Verre cassé (Verre cassé, Editions du Seuil, 2005) è un “roman” di Alain Mabanckou, almeno se ci atteniamo al sottotitolo che compare sulla copertina dell’edizione francese. Ma dobbiamo ammettere che il vero autore è Verre cassé, personaggio eponimo e scrittore a tutti gli effetti. Il romanzo altro non è che il suo taccuino. È a lui che Lumaca testarda, proprietario del bar dal comico e celiniano nome Credito a morte, affida un quaderno su cui registrare la storia del misero locale. Verre cassé, dapprima più che recalcitrante, finisce per appassionarsi alla scrittura e dà il via a un inarrestabile e spericolato racconto-fiume in cui si susseguono a perdifiato le vite e le storie degli assidui frequentatori del bar, che fanno a gara per raccontare e raccontarsi. Una galleria di insignificanti personaggi dalle esistenze banali e dolenti eppure degne di uno spazio tra le pagine del quaderno, e dunque della letteratura, sfilano uno dopo l’altro sotto i nostri occhi.
Il recente ritorno di Verre cassé per le edizioni 66thand2nd nelle librerie italiane, dove lo incontriamo con il nuovo titolo Pezzi di vetro (la prima traduzione italiana, uscita nel 2008 da Morellini, s’intitola Verre cassé) ha rappresentato lo spunto per una riflessione sulle fatiche del (ri)tradurre.
Che la traduzione sfiori l’utopia e abbia in sé un qualcosa di miracoloso, che sia un’impresa faticosa votata al fallimento – tanto da risvegliare la figura mitica di Sisifo – e sia costantemente minacciata dalla perdita non sono certamente delle novità. Sono questi alcuni dei miti e dei cliché che aleggiano sulla traduzione e sul suo protagonista. Per quanto possano essere ritenuti colpevoli di semplificazioni e di facili riduzioni essi racchiudono senz’altro una parte di verità. Il viaggio di Verre cassé verso altre lingue ne è un’incontrovertibile conferma. A ben vedere le versioni tradotte danno concretezza e spessore a queste (ab)usate rappresentazioni dell’atto traduttivo; i leitmotiv spesso logorati dall’eccessivo ripresentarsi sembrano per un attimo rivelarsi pertinenti.
Uscito nel 2005, Verre cassé, è il quinto romanzo di Alain Mabanckou; vero spartiacque della sua carriera imprime un punto di svolta nel percorso dell’autore segnando il suo ingresso nella «repubblica mondiale delle lettere». Suggestivamente definito dalla critica un «ufo letterario» riscuote un larghissimo successo aggiudicandosi numerosi premi letterari e ottenendo importanti riconoscimenti (fra i quali la candidatura al prestigioso Prix Renaudot). La sua opera raggiunge le maggiori case editrici (Seuil e Gallimard) aprendo così la strada a una più larga diffusione: ecco che lettori stranieri e piccoli ma avveduti editori al di là dell’Hexagone guardano con interesse al pluripremiato Verre cassé; ed ecco che nell’arco di qualche anno vengono alla luce le versioni tradotte.* Se il romanzo di Mabanckou riporta a galla tutto un immaginario legato all’esperienza del tradurre, questo accade perché nelle sue pagine si annida uno scoglio tra i più impervi che rischia di far incagliare il processo traduttivo. C’è in questa scrittura un problema che viene considerato (e a ragione) quasi insolubile, prossimo all’intraducibile: si tratta dell’intertestualità, quel rapporto inestricabile che ogni testo instaura, più o meno segretamente, con altri testi. Protagonista del romanzo, la pratica intertestuale, viene esplorata in lungo e in largo assumendo di volta in volta forme diverse fino a coprire l’intera tipologia proposta da Genette (citazione, allusione, plagio). La scrittura è percorsa da una miriade di richiami, prestiti e clins d’œil (approssimativamente 300) che pur provenendo dagli ambiti più disparati (cinema, arte, fumetti, musica, storia, programmi televisivi), riservano una schiacciante e clamorosa maggioranza ai riferimenti letterari (circa 240 sui 300 rinvenuti). La