I mostri sono quasi sempre persone comuni, fino al giorno prima. Quando viene alla luce una storia come quella di Pavia, in cui una donna è stata mantenuta in stato segregazione e malnutrizione per anni, si passa subito a parlare di problemi mentali. Il convivente, ora agli arresti con capi di imputazione gravissimi, si direbbe confuso. Confusi e scioccati si direbbero pure gli inquilini del palazzo dove i carabinieri e il personale medico hanno trovato la donna. Sono le storie che ogni tanto tornano a far crollare la testa ai pensionati semiappisolati nelle sedie dei bar di provincia, o che durano il tempo di un “mah!” all’ora di cena, davanti al telegiornale. Sono le storie di tutti i giorni, solo un po’ più assurde.
A volte è l’arte che prova a rivelarci quel tanto di più che può servire a cogliere le cicatrici di questi piccoli traumi del tessuto sociale, a comprendere le pulsioni di chi si muove in territori dell’umano inaccessibili a coloro i quali non ne abbiano fatta diretta esperienza. Ci aveva provato recentemente Paolo Sortino, con il suo intenso Elisabeth (Einaudi 2011), a indagare la sofferenza e la radicalità della vita che non si annulla nell’orrore più profondo, quella di una ragazza segregata per ventiquattro anni dal padre e soggetta alle sevizie più efferate. Nel bunker costruito con cura maniacale dall’uomo sarebbero nati sette figli frutto del rapporto incestuoso, di cui uno nato morto e tre poi cresciuti senza alcun contatto con il mondo di fuori. Anche Michael Haneke, con Amour (2012), mette in scena una storia di profondo disagio, quella di una coppia di anziani alle prese con la recente disabilità di lei, sempre più invalidante. Fino a quando il gesto finale non interviene a liberare i coniugi dalla promessa fatta: “non mi porterai in ospedale.” La vicenda di Pavia oscilla forse tra queste due narrazioni (con un inquietante corollario kafkiano): cioè tra la mostruosità del parente aguzzino, folle maniaco dall’apparenza normale, e quella del compagno carnefice, suo malgrado, risucchiato in un vortice di patimenti, di crescenti durezze e di lucida, anche personale, autosegregazione.
È così che l’arte più vera è capace di lavorare sullo scarto dalla dimensione del buon senso, e senza scrupoli di sorta. Come avvertiva Pirandello ormai quasi cento anni fa, le ragioni dell’arte non sono quelle della vita, e a dover essere censurata è la «balordaggine» di chi cerca a tutti i costi la verosimiglianza quando si esplorano i territori dell’imprevedibile, dell’assurdo, dell’insano. Le persone, ad ogni modo, non sembrano avvedersi più di tanto del problema opposto: se non è parte della realtà quotidiana, se non è sentita come realismo, o almeno come buon senso, la vita che muore nell’assurdo non ci tocca. L’inedia di L.L. si trasforma in quella che un altro autore ha chiamato «indigenza immaginativa», che è poi lo stupore di tutti noi vicini di casa, che non potevamo non sapere, non capire.