Più lontano ancora (Farther Away in lingua originale) è una raccolta di saggi di Jonathan Franzen pubblicata negli Stati Uniti nel 2012 e immediatamente tradotta in Italia. Che racconti le sue peripezie in giro per il mondo o recensisca dei libri, Franzen sguazza nella scrittura come un pesce nell’acqua: la sua facilità narrativa si unisce a un autentico interesse per la realtà, l’empatia si compenetra con una scrupolosa e sincera indagine etica, il contatto con la cultura popolare lo tiene distante dagli stereotipi accademici e dalle liste di idées reçues.
Il titolo è tratto dal secondo saggio della raccolta, dedicato a un viaggio nell’isola cilena Masafuera, dove lo scrittore si ritira dopo la pubblicazione di Libertà, portando con sé parte delle ceneri di David Foster Wallace e una copia di Robinsoe Crusoe. Ma la spettacolare densità del titolo non sarebbe meno esatta se l’autore avesse utilizzato l’avverbio contrario: Più vicino ancora. In ognuno dei ventuno saggi che compongono il libro, l’autore tenta di avvicinarsi alle ragioni profonde che ispirano un determinato fenomeno, le modalità con cui si presenta, l’impatto emotivo che può suscitare nell’osservatore, il suo significato all’interno di una trama più ampia. Agli oggetti esaminati Franzen dedica una attenzione reticolare e partecipe, e la sua presenza non prevarica mai la purezza dell’indagine. Autobiografia e saggismo trascolorano dall’uno all’altro senza strappi, riempiendo tutte le campiture di una architettura che sa dosare il racconto in prima persona e la sottile argomentazione.
A forza di narrare, Franzen si avvicina alla silenziosa tessitura delle cose, lasciando percepire, insieme al loro spessore, la possibilità di comprenderle. Per raccontare un soggiorno in Cina, lo scrittore non fa giornalismo ma si affida al vivido racconto delle sue esperienze a fianco di birdwatchers cinesi e all’interno di alcune fabbriche. I due fili si alternano, creando un sontuoso contrasto tra il disastro ecologico di un progresso forsennato e la valorizzazione, da parte di pochissimi cittadini, delle varietà ornitologiche. Il Paese visitato non è più un oggetto collocato su una mappa e descritto per le sue curiosità, ma un essenziale ingrediente narrativo. La stessa partenza per la Cina non è motivata da ragioni turistiche ma da uno spunto autobiografico: il dono di una pulcinella cinese. “Decisi di visitare la parte del mondo da cui veniva la pulcinella. Il sistema industriale che aveva creato l’uccello finto stava distruggendo gli uccelli veri, e io volevo andare in un posto dove il nesso tra le due cose fosse evidente” (p. 173).
Franzen va più vicino ancora quando recensisce libri: questi oggetti, nelle sue mani, rivelano lo scheletro. Analogie empiriche fotografano la precisa natura di un romanzo o di un carattere: “Immergersi nello stile all’antica del romanzo sociale di Wilson è come fare un giro su una Oldsmobile d’epoca; si rimane sorpresi da quanto sia comoda, veloce e maneggevole; anche i paesaggi più consueti, visti attraverso i piccoli finestrini, ci sembrano nuovi” (pp. 308-309); “Non so se qualcuno qui ricordi la partita di football dell’anno scorso tra la squadra di Stanford e quella della University of California. […] L’esperienza di assistere a quei tentativi impossibili, alle ripetute, gioiose collisioni autodistruttive di ragazzi mossi da un desiderio disperato, a tutto quel caos nel contesto più ampio di una partita piena di suspense e tecnicamente magnifica, eppure dal risultato praticamente prestabilito: non sono riuscito a trovare una migliore analogia per l’esperienza di leggere Rosa e cenere” (p. 265). Un saggio dedicato ad Alice Munro, incoronata “la più grande scrittrice vivente del Nord America” (p. 285), diventa una perorazione della forma breve: “Tutti gli scrittori di narrativa patiscono la mancanza di cose nuove da dire, ma gli scrittori di racconti soffrono più disperatamente degli altri” (p. 289).
In una lucida analisi della nostra contemporaneità, la voce dello scrittore si impenna in una assertiva ma serena critica di costumi ormai irreversibili. L’abuso del cellulare in luoghi pubblici, per esempio, offre lo spunto per una riflessione intorno alla necessità di preservare la propria intimità negli spazi condivisi e il diritto altrui di non esserne coinvolti: “Il concetto astratto di uno spazio pubblico civilizzato come rara risorsa da difendere è ormai quasi estinto, ma si può ancora trovare consolazione nelle microcomunità di compagni di sofferenza che si creano all’istante davanti a un atto di maleducazione” (p. 148). La proliferazione di immagini violente assomiglia sempre più a una invasione delle coscienze che azzera la rielaborazione personale di un evento storico: sull’11 settembre Franzen scrive: “Dedicavo la mia energia a immaginare, o a impedirmi di immaginare, l’orrore di sedere accanto al finestrino mentre l’aereo volava basso lungo la West Side Highway, o di sapersi intrappolati al novantacinquesimo piano quando la struttura d’acciaio sottostante cominciava a scricchiolare e brontolare, mentre il resto della nazione stava subendo un trauma in tempo reale continuando a guardare quelle immagini” (p. 152). Attraverso l’immaginazione Franzen ci fa toccare dall’interno un dramma che ormai è indelebilmente registrato nella nostra memoria in un’unica versione televisiva, aggressiva e spettacolare, tanto più potente quanto meno la nostra coscienza può insinuarsi tra i dettagli dell’evento per ricomporne il significato e la dolorosa dinamica.
Leggendo questi saggi, non si può non andare con il pensiero all’arte maggiore praticata da Franzen: proprio perché grande romanziere, Franzen è grande saggista. Le somme sono facili da tirare. Ma se le esaltazioni della letteratura rischiano di apparire retoriche (o, anche se autentiche, scontate per il solo fatto di essere pronunciate da chi sulla letteratura ha compiuto la propria formazione), sarà meglio ricordare una battuta che invita alla cautela, segnando alcuni paletti e dimostrando un’assoluta sincerità e coscienza dei limiti con cui la creazione artistica si confronta: “Per citare una famosa frase di Flannery O’Connor, chi scrive narrativa fa tutto quello che si può permettere, ‘e nessuno ha mai potuto permettersi molto’” (p. 126). E quanto si è potuto permettere il Franzen saggista? Abbastanza, quel tanto necessario per trasmettere la fiducia che la pulizia della forma e l’onestà del pensiero possono migliorare le nostre conoscenze, portarle più vicino ancora ai complessi fenomeni che ci attraversano, che quanto più ci sono familiari tanto più meritano di essere ripensati.
J. Franzen, Più lontano ancora, trad. it. di S. Pareschi, Einaudi, Torino 2012 (le citazioni sono tratte dall’edizione tascabile, stampata nel 2014)