Un’antica parabola buddista racconta di un uomo che si lascia penzolare oltre l’orlo di un precipizio tenendosi aggrappato ad una radice per fuggire da una tigre affamata che lo insegue. Improvvisamente due topi, uno bianco e uno nero, cominciano a rosicchiare la pianta a cui è appeso. L’uomo, guardando in basso, vede un’altra tigre pronta a sbranare il suo corpo, e capisce che ormai non ha alcuna speranza di sopravvivere. Nello stesso istante scorge al suo fianco una fragola, tende il braccio, la coglie e la mangia. La storia si chiude sottolineando quanto fosse dolce la fragola.
Qualcosa di simile accade anche nei racconti che compongono l’ultima raccolta di George Saunders Dieci dicembre [trad. di Cristiana Mennella, Minimum Fax, Roma 2013, pp. 222]. Come nella parabola zen, anche in queste brevi storie il peso è posto alla fine, ma forse “peso” non è la parola giusta, sarebbe meglio dire la leggerezza. I temi sono certamente duri: giovani reduci dell’Iraq (Casa); un malato di cancro che tenta di suicidarsi (Dieci Dicembre); un tentativo di stupro su una minorenne (Giro d’onore); carcerati che diventano cavie per la sperimentazione medica (Fuga dall’Aracnotesta); giovani immigrate costrette a “lavorare” come arredi o addobbi nei giardini curati di ricchi americani (Le ragazze Semplica); un caso di mobbing (Fiasco Cavalleresco); un bambino tenuto legato a un guinzaglio come un cane (Cagnolino). Insomma, la dura e assurda realtà della provincia americana. Nonostante tutto, però, ciò che presenta i toni cupi di una narrazione realistica – in certi casi iperrealistica, oppure anche apertamente fantascientifica, sebbene in chiave ironica e distopica – tende sempre verso un alleggerimento sostanziale. La pesantezza dei temi non pervade la scrittura, che si libra verso altri orizzonti. La lezione sulla leggerezza, posta da Calvino nei suoi memos per il nostro Millennio, è rintracciabile quasi in ognuno dei dieci racconti di Saunders, e conferisce al tutto un equilibrio encomiabile. Non si tratta di rendere divertente la tragedia, più sopportabile la malattia, né di trovare obbligatoriamente un lato positivo o un atteggiamento positivo (argomento al centro di Esortazione, che gioca ironicamente sui modi di indorare la pillola di un licenziamento). Niente di tutto questo. Piuttosto la scrittura di Saunders è fatta di piccoli momenti, di piccole aperture o scorci, in cui ciò che opprime passa in secondo piano, e qualcosa come una visione estatica, un momento di pura bellezza, trascina altrove e permette di vedere oltre: «Un soffio di vento mandò giù dal cielo una raffica di neve vaporosa. Che spettacolo. Perché eravamo fatti così? Capaci di trovare la bellezza in tante cose che accadevano ogni giorno?» (Dieci Dicembre).
Una simile disposizione ci riporta al buddismo. Nel caso di Saunders la professione di fede sembra essere qualcosa di più di una semplice nota di costume. Lo scrittore non è l’ennesimo personaggio noto che promuove forme New Age come esempio comportamentale (cosa che si ritrova nelle parole della presentatrice di una serata di beneficenza per raccogliere fondi contro la droga in Al Roosten). Il suo interesse è più profondo, e traspare dalle sue storie come una luce costante in grado di illuminare un cammino accidentato.
Chiariamo una cosa: Saunders è della stessa generazione di Foster Wallace, del quale era anche grande amico. Questo ci dice molto riguardo al suo stile, alla sua ironia dissacrante che a tratti ricorda il Foster Wallace di Oblio e Una cosa divertente che non farò mai più. Ma chiaramente il riferimento non basta. Leggere Saunders significa volgere lo sguardo a una dimensione sociale non nuova, non marginale o emarginata, non posta ai limiti della sopravvivenza. Piuttosto la sua scrittura presenta un’umanità meschina, ipocrita, agiata e infantile, fatta di persone ossessionate dai dubbi su ciò che gli altri pensano dei loro successi, insuccessi e fallimenti. Un’umanità non eroica e molto più vicina a noi di quanto siamo disposti ad ammettere. I suoi personaggi non sono immaturi, ma hanno solo la tendenza ad autoassolversi e a comportarsi come bambini a cui tutto è dovuto. Soltanto alle parole di uno straniero può essere affidata una riflessione sul modello economico-culturale occidentale, che costringe ad indebitarsi per accedere a lussi al di sopra delle proprie possibilità in vista dell’accettazione pubblica (Ragazza Semplica).
