La mia città, d’elezione se non di nascita, è Venezia: lì ho frequentato per più anni di quanto fosse strettamente necessario una facoltà rinomata, e lì sono tornato mille volte anche per diletto, mio e altrui, quando mi è capitato di accompagnare amici in visita con quello spirito di continua (ri)scoperta tipico dei luoghi magici. È la città che (e dove) più ho vissuto, come cittadino acquisito e come turista; quella che più amo, tanto da farne il paragone delle altre: unità di misura forse inappropriata o fuori scala, ma che certo non era tale per il Marco Polo de Le città invisibili calviniane.
Venezia, per quanto possa sembrare paradossale data la sua natura labirintica, è anche la città che ho imparato a conoscere meglio: calcando i masegni mentre volavo da un’aula all’altra e vagabondando tra le calli nelle giornate libere. Inevitabile farsi accompagnare da una guida, e inevitabile desiderare di conoscere la città anche attraverso la pagina stampata. L’esempio migliore è Corto Sconto, guida sui generis compilata dai collaboratori di Hugo Pratt e randagia fin dal titolo: un gioco di parole sulle corti sconte disseminate nella città e sullo spirito curioso, anticonformista necessario a scovarle (sempre più spesso le corti sconte, come del resto tutto quanto, stanno diventando Proprietà Privata, recintata e inaccessibile; ma questo è un altro discorso, o forse no). Un testo quindi che si compiace d’indicare the roads less taken e le bellezze meno appariscenti della Serenissima.
Una guida intitolata “Isole” dovrebbe, a buon diritto, essere dedicata a Venezia, o semmai a Stoccolma; in entrambi i casi avrebbe gioco facile a catturare la mia attenzione. Invece è un libro su Roma, e le isole in questione non sono letterali, ma quelle che in senso neppure tanto figurato permettono di «fuggire via dalla pazza folla» (p. 3), dal «blocco di lamiere frementi» (p. 7) in cui «sentirsi come criceti fra le spire d’un serpente di metallo» (p. 77). Isole, dunque, circondate non dall’acqua, o dal liquame che riempie i canali di Venezia, quanto piuttosto dal traffico, dallo stress, dai romani.
E fin da subito il paragone è impietoso: perché a Venezia via d’acqua e di terra (o insomma, le migliori approssimazioni disponibili) si escludono a vicenda, e per quanto il moto ondoso possa essere problematico non ci sarà mai il rischio d’essere investiti; e la quiete, la tranquillità, perfino il silenzio sono sempre a un passo, se si evita il circuito del turismo a tappe forzate. E se pur Lodoli ammette che «l’anima della nostra città è liquida» (p. 14), se immagina via Veneto «come un placido fiume che scorre in salita» (p. 69), se arriva a citare Montaigne quando osserva: «di Roma resta solo il Tevere che fugge verso il mare. Ciò che è solido viene distrutto dal tempo, e ciò che scorre resiste» (p. 65); seppure Lodoli ha queste illuminazioni, l’impressione è che scaturiscano proprio dalla coscienza di un’inadeguatezza di fondo.
Per compensare, l’orgoglio romano ricorre infallibilmente al meccanismo difensivo di routine: il caputmundismo, declinato qui nella versione de noantri. Insieme ad infinite altre cose, Roma vanta infatti «l’unica fontanella per cani di tutto il mondo» (p. 15), con lapalissiana millanteria dal momento che ce n’è almeno una, che io sappia, perfino a Treviso, di fronte alla biblioteca comunale: talmente bassa da risultare inaccessibile a qualsiasi bipede più alto di un kiwi, e raggiungibile oltretutto solo dopo aver sceso alcuni gradini (pertanto off-limits anche per Brunetta). Ora, io dubito che quella di Treviso sia l’unica altra fontana per cani esistente al mondo. Ma i romani potranno nondimeno sostenere d’avere la più bella, antica, preziosa, grande e, in mancanza d’altro, pia del mondo.
