[Oggi, alle 18, alla Libreria Todo Modo di Firenze, si tiene l’incontro ispirato all’inchiesta #DieciPerDieci: Giacomo Raccis, insieme a Raoul Bruni, converserà con Alessandro Raveggi e Vanni Santoni, intervistati un anno fa. Cogliamo l’occasione per pubblicare la prefazione che aprirà l’ebook in cui saranno raccolte le interviste di #DieciPerDieci, in uscita a breve]
Per definire i suoi compagni di brigata neoavanguardistica Umberto Eco, nel 1963, ricorse all’immagine della Generazione di Nettuno. Si trattava di narratori e poeti nati tra la fine degli anni Venti e la metà dei Trenta, accomunati da un desiderio di “sperimentazione lenta”, che portasse le lettere italiane fuori dalle secche dei realismi di ogni risma. Il paradigma generazionale veniva rafforzato dalla comune esperienza biografica di quegli intellettuali, ritrovatisi, negli anni del boom, a doversi fare spina dorsale – e quindi classe dirigente intellettuale – di una nazione ricostruitasi lentamente dopo le devastazioni della dittatura e della guerra.
Vent’anni dopo, sul panorama editoriale italiano, un’altra etichetta simil-generazionale faceva capolino: quella dei “giovani autori”. Capeggiata da De Carlo e Del Giudice – sponsor Calvino – si faceva avanti una nuova schiera di autori, con ben pochi caratteri in comune (se non una condivisa propensione alla narrazione piana, di buon artigianato, senza eccessi sperimentalistici), ma con la condivisa e fondamentale caratteristica di essere “nuovi”: commercialmente, prima ancora che anagraficamente, giovani. Parola magica, questa, che ancora rispunterà a metà anni Novanta, quando sarà la volta dei “Cannibali”.
Il vincolo generazionale, però, progressivamente si annacqua, perde la propria forza legante. E forse non è un caso se, con esso, sono venuti meno anche i movimenti e i gruppi intellettuali. Le etichette, generazionali e non, sono rimaste appannaggio di editor e uffici stampa: fuori dagli uffici una distesa puntiforme di scritture e di scrittori.
E oggi?
Esiste una generazione di scrittori e scrittrici affacciatisi, in Italia, al mondo della letteratura nel corso degli anni Zero (o all’inizio degli anni Dieci)?
L’era digitale ha prodotto, nel mondo della cultura italiana, una vera e propria rivoluzione. Paragonabile forse a quella prodotta dell’irruzione della cultura di massa nell’Italia del boom, che portava tanti intellettuali a cimentarsi con nuovi studi e strumenti (ancora l’Eco della semiotica e di MacLuhan) e a mettere a reazione modalità di produzione e fruizione radicalmente nuove con un lavoro letterario ancora intessuto da una forte convinzione elitista (la sublime incomprensibilità della prosa neoavanguardista, l’analogismo furibondo della sua poesia).
Social network, blog, identità virtuali, autopubblicazione, marketing virale, concorsi e scuole di scrittura: oggi tutti questi elementi, e tanti altri ancora, hanno ridefinito completamente i contorni del campo letterario in Italia, trasformando radicalmente (e irreversibilmente) le pratiche di costruzione, conservazione e accumulazione dei capitali culturali e simbolici, cioè di quel bagaglio di fattori capaci di determinare la posizione, il ruolo di un autore in mezzo ai propri pari.
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È in nome di queste trasformazioni e del privilegio generazionale proprio di chi le affronta da giovane e per primo che noi della redazione della Balena Bianca abbiamo pensato, ormai un anno fa, di rivolgere a un drappello di autori nati negli anni Ottanta dieci domande sullo scrivere e sull’essere scrittori in questo nuovo millennio.
Giorgio Fontana, Gabriele Dadati, Alessandro Raveggi, Giusi Marchetta, Andrea Gentile, Paolo Sortino, Gabriele Ferraresi, Tommaso Giagni, Marco Montanaro, Virginia Virilli, Giovanni Montanaro, Paolo Di Paolo, Andrea Scarabelli, Emmanuela Carbé, ex post Fabio Deotto: a loro, e ai due “fuori-quota” Vanni Santoni e Paolo Cognetti, è spettato il compito di tratteggiare i contorni di una generazione che, alla luce delle diverse risposte, si scopre forse più coesa di quanto ogni singolo rappresentante non creda. Tanti temi sono stati toccati: dalla difficoltà – o, paradossalmente, dalla facilità – di pubblicare oggi, alla necessità di controllare i luoghi e le forme della propria scrittura in un contesto, come quello web-mediatico, in cui a dominare sono capacità altre, e affatto simili, rispetto a quelle richieste a un buon romanziere; dalla prossimità (spirituale) dei “padri” letterari, autoctoni o forestieri, da imitare o da cui congedarsi, alla lontananza dei “fratelli” critici, riconosciuti come membri di un altro mondo, accademico e quindi estraneo alla spontaneità e all’irritualità di cui necessita la creatività letteraria; dai modi di affrontare bisogni e necessità della vita pratica quotidiana, raramente soddisfatti dal lavoro letterario, alla percezione della scrittura come urgenza e salvezza, ma anche come fatica ulteriore.
