Nel febbraio 2005 avevo ormai archiviato i miei studi d’università e post università, quando mi diedero la notizia della morte improvvisa e prematura di Franco Brioschi. Retrocessi allora, come sto facendo di nuovo in questi giorni, al gran calderone della Statale di Milano. L’entusiasmo per la nuova esperienza, la curiosità per la metropoli, in breve tempo il sentirmi attirato da ambiti poco frequentati al liceo quali la letteratura contemporanea, la critica e la teoria letterarie. Ciò voleva dire Vittorio Spinazzola e Franco Brioschi, di fatto le maggiori personalità della locale italianistica. Diedi con loro il maggior numero possibile di esami restando a lungo incerto se chiedere la tesi all’uno o all’altro; infine scelsi Brioschi, che mi seguì anche, sempre con il distacco e il riserbo suoi propri (e anche miei), durante il dottorato di ricerca. I suoi corsi, non particolarmente gremiti, ed anche aperti in coda agli interventi degli studenti, mi sono rimasti assai impressi; in particolare il primo, che faceva capo al suo libro forse più importante, La mappa dell’impero del 1983, ristampato sempre da Il Saggiatore nel 2006.
Brioschi cominciò in quel lontano 1990-91 confrontando le due visioni primo-novecentesche sulla linguistica, quella crociana tutta tesa ad assorbire la linguistica nell’estetica e quella del Saussure di Corso di linguistica generale, che viceversa ne operava una rifondazione autonoma rispetto ai parametri ottocenteschi. Dal secondo ramo si procedeva nel considerare il Formalismo russo, Il circolo di Praga con le tesi del 1929 e in particolare la figura ponte di Roman Jakobson. Il cuore del corso affrontava proprio lo straniamento autoreferenziale del linguaggio poetico per cui, sul piano letterario, scopo del linguaggio era se stesso, mentre su quello teorico era l’individuazione di una letterarietà autonoma dalla lingua comune. La funzione letteraria che domina sulle altre si traduce in una struttura a sé: tale movimento centripeto, intransitivo, autoriflessivo del sistema testo era il bersaglio critico di Brioschi. Pur proponendo un riconoscimento della funzione poetica, Jakobson non poteva fare altrettanto quanto alla predominanza; ci si fermava al necessario ma non sufficiente per cui lo slogan elettorale I like Ike stava sullo stesso piano di una pagina di romanzo (ma magari solo di poche pagine) o meglio ancora di una lirica, mentre di certo, per esempio, Il dialogo dei massimi sistemi doveva essere scartato.
La letteratura deriva quindi, secondo la via d’uscita proposta da Brioschi dallo scientismo claustrofobico della teoria e critica a lui coeva, dal modo di porsi della comunità letteraria. Attraverso il testo chiave di Mukarovsky (La funzione, la norma e il valore estetico come fatti sociali) si apriva dunque il testo a un modello relazionale per cui i confini dell’estetico non sono ipostatizzati in sé, ma ridefiniti nel tempo e nell’atteggiamento di chi guarda o legge.
I corsi di Spinazzola vertevano di solito su romanzi dell’otto-novecento di cui svolgeva un’analisi completa ed esemplificativa per gli studenti, tenendo sullo sfondo l’impostazione elaborata negli anni e racchiusa nel volume La democrazia letteraria (1984), tuttora il suo migliore quanto alla teoria. Ecco che si predilige il romanzo realista, ottocentesco e modernista, auerbachiano, nel quale lo “scrittore mostra di voler dialogare coi lettori su posizioni paritarie, ostentando di parlare la loro stessa lingua e di condividerne gli interessi mentali”. Così comincia lo scandaglio negli inferi delle scritture neglette dai critici, inserite nella complessità del sistema letterario, che oggi continua con i consuntivi pubblicati sotto il nome di Tirature dalla squadra di allievi fatta crescere da Spinazzola. Egli, sempre nel testo in questione, ha detto parole definitive sulla paraletteratura, di cui fanno parte “opere che appaiono pregiudizialmente immeritevoli di riflessione critica”, ma che – coerentemente con il suo allievo Brioschi -, viene individuata di volta in volta dalla storia letteraria (“paraletteratura è sempre soltanto ciò che venga considerato tale”).
In ogni tempo però c’è paraletteratura e paraletteratura e il critico dovrà sporcarsi le mani per distinguere anche lì e selezionare tra prodotti che sono comunque fruiti esteticamente e concorrono alla formazione di una coscienza letteraria di massa. Una proposizione su cui possiamo essere tutti d’accordo, così come sull’argomentare serrato ma pacato di Brioschi che picconava gli asserti dominanti nella tradizione formalistico-semiotica di allora, centrati sulle proprietà linguistiche del testo letterario, sul suo primato rispetto agli altri fattori di comunicazione, sull’assoluta necessità di studiarlo dall’interno. Tanto più che egli ci rassicura da qualsiasi deriva soggettivistica: ogni oggetto può essere guardato dal punto di vista estetico, ma esistono comunque qualità che devono rispondere alla mia domanda. Il modello relazionale non implica una soggettività arbitraria perché esistono istituzioni deputate a dir la loro, comunità garanti… Ebbene a me pare che i miei lontani maestri abbiano vinto la loro battaglia, ma con quali esiti ai giorni nostri?
Una sana lotta alla critica scientista e all’elitismo avanguardista ci ha forse condotti ad un ritorno al commento frammentato, divagante e autobiografico, a volte perfino bamboleggiante. E, quanto al ruolo militante della critica, ad una mancanza di linea, spesso subalterna o fiancheggiante i prodotti letterari più in voga. Del resto la letteratura, allo stesso modo degli altri prodotti di una società della comunicazione, sconta la difficoltà di muoversi nell’indifferenziato. Allora assistiamo alla subordinazione dell’oggetto letterario ai gusti di un pubblico sempre più ristretto e ineducato, le cui pulsioni nell’arena del mercato vengono sapientemente indirizzate dal mercato stesso. I maestri veri sono dunque minoranze che prevedono sempre il futuro, ma una volta che diventano maggioranze gli allievi li dovrebbero tradire. Meglio sarebbe per paradosso, tradire i maestri ancor prima che diventino maggioranza. In relazione ai nostri ci prende così, a contraggenio eppur per far loro onore, una voglia irresistibile, come lettori inappagati, di originalità purché sia, di fantastico e di oltranza linguistica.