così ho incontrato il direttore e gli ho proposto di girare un documentario con gli ospiti. Era una buona idea, ma avrei dovuto trovare il modo giusto per coinvolgerli. Sono persone abituate a stare sole, hanno vissuto per mare una vita, stanno molto per i fatti propri. Così ho trascorso con loro un’intera estate, scrivendo insieme le scene che ci interessavano, rispetto alla quotidianità in casa di riposo e anche rispetto alla storia passata di ciascuno. A settembre ci siamo lasciati dicendoci che il film si sarebbe fatto presto.
L’adesione al progetto è stata totale o qualcuno ha preferito non prendervi parte?
Io l’ho proposto a tutti. Qualcuno però ha scelto di non partecipare perché non era interessato o semplicemente non ne aveva voglia. È stato tutto molto naturale. C’erano un paio di storie che avrei voluto approfondire, ma riguardavano persone che, banalmente, avevano più impegni di altre, durante la giornata: un ex marinaio era di Camogli, mentre l’altro era di Santa Margherita. Avevano entrambi storie bellissime, ma di fatto i due protagonisti uscivano alle sei del mattino e tornavano alle undici di sera e, anche se in fase di scrittura avevamo buttato giù qualcosa insieme, poi, al momento di girare è diventato impossibile.
Questa fase di scrittura partecipata è presente – in modalità differenti – in tutti e tre i lavori. Ci racconti concretamente come avviene?
Diciamo che l’approccio è diverso in base alla persona che si ha davanti. Ciascuno ha una personalità propria che influenza il mio modo di rapportarmi a lui. Per esempio, con Giorgio (uno dei protagonisti di Rada ndr.) si passava il tempo a chiacchierare di qualsiasi cosa. A lui non importava che noi fossimo lì per fare un film con lui. Lui era con noi e stava con noi, al di là del nostro scopo. Abbiamo costruito così, con lui che parlava a me, diverse scene. Di queste ne abbiamo scritte, girate e inserite solo alcune. Altre, pur avendole scritte insieme, quando sono tornato per girarle avevano perso significato. È accaduto così con Agostino: durante l’estate continuava a ripetere che sarebbe andato a vivere con il suo primo amore. Avevamo scritto una scena su questo argomento ma poi, quando sono tornato a giugno, aveva dovuto traslocare da una stanza senza aria condizionata a una stanza in cui l’aria condizionata era particolarmente fastidiosa, e lui, che aveva lavorato per anni su navi bananiere in Africa, non la poteva soffrire. Abbiamo quindi deciso di riscrivere la scena concentrandoci su questo episodio, perché la vecchia tematica amorosa sembrava aver perso l’urgenza dell’estate precedente, mentre la battaglia di Agostino contro l’aria condizionata era divenuta una sfida quotidiana.
Avete tagliato molto?
Non molto. Abbiamo girato più o meno 15 ore in totale. Questo materiale comprende anche delle interviste molto classiche sull’esperienza di vita dei marinai. In “Rada” ne è finita solo una piccola parte, ma ci è sembrato molto utile avere delle testimonianze in archivio.
Nel film ci sono due figure femminili: Eleonora – l’infermiera – e Silvia – la danzatrice. Sono entrambe figure surreali, che chiedono allo spettatore di stare al gioco. Ci racconti come le hai scritte?
In molti mi hanno fatto notare che Eleonora è un personaggio stranissimo: non si capisce se recita, se recita male o cos’altro. Il fatto è che lei era così per davvero. Ho voluto che mantenesse lo stesso atteggiamento che aveva con tutte le persone, che fossimo noi o i marinai: lei aveva quel modo quasi irreale di parlare, di aggirarsi per i corridoi. Nel film mi rendo conto che il risultato è spiazzante. In fase di scrittura, con lei, come con Renzo e con Paolo, c’è stata molta complicità. Erano un gruppo davvero affiatato: si prendevano in giro, scherzavano. Con loro ho dovuto semplicemente ricreare degli sketch che un giorno sì e un giorno no si riproponevano tali e quali.
Lo spettatore ha spesso bisogno di un aggancio, di una porta aperta che gli permetta di entrare, meglio, di essere risucchiato in ciò che sta guardando. In “Rada” la presenza della troupe che ogni tanto entra in scena come co-personaggio, e di Eleonora che sembra ammiccare al pubblico, a voi e agli stessi marinai, sono figure molto efficaci a svolgere questa funzione di di traino tra pubblico e film.