Nel variegato panorama di risposte, a colpire di più forse sono quelle che obbligano questi autori a confrontarsi con i mezzi e i contesti oggi più frequenti per la scrittura: la rete, i social network, i blog personali e collettivi, oltre a essere territori su cui praticare un estenuante marketing personale (abitudine alla quale alcuni di loro non si sottraggono, pur non ammettendolo apertamente), diventano luoghi a cui affidare prime stesure o richieste di consigli, anteprime o saggi di bravura fini a se stessi. La rete offre spazi di scrittura e riscrittura, che finiscono per condizionare la percezione del proprio lavoro, spostando più lontano – spesso ad altezze non raggiungibili – la soglia di pubblicabilità (che fa da complemento allo statuto di provvisorietà) di un testo.
Le posizioni degli intervistati convergono con particolare forza nelle risposte alla prima domande, incentrata sul dubbio che ogni “nuovo” scrittore debba oggi sottoporsi a una più rigida autocensura, poiché il sistema intorno (editoriale come mediatico-culturale) sembra anteporre la prolificità e la rapidità (il dovere morale di esprimere opinioni, e di esprimerle in fretta) a qualsiasi progetto di rielaborazione e revisione che non sia mirato semplicemente ad ampliare la platea del testo. Pochissimi si sono espressi a favore di un’assunzione di responsabilità ulteriore da parte di chi scrive, abbandonando tutto il peso del confronto su chi deve poi formulare il giudizio di pubblicabilità. «Mi sembra complicato pensare che gli esseri umani di oggi, magari quelli che oggi hanno dieci anni, quando ne avranno venti o trenta possano mettersi lì e dire “No aspetto un po’ ancora”. Lo spazio di pubblicazione è già ovunque»: la chiusa di Gabriele Ferraresi è emblematica per il disincanto che esprime, che nasconde forse, una excusatio non petita.
Questi scrittori non demonizzano né celebrano acriticamente le nuove possibilità aperte dal mondo virtuale; nel giudizio equilibrato, argomentato e supportato da citazioni non scontate, cercano la dimostrazione di una consapevolezza profonda, adulta dei mezzi su cui si muovono. Sono a tratti apocalittici, ma non mettono in discussione la propria dimensione “integrata”.
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Più che una comune strategia nel costruire personaggi e situazioni narrative, più che un comune orientamento per gli autori da inserire nel pantheon personale; più che, cioè, qualsiasi elemento di carattere propriamente letterario (disconoscono quasi unanimemente l’esistenza di poetiche, ignorano – almeno esplicitamente – gruppuscoli e confraternite), a rivelare la prossimità profonda di tutte queste voci, il loro inconscio, e reciproco, senso di appartenenza sembra piuttosto il modo in cui interpretano lo scrivere, come attività culturale e come bisogno individuale. Svincolati da qualsiasi pressione istituzionale, lavorano sulle parole e sulle storie perché le ritengono la forma più diretta e insieme complessa di esprimersi, di rivelare mondi e prospettive inedite. A garantire la legittimità dei loro esperimenti ritorna così quella libertà da vincoli di autocensura, così come dalle pretese di un mondo editoriale che concede facilmente le proprie lusinghe, ma si mostra invece molto restio a “consacrare” (e quindi a trasformare un content manager o un’insegnante di scuola in uno scrittore o in una scrittrice).
Questi autori si mostrano consapevoli degli inganni di un sistema che mette il libro al livello di tutte le altre merci sul mercato, così come delle difficoltà di un paese che legge sempre meno e in cui gli intellettuali dialogano sempre di più nei loro circoli privati, approfondendo la “vacanza” (nel senso di mancanza) di una fascia di medietà culturale che dovrebbe invece fornire lo zoccolo duro del pubblico dei libri. Per questi motivi, ma non solo, non riescono a interpretare la scrittura come atto sociale o politico, come risposta a sfide collettive. L’unico modo in cui per loro l’impegno risulta concepibile è all’interno della sfera privata, i cui confini forniscono a un tempo l’oggetto e i criteri di questo impegno.