Uno dei fili che tengono unite le storie è proprio il costante bisogno di approvazione e inclusione espresso da tutti i personaggi, e questo si ribalta nella presenza constante dei bambini e degli adolescenti, che ritroviamo in ogni racconto a rappresentare la controparte pura e più limpida del mondo adulto. Ma se i bambini di Saunders sanno fare i bambini, gli adulti non sembrano in grado di fare gli adulti, e diventano anzi adulti-bambini a cui non spetta però nessuna purezza. Ciò che li contraddistingue è la loro tendenza alla deresponsabilizzazione nei confronti delle azioni che compiono, non c’è traccia in loro dell’innocenza dell’infanzia ma soltanto dell’impulsività che porta a un pentimento tardivo e umiliante (Al Roosten; Fiasco Cavalleresco).
Cosa può salvare questi personaggi grotteschi e le loro storie? Salvare, non riscattare; salvare, non nobilitare. A salvarli è soltanto la narrazione, la possibilità che questi personaggi vengano mostrati, non per uscire dall’invisibilità, ma per essere sovresposti ad un livello diverso di espressione. Così le parole di Saunders si muovono fuori e dentro i personaggi, i loro pensieri, le loro domande sulle cose, i loro infiniti dubbi. La narrazione attraversa diversi gradi di coscienza senza mai trovare una connotazione stabile. Anche all’interno dello stesso racconto la focalizzazione cambia più volte e gioca con le prospettive multiple della descrizione dei fatti, presentando anche casi di personaggi bi- o tripolari. Questa strategia non realizza soltanto una pluralità di punti di vista, ma va verso il loro annullamento, verso la fusione con il tutto, nel sollevarsi della narrazione oltre le piccolezze umane. Poco o niente delle meditazioni interiori dei personaggi si traduce in azioni concrete o nobili. Non c’è riscatto sociale, e il dubbio è che se anche ci fosse non sarebbe riconosciuto e non avrebbe importanza. Resta però la possibilità di raccontarsi un’altra versione di se stessi e dei fatti, così da produrre uno scarto, un’alternativa che diventa àncora di salvezza interiore. Certo a quel punto la società è già perduta forse, ma l’io non ha più bisogno di assolversi agli occhi degli altri perché è salvato da una narrazione che tocca, in sorvolo, i personaggi, oppure semplicemente si unisce ad uno stormo di uccelli in volo, come accade al narratore di Fuga dall’Aracnotesta dopo la morte (ancora nel finale).
È qui che Saunders toglie il peso e lascia la scrittura libera di vagare, e riesce a conferire alla narrazione un potere che altri scrittori, troppo presi nel ruolo di documentatori del reale, non sanno affidarle. C’è realismo in Saunders? Senza dubbio sì, e anche dei più attuali, ma non va nella direzione di presentare la situazione così da suscitare una reazione. Piuttosto la scrittura crea una cornice in cui al reale è concesso un atto di grazia: ciò che un grande poeta, prima che un grande cantautore, ha definito come una «una goccia di splendore». E allora i termini per definire i racconti di Dieci Dicembre possono essere quelli della trasparenza di una goccia, la grazia di un sorriso, la tenerezza di un ricordo (Croci), che permettono una deviazione al corso serrato di esistenze pesanti, e salvano gli adulti-bambini in un momento quasi di estasi, quando sull’orlo di un precipizio è ancora concesso gustarsi una dolcissima fragola.
George Saunders, Dieci dicembre, Roma, minimum fax, 2013, pp. 222, 15€.