Sono contento che questo accada. La dedizione con cui Eleonora si prende cura dei marinai ospiti è incredibile, quasi ingiustificata. Ha a che fare con situazioni davvero difficili, il lavoro è tantissimo, eppure lei è lì, in prima linea, con un sorriso che è contagioso.
E come si colloca, all’interno del microcosmo della casa, l’episodio in cui Silvia balla con Renzo?
Lei è stata un esperimento nell’esperimento. Silvia è un’attrice di teatro e una nostra amica. Volevo provare a mettere in relazione da una parte un gruppo di persone che l’attore non l’avevano mai fatto e dall’altra un’attrice professionista. Volevo che la figura di Silvia incarnasse per ognuno di loro un sogno, un ideale. Così Silvia è per Renzo la donna con cui in crociera ballava il tango, per Paolo la donna di cui era da tempo alla ricerca, per Primo – il poeta – una sorta di Beatrice. In montaggio però ho scelto di inserire solo l’episodio del ballo perché, nonostante le altre scene che coinvolgevano Silvia fossero davvero molto divertenti, mi sono reso conto che l’esperimento era davvero riuscito solo con il personaggio di Renzo.
Il film è completamente girato all’interno della casa di riposo. La telecamera riprende i suoi protagonisti fuori solo in un’occasione.
Sì, la scena in cui Renzo e Paolo sono dal tabaccaio. In realtà ho voluto girarla come se fosse un’apparizione e i due amici fossero stati catapultati proprio lì. Come per “Io ci sono” anche in “Rada” ho scelto di rimanere all’interno di un ecosistema. Non mi sono ancora dato una spiegazione: soffro i luoghi chiusi, di solito mi sento quasi soffocare, ma allo stesso tempo restarci mi riempie, e man mano che il tempo passa sento di avere tutte le cose di cui ho bisogno a portata di mano. È come rimanere bloccati per qualche tempo in ascensore: quando poi esci la boccata d’aria è incredibile.
Due parole sulla produzione. “Rada” è stato completamente autofinanziato? Quali sono stati i modi e i tempi con cui hai organizzato le riprese?
Abbiamo avuto un sostegno dalla Film Commission Liguria e in seguito quello dell’associazione culturale Officina Koiné che è entrata in coproduzione con noi. Ci siamo detti che se sarebbero arrivati dei finanziamenti ce li saremmo divisi alla fine, una sorta di quota lavoro. Non che non volessimo metterci a cercare finanziamenti, è che a un certo punto tutti quanti sentivamo il bisogno di girare. Abbiamo avuto la possibilità di alloggiare gratuitamente vicino a Camogli, durante i 17 giorni di riprese e questo ci ha facilitato di molto gli spostamenti. L’idea iniziale, dopo i 5 mesi di conoscenza e scrittura, era girare subito; a ottobre o novembre, quando ancora il tempo è buono e i marinai erano forti dell’estate trascorsa. Solo che poi è nata mia figlia e ho deciso di ritornare l’anno successivo. Sono passato a salutarli d’inverno, ma lo spirito non era quello luminoso dell’estate. Ho continuato a visitarli nei mesi successivi. Arrivato maggio ho sentito che se non lo facevo in quel momento non l’avrei più fatto. Così ho sentito Matteo, Enrico ed Ale e insieme abbiamo deciso che avremmo girato a cavallo tra giugno e luglio, e così è stato. La mia paura era che i marinai si fossero dimenticati, che avrei dovuto rifare parte del lavoro e avevo al massimo tre settimane di tempo. E invece no. Loro ci aspettavano, si ricordavano ogni cosa. Il tempo era come se non fosse passato. È stato grandioso sapere che, al di là del lavoro da fare, c’era qualcuno che mi aspettava, mi ha dato una forza pazzesca.
Quali sono – se ci sono – i tuoi riferimenti artistici, immagini, opere di altri, personaggi che in qualche modo hanno ispirato ciascuno dei tuoi lavori e continuano a farlo.
Cassavetes e il suo modo di concepire il cinema: l’idea di condividere ogni fase con i propri amici di renderli protagonisti, e che il fare cinema e il vivere siano immancabilmente sovrapposti. Mi affascina forse perché io, non avendo una formazione strettamente cinematografica, trovo che questa professione mi dia la possibilità di condividere con amici ciò che faccio e di farlo con loro. Fatico a concepire il documentario come un’esperienza vissuta singolarmente perché la trovo incompleta.