«Questo non vuole essere un saggio critico su Luciano Bianciardi. E non vuole nemmeno essere un panegirico sullo scrittore che, per primo in Italia, ha compreso, sin dal finire degli anni 50, che il consumismo di massa era soltanto una chimera.»

È quello che si legge a pagina ventuno di Luciano Bianciardi. Il precario esistenziale; e a tutti gli effetti, il libro curato dal critico Gian Paolo Serino e uscito da un paio di mesi per le edizioni Clichy di Firenze rispetta questa premessa. Cosa vuole essere, allora, nelle sue poche agili pagine (poco più di cento, tredici bellissime fotografie comprese), questo testo? Paradossalmente molte cose: un’utile guida alla lettura, prima di tutto; un’introduzione all’opera, imperniata sull’avvertimento che fermarsi a La vita agra – o ai commenti su La vita agra di chi La vita agra magari nemmeno l’ha letto – non basta; un’interpretazione (tutta politica, in senso anarchico) di Bianciardi; un urlo ragionato ovvero un gesto non mediato, dunque (quasi) tutto passione; un’antologia che è una scelta che è evidentemente già un’idea; una lettura veloce e piacevole, tanto nella breve parte del curatore quanto, com’è ovvio, nella parte antologica; un invito a leggere Bianciardi, infine, ma anche a leggere e punto.

Com’è nel suo stile, Serino presenta la vicenda puntellandola con un buon numero di scoop o notizie rare sull’autore e l’Opera: dalla vera identità del «torracchione» che il protagonista della Vita agra vorrebbe far saltare (spesso erroneamente identificato col Pirellone, celerebbe in realtà la Torre Galfa, sede della Montedison) a una serie di spunti che coincidono grossomodo coi titoli dei paragrafi che compongono il testo introduttivo: «Libri di Eco» (dove si racconta di Bianciardi precursore dell’Umberto Eco di Fenomenologia di Mike Bongiorno nel denunciare la degradante paradossalità della comunicazione televisiva); «Bianciardi: il primo scrittore corsaro» («Bianciardi, ben prima di Pasolini, ha anticipato le coordinate delle nostre macerie morali dettate dal consumismo»); «La vita agra», «Le coincidenze de La vita agra» e «La nostra vita agra» (pare che, per il romanzo con cui raggiunse il successo nel ’62, lo scrittore grossetano abbia “rubato” la peraltro semplice trama di un misconosciuto romanzo irlandese del ’58, Ragazzo del Borstal di Brendan Behan); «Bianciardi a 33 giri. Jannacci e Celentano» (Bianciardi profetizzò che Celentano «avrebbe un giorno lanciato “una filosofia totale intervenendo nei dibattiti come un intellettuale accreditato”»).

Più forte degli scoop, veri o presunti, catalizzatori della prima attenzione, è la “trama” di quest’antologia, o meglio il sentimento che la agita cercando di agitare il lettore, nell’esatto senso che indicano le seguenti parole: Bianciardi scrisse «centinaia di editoriali, articoli, recensioni, ma in realtà [scrisse una cosa] sola: siate coerenti con voi stessi, toglietevi il paraocchi, liberatevi delle comodità che vi inchiodano a una sedia, a una scrivania, ad un televisore e pensate con la vostra testa. […] Per fortuna […] la sua voce è più potente che mai e l’unico favore che possiamo ricambiare è leggere tutti i suoi libri».

Oggi più di cinquant’anni fa, questo messaggio vale da salvezza e insieme da condanna. Il sistema, oggi più di ieri, è «un muro indistruttibile: perché non ci sbatti più neppure contro. Ci svanisci dentro» (così sempre Serino). Allo stesso modo è più attuale oggi di quanto non fosse negli anni del Boom economico l’immagine che Bianciardi offre delle «due Italie». Dal Lavoro culturale (1957): «Perché c’era voluta la guerra a farci capire che esistono due Italie? Da una parte l’Italia dei contadini, quelli che lavorano, e poi fanno le guerre; dall’altra l’Italia del signor generale, del vescovo, del federale. E noi cosa stiamo a farci? Dobbiamo scegliere, o di qua o di là. Noi abbiamo studiato […], ma quel che abbiamo imparato non servirà a niente, se non ci aiuta a capire le ragioni dei contadini; se non ci aiuta ad evitare di doverceli portare dietro un’altra volta, domani, e morire insieme senza nemmeno esserci guardati in faccia, senza mai esserci capiti». Bianciardi aveva già tradotto in azione queste idee, ad esempio inventandosi all’inizio degli anni Cinquanta un «bibliobus» su cui viaggiare per portare romanzi e saggi nelle campagne del Grossetano, o raccontando il mondo dei minatori maremmani dopo la tragedia del 4 maggio 1954, nella miniera di Ribolla di proprietà della Montecatini, dove l’esplosione di un pozzo portò alla morte quarantatré operai.

Tra le due Italie estreme trova spazio un’Italia di mezzo, «senza cielo sopra e senza anima dentro» come la Milano descritta da Bianciardi, che qui ben si presta a far la parte per il tutto; un’Italia che «non trova un aggancio con questa, e non lo trova nemmeno con l’altra Italia, quella di sotto, quella che fa la fame, che campa con centomila lire annue per famiglia, che non sa né leggere né scrivere. Fra queste due Italie, per diverso motivo depresse, come suol dirsi oggi, la nostra Italia di mezzo non riesce a trovare la mediazione. Star lì è comodo quanto vuoi, ma non serve a nulla» (da L’integrazione, 1960).

Dalle pagine del Precario esistenziale emerge un ritratto del Paese – e del suo ambiente letterario-editoriale, di nuovo oggi più di ieri – che con ogni probabilità lascerà nel lettore un forte senso di amarezza, e di malinconia; ma non di rassegnazione. Qui sta almeno l’invito di Bianciardi (e di Serino). Dalla teoria di sentimenti indotti, la lettura di questo libro non escluderà anche una certa rabbia; ma è una rabbia che chiede di essere controllata e trasformata in forza, azione, cambiamento.

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PrecarioNota a margine. Quando chiedo a Serino quando e come ha scoperto Bianciardi, lui mi risponde: «L’ho scoperto quando avevo sedici anni leggendo La vita agra. Da lì, visto che ci somigliamo molto, è stato amore!». A proposito de La vita agra e del tour promozionale, si direbbe oggi, conseguente alla sua uscita, Bianciardi scriveva in una lettera: «sto girando come un rappresentante di commercio, ho battuto i marciapiedi dell’Emilia e adesso mi preparo a fare la medesima cosa nel Veneto. Viene con me Domenico Porzio e a volte sembriamo due comici da avanspettacolo: sempre le stesse battute, e sempre la faccia di chi le dice per la prima volta. Mi comincio a vergognare […]». La somiglianza denunciata da Serino torna evidentemente anche nello spirito con cui ha deciso di affrontare la promozione “fisica” del suo libro: un solo appuntamento, quello che avrà tempo e luogo dopodomani, sabato 21 marzo, all’interno della rassegna «Passeggiate d’autore»: ritrovo alle 10.30 davanti al Bar Jamaica (nella foto in alto, un’immagine che ritrae il locale negli anni Sessanta) in via Brera, Milano ovviamente, per ripercorrere i luoghi esistenziali dello scrittore fino ad arrivare alla Feltrinelli di via Manzoni alle 11.30, dove si terrà la presentazione alla quale interverranno, con l’autore, Alessandro Beretta e Simone Mosca.