Certo, il mio è campanilismo. E in materia di campanili, se non altro, bisogna ammettere che Roma è imbattibile. Perché sopra, dietro, accanto, sotto, dentro qualsiasi cosa, a Roma c’è sempre una chiesa. Chiese, chiese infinite; sicuramente più dei ponti di Venezia, che, anche a contare quelli doppi o tripli, sono di certo meno di cinquecento. Un brulicare di santi, denominazioni e attributi che, a quanto pare, nemmeno gli utenti stessi riescono a ricordare; una moltitudine degna del politeismo più massimalista, e che in sé è già barocca:
cieli grondanti di cherubini e santi, firmamenti sovraffollati di creature aggrappate alle nuvole, stormi d’immagini pensate per sbalordire e raccontare che la vita è un teatro mirabolante dove tutto si tiene per imperscrutabile volontà divina.
(p. 5)
In un simile contesto, va a merito di Lodoli infilarsi «dietro l’altare maggiore» (p. 5), «nella cappella in fondo a sinistra» (p. 71), «superando una porticina quasi sempre aperta» (p. 32), ovvero negli angoli nascosti, alla ricerca, aridaje, di «una delle più grandi meridiane del mondo, probabilmente la più bella» (p. 22), dei «più straordinari mosaici della scuola preraffaellita» (p. 53), e di altri superlativi interplanetari. Va a suo merito anche sapersi smarcare dai superlativi, e all’occorrenza saper trovare la bellezza, l’emozione, il satori anche nella modestia di un quartiere popolare o di una piccola bottega. Ad esempio le tre sarte, moderne Moire, che pubblicizzano «rammendi invisibili» e da decenni «sono le vestali della continuità e del rimedio».
Andrea Zanzotto afferma che la missione del poeta è di restaurare il vuoto che c’è nel mondo attraverso la trama dei versi, «perché all’inizio c’è il vuoto, la negazione». Le rammendatrici di via Fontanella Borghese fanno lo stesso lavoro, piegate alla luce fissa di una lampada ristabiliscono con gli occhi attenti e gli aghi laboriosi la compiutezza d’una stoffa. […] Il poeta tenta con le parole di riavvicinare lembi lontanissimi, di riparare il danno dell’esistenza – e le tre signore cuciono incessantemente. Il loro mestiere ha il senso stesso di ogni arte che, al culmine della sua virtù, sparisce per lasciare il posto alla grazia trasparente della perfezione.
(pp. 45-46)
In altre parole, le artiggiane della qualità.
Il libro è sottotitolato “Guida vagabonda di Roma” e si apre con queste parole: «Scantonare, ecco cosa ci piace fare» (p. 3). Nello spirito di Corto Sconto, Lodoli sa bene che perfino nella città eterna «l’eccezionalità […] sta molto nei suoi capolavori seminascosti, in quei tesori che vanno cercati e scovati nella penombra di un vicolo o di un chiostro»; sa che per innamorarsi di un luogo bisogna incontrarlo a tu per tu, ed è necessario che «l’individuo e il capolavoro si veng[a]no incontro silenziosamente, quasi di nascosto, come in un primo appuntamento amoroso» (p. 86). Per quanto abbia poi la tendenza a prendere la questione delle isole del traffico fin troppo alla lettera, e finisca per cantare le lodi di benzinai e alberi solitari sul ciglio della strada. Ma in fin dei conti queste ‘isole’, prima di venire raccolte in volume, erano apparse sulle pagine romane de La Repubblica, e più d’una conserva ancora traccia di questo carattere occasionale, contingente, negli accenni alle stagioni o alla cronaca.
Nelle parole di Lodoli, alla fine ci si ritrova ammaliati dalle grazie della città, e incapaci di portarle rancore; perché
da sempre Roma viene paragonata a una donna bene in carne, un po’ madre e un po’ zoccola, generosa nell’accogliere tra le tette dei suoi colli figli e figliastri. È un abbraccio bonario, indulgente, che in breve smorza gli incendi anche nelle coscienze più arroventate. Qui tutto s’arrotonda, le vite s’allacciano in un cerchio, pochi giorni e le polemiche si trasformano in pacche sulle spalle, le inimicizie in paciose tavolate.
(p. 31)
E insomma, via, volemose bene.
Marco Lodoli, Isole: Guida vagabonda di Roma, Torino, Einaudi, 2008 (2005), pp. 148, € 10.