Breve storia del talento comincia con una frase lunga una pagina, una frase che ha l’andamento di una partita di calcio ben calibrata, un’azione che parte da centrocampo e arriva in porta prima che te ne possa accorgere, sbaragliando lettore e difesa senza usare nemmeno un punto fermo. Di fatto quella frase è esattamente questo: la descrizione di un tiro in porta che fa da proscenio all’intero romanzo.
Un tiro perfetto, ad essere precisi, scoccato con sorprendente intuito da un quattordicenne di nome Michele; non il protagonista del libro, l’altro, quello con una mostruosa predisposizione per il pallone, il modello da idolatrare e detestare, la pietra paragone di ogni delusione a venire, il primo disorientante incontro con il Talento vero e proprio, quello che non richiede precisazioni né aggettivi.
L’ambientazione è quella della campagna aquilana, l’anno è il 1989, è estate, il protagonista ha quindici anni, scrive poesie di nascosto e vive in un complesso residenziale affacciato su una gigantesca aiuola che ogni giorno è teatro di partite di calcio, corteggiamenti impacciati e crudeltà inconsapevoli. Breve storia del talento è la descrizione di quell’estate, quella che per il protagonista sancisce la fine dell’adolescenza e l’impatto violento con l’età adulta.
Nel libro di Enrico Macioci (classe 1975, aquilano, qui alla sua terza prova) il calcio compare a più riprese, a partire dalla copertina dove un portiere è immortalato a mezz’aria mentre si allunga a intercettare un pallone di cuoio d’altri tempi; eppure Breve storia del talento non è un romanzo sul calcio, né sul talento se è per questo: è un romanzo sull’adolescenza.
Devo ammettere che in un primo momento questi due elementi mi hanno fatto ingranare la retro, perché se ci sono due argomenti abusati allo sfinimento nella narrativa italiana sono appunto il calcio, sempre presentato come inaggirabile metafora di vita e moderno surrogato dell’epica; e l’adolescenza, con il suo corredo di rimorsi mai sopiti, ricordi pastello e timori gonfiati dall’ignoranza.
Enrico Macioci ha però trovato un modo di raccontare l’adolescenza che lo tiene a distanza controllata dagli stilemi del racconto di formazione e dell’autofiction. Ha riattraversato l’estate senza fine dell’adolescenza senza levarsi i vestiti d’adulto e scegliendo un punto di vista privilegiato, quello dell’addetto ai lavori che ha seguito la nascita di una storia da dietro le quinte. Il risultato è il backstage di un film che tutti abbiamo visto a bocca aperta, troppo incantati dallo scorrere delle immagini per provare a comprenderne il senso. Tentare di spiegare l’adolescenza a bocce ferme, significa venire intralciati da un roveto di rimpianti, nostalgie, sogni in rovina e incubi sepolti. Macioci riesce a rievocare i luoghi del suo passato senza rinunciare alla consapevolezza dell’età adulta, indovinando una narrazione allo stesso tempo poetica e scorrevole, sorretta da un sapiente equilibrio tra la foga del racconto viscerale e la pacatezza della riflessione a posteriori.
In Breve storia del talento Macioci affonda le mani nell’estate più importante, quella dei suoi quindici anni, e si spinge fino ai gomiti senza curarsi di quanto sporco possa venire a galla. Il limite principale di ogni racconto autobiografico è il rischio di intessere una più o meno inconsapevole agiografia di se stessi, l’autore lo aggira scegliendo una sincerità senza freni. Personaggi come l’asso del calcio Michele, l’anticonformista Padre Lucky, la sensuale Miriam, e tanti altri, vengono presentati con le etichette che si affibbiano al liceo, ma senza per questo risultare forzati o bidimensionali.
È allora, solo allora che l’adolescenza si manifesta per quello che è: una promessa abbagliante e impossibile da mantenere; che a sua volta, in un certo senso, è il backstage della vita stessa.