Non pretendono di essere migliori degli altri (non tutti, per lo meno), perché non si vedono in un agone in cui devono confrontarsi e gareggiare. Ognuno costruisce il proprio privato percorso, naturalmente legge i propri coetanei (e tendenzialmente lo fa un po’ più di quanto abbiano fatto i predecessori), ma in definitiva non se ne fa influenzare, perché risolve la scrittura come una “questione privata” (sarà un caso che oggi, quando si parla di impegno e scrittori civili, non ci si possa esimere dal citare Fenoglio?). Tormenti, inquietudini e rovelli interiori che richiedono maestria linguistica e inventività narrativa per essere resi comprensibili agli altri (quegli altri che però, poi, nessuno di loro visualizza nel momento di scrivere, come mostra la risposta alla sesta domanda): la scrittura diventa così un atto privato in luogo pubblico, che se non sposta gli equilibri della storia letteraria, senz’altro parla alle persone perché prova a connettere, attraverso la lingua, la tecnica, l’“arte” della trasfigurazione, un singolo vissuto ad altri molto diversi.
Le parole di Giusi Marchetta bastano da sole a spiegare questo equilibrio: «I libri non cambiano le cose, le persone cambiano le cose se sono attente, sensibili e oneste. E se vogliono farlo. Certo, può darsi che un romanzo ti svegli su un dato argomento, su un aspetto terribile del mondo che ti circonda. Ma nove volte su dieci allo scrittore non importa che tu ci faccia qualcosa: gli faceva male quella cosa e allora ne ha scritto. È tutto».
Naturalmente non si tratta di accomunare tutti entro l’orizzonte di una scrittura che medica il privato; né, d’altra parte, c’è alcunché di male nell’affrontare così il compito dello scrittore. Tuttavia sembra che tale sia il contrassegno dominante in questa generazione di autori, che si ritrova, come dice Gabriele Dadati, in un contesto radicalmente mutato rispetto al passato anche più recente: «Oggi c’è un buon livello diffuso di capacità di scrivere, è normale che ci siano più aspiranti e che questi aspiranti producano testi anche di qualche interesse».
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Se qualcosa allora aiuta a distinguere questi giovani scrittori nel panorama contemporaneo, e anche rispetto ai lustri precedenti, è la loro quantità e, perché no, anche la loro qualità. Sono tanti e scrivono tanto; sperimentano forme e generi nuovi, coprono i settori più diversi del campo letterario (e degli scaffali delle librerie): dal giallo di Deotto al fantasy e alla narrativa epigrafica di Santoni, dal romanzo storico di Fontana al picaresco di Raveggi, dal comico surreale di Carbé al tragico perturbante di Sortino, dal romanzo generazionale di Di Paolo al romanzo autobiografico di Virilli, dalla forma breve di cui Cognetti è maestro al romanzo pavé di Alessandro Mari (assente dall’inchiesta, ma comunque titolato a farvi parte).
Scrittori diversi, dalle ambizioni diverse, ci si presentano con la parvenza di un gruppo, di una “generazione” perché insieme compongono l’immagine dell’ultimo prezioso gradino del sistema culturale italiano che, nonostante carenze e disfunzioni, sa produrre voci mature e consapevoli. Consapevoli della necessità di – e del tempo che serve per – affinare gli strumenti della scrittura prima di cimentarsi con le prove più complesse (vedi alla voce “gavetta su riviste e blog letterari”); consapevoli, quindi, della necessità di mettersi alla prova fin da subito, da quando la tastiera (o la penna per qualcuno di loro) comincia a scottare tra le mani. Consapevoli, infine, che per quanto nasca da un bisogno privato, la letteratura è un fatto essenzialmente pubblico, al quale non si può arrivare per caso, né impreparati.
Se tra alcune di queste voci fra vent’anni riconosceremo i nuovi Siti, Moresco e Mari (per restare a chi in vita è già stato consacrato), oggi è ancora presto per dirlo. Nonostante si possa già intuire qualche traiettoria, i loro percorsi sono appena all’inizio, ancora esposti ai corsi imperscrutabili delle fortuine. Per il momento, non ci resta che aspettare, dare tempo al tempo, come si suol dire. Intanto, dietro di loro, già cominciano a farsi sentire le nuove leve: per la generazione degli anni Ottanta è tempo allora di passare dall’altra parte, diventare fratelli maggiori, fratelli adulti e produrre quel ricambio generazionale che altrove appare ancora un miraggio.
Almeno per questo, la letteratura ci sembra ancora un mondo in cui è possibile sperare.