letteratura, presente perlopiù nella forma della citazione di titoli, cattura il lettore in un vorticoso gioco di riconoscimenti e scoperte. Se talvolta essi sono visivamente segnalati per mezzo del corsivo o marcati da delle virgolette (come per esempio Memorie d’Adrien, Il libro di mia madre) così da non sfuggire neppure al lettore più distratto, spesso accade che vengano incorporati e inghiottiti senza che alcun indizio metta in guardia il lettore; benché abilmente diluiti nel corpo del testo restano però ancora riconoscibili (non è complicato, per esempio, cogliere in queste righe il rimando al celebre romanzo di Simone de Beauvoir «non sono certo il tipo da accanirmi sul secondo sesso»). In altri passaggi invece la dimensione intertestuale rischia di rimanere in incognito: ciò si verifica quando i titoli subiscono distorsioni e contorsioni per inserirsi al meglio nel discorso. Una volta intervenute tali trasformazioni lessicali o sintattiche a fare velo, è tutt’altro che scontato riuscire a portarli allo scoperto (ecco come i capolavori rispettivamente di Boris Vian, Gabriel García Márquez e Aimé Césaire vengono camuffati e resi opachi: «che avrebbe sputato sulla mia tomba», «mi consiglia di passare il mio ultimo autunno del patriarca», «eccomi subito di ritorno al paese natale»).
Diverse sono le ragioni per cui questa fitta trama di collegamenti e richiami si sfilaccia in traduzione: può accadere che i titoli citati abbiano subito pesanti trasformazioni in sede traduttiva tanto da risultare inutilizzabili. È il caso del romanzo L’Enfant noir di Camara Laye alla cui versione italiana è stato dato il titolo Io ero un povero negro: così al «j’étais l’enfant noir» francese corrisponde nella versione italiana il letterale «ero un bambino nero» provocando un’irrimediabile sospensione degli echi intertestuali attivati dal testo di partenza. La rete si spezza inevitabilmente anche là dove le traduzioni sono mancanti. Si pensi per esempio a Mission terminée di Mongo Beti (in questo caso compaiono le virgolette per segnalarne la presenza) oppure a Le Potentiel érotique de ma femme di David Foenkinos di cui non esistono versioni in lingua d’arrivo. Ovviamente anche in questo caso il lettore italiano è privato della possibilità di riallacciarsi ad altri testi, di mettere in moto la sua «enciclopedia». E ancora alcune allusioni si disperdono nel passaggio da una lingua all’altra semplicemente perché sfuggono all’occhio del loro primo lettore, del Lettore per antonomasia – il loro traduttore. Se alla traduttrice inglese Le Désert de l’amour (romanzo di François Mauriac) non dice niente al punto da renderlo con lo spaesante «fourteen years in the wilderness» che cancella qualunque riferimento e associazione, questo rimando continua a funzionare per il lettore italiano che si imbatte nell’equivalente «quattordici anni di deserto dell’amore». Allo stesso modo il nome del padrone del bar, citazione manifesta del romanzo di Rachid Boudjedra dal titolo L’Escargot entêté, passa inosservata per la traduttrice spagnola che opta per l’anonimo «el Caracol Tozudo» portando fuori strada il suo lettorato, che faticosamente riuscirà a stabilire la relazione con il naturale e immediato «El caracol obstinado» (titolo con cui è uscito nella versione spagnola).
Alain Mabanckou, Pezzi di vetro, 66th and 2nd 2015, pp. 192 €16
* Ripercorrendo le versioni tradotte in ordine cronologico la prima ad apparire è la traduzione spagnola di Mireia Porta i Arnau pubblicata da Alfaneque nel 2007; l’anno successivo esce in Italia da Morellini la traduzione di Martina Cardelli seguita dalla ritraduzione di Daniele Petruccioli del 2015 per 66thand2nd; è di Helen Stevenson la versione inglese pubblicata nel 2010 da Serpent’s Tail in Gran Bretagna e da Soft Skull negli Stati Uniti. Più recente è Zerbrochenes Glas, il Verre cassé tedesco, apparso nel 2013.