Le notti bianche non sono un’esclusiva degli amanti della vita notturna e del gin tonic. Prima di tutto sono quelle incredibili notti di giugno che, nel nord del mondo, non conoscono il buio.
Se mai vi capiterà di andare a San Pietroburgo in questo periodo dell’anno vi chiederete perché questi folli russi non si siano mai muniti di tapparelle, visto che per più di un mese non tramonta mai il sole e, parola d’onore, dormire è veramente un’impresa anche per chi ha il sonno pesantissimo. Per chi invece non ha bisogno del buio per sognare, è il periodo ideale.
È ne Le Notti Bianche che si aggira un sognatore, creatura di Dostoevskij nonché protagonista di questo breve romanzo. La prima cosa da dire su questo sognatore è che il suo autore non gli ha dato un nome, e non certo per sbadataggine… stiamo pur sempre parlando di Dostoevskij, che è riuscito ad affibbiare nome, cognome e patronimico anche all’ultima comparsa di romanzi ben più lunghi e articolati di questo. Perché quindi privare il protagonista, per giunta narratore, della sua identità anagrafica? E non solo: non sappiamo nemmeno se è bello, brutto, alto o magro perché non viene mai descritto fisicamente. Di lui sappiamo solo che in ventisei anni di vita, grazie alla solitudine, ha coltivato una fantasia ipertrofica. E questo, forse, può far luce sulle motivazioni del suo anonimato: l’unica caratteristica che lo definisce e gli dà consistenza è la capacità di sognare. Lui stesso infatti ama definirsi un tipo, un originale, insomma un sognatore, la cui esistenza è completamente immersa in fantasie a occhi aperti:
Il sognatore fruga invano, come tra la cenere, tra i suoi vecchi sogni, cercando almeno qualche scintilla per soffiarvi sopra e rinnovare la fiamma per riscaldare un cuore gelato e far rinascere in esso ciò che prima gli era tanto caro, tutto ciò che lo commuoveva, che gli faceva ribollire il sangue, che gli strappava le lacrime dagli occhi e che così meravigliosamente lo illudeva!
É l’incontro sul lungofiume con la giovane Nasten’ka a ravvivare quella fiamma che il sognatore cerca disperatamente di tener viva. Per le quattro notti trascorse a passeggiare e a conversare con lei coltiva la beata illusione di concretizzare il suo sogno d’amore, quello stesso amore romantico che aveva riempito tante sue giornate trascorse sulle pagine dei libri; a incorniciarli, le luminose notti di Pietroburgo con la loro atmosfera onirica. E a questo punto ci sono tutti gli ingredienti necessari per un cocktail da sogno, capace di estraniare dalla realtà. Ma come la nebbia che alla sera conferisce alla città di Pietro un’impronta surreale, per poi scomparire rivelandone il freddo aspetto nella disillusione del mattino, anche il sogno d’amore romantico a guardar bene è molto fumo e niente arrosto. Infatti, tra il sognatore e la sua dama non è prevista una vera relazione: Nasten’ka ha il solo ruolo di alimentare una favola, incarnando un’idea di cui il sognatore si nutre; fuori dal sogno, altro non è che un leggerissimo cartonato dietro cui non sembra esserci molto. Ciò che conta è che lei sia lì a catalizzare su di sé tutte le proiezioni e le idealizzazioni del nostro protagonista perché una vera donna, con tutte le sue imperfezioni, non avrebbe mai potuto rispondere alle aspettative che il sogno esige.
Quel che succede alla fin della fiera è che il sognatore si prende un bel due di picche. Poco male, anzi, meglio così: il sogno a occhi aperti può continuare indisturbato e l’ideale non dovrà mai fare i conti con la realtà.
A questo punto però il lettore sarà felice di sapere che nel catalogo primavera/estate della letteratura sono disponibili svariati modelli di sognatore… e meno male perché, siamo sinceri, nessuno avrebbe puntato granché sul successo di questo russo solitario, malinconico e sicuramente un po’ palliduccio. A occhi chiusi invece avremmo scommesso sulla splendente creatura di Fitzgerald nella sua versione americana del sognatore, Il grande Gatsby. Notate bene che qui il protagonista del romanzo non solo ha nome e cognome ma anche l’epiteto di “grande”. Perché Jay Gatsby, nel bene e nel male, è grande. E tutt’altro che anonimo.
Di lui sappiamo tutto e anche di più, dato che alla sua descrizione e a fatti reali si accodano svariati pettegolezzi; per la cricca di newyorkesi a West Egg, Gatsby è stato una spia tedesca, uno studente modello di Oxford, un soldato nell’esercito americano. Gira voce che ha pure ammazzato un uomo. Insomma, se per il sognatore russo eravamo in deficit di notizie, qui veniamo continuamente confusi da un mucchio di informazioni che non fanno che accrescere il fascino del misterioso miliardario.
Anche la storia di Gatsby è quella di un sognatore perché anche lui, per sua natura, è costretto a inseguire il sogno di un amore romantico. Lei si chiama Daisy ed è bella quanto leggera come una piuma: si fa portare a spasso dal vento e dalle emozioni come se non avesse voce in capitolo sulle decisioni importanti della propria vita. Di tutt’altra stoffa è fatto Gatsby, uomo d’azione, che non sta fermo a contemplare la sventura di essere nato povero e di essersi innamorato di una donna dell’alta società – perché Daisy mica la incontra quando è già ricco sfondato, sarebbe troppo facile. A fare la sua fortuna ci mette anni, e forse qualcuno di troppo perché nel frattempo Daisy si è già fatta conquistare (e sposare) da un altro. Comunque il nostro eroe riesce in tutte le sue imprese: da sconosciuto diventa il Grande Gatsby, da squattrinato diventa miliardario, da scapolo d’oro diventa l’amante di Daisy.
Sembra quindi avverarsi quel sogno che l’aveva spinto addirittura a comprare un castello (alla faccia del romanticismo) solo per poter guardare dall’altra parte della baia la luce verde del faro accanto alla casa di Daisy. Quella stessa luce era diventata importantissima perché personificava il desiderio di Gatsby; una volta ottenuta Daisy in carne ed ossa perde ogni significato perché non incarna più una distanza da colmare: la distanza, come il sogno, non c’è più. E adesso che abbiamo a che fare con un vincente possiamo finalmente vedere cosa succede quando il sogno diventa realtà:
Quando andai a salutare vidi che era ritornata sul viso di Gatsby l’espressione stupita, come se gli fosse nato un lieve dubbio sull’entità della felicità presente. Quasi cinque anni! Perfino in quel pomeriggio dovevano esserci stati momenti in cui Daisy non era riuscita a stare all’altezza del sogno, non per sua colpa, ma a causa della vitalità colossale dell’illusione di lui che andava al di là di Daisy, di qualunque cosa. Gatsby vi si era gettato con passione creatrice, continuando ad accrescerla, ornandola di ogni piuma vivace che il vento gli sospingesse a portata di mano.
Tutti i nodi vengono al pettine: Gatsby fiuta che c’è un problema, e si domanda se quella Daisy che ha davanti agli occhi non valga qualcosina di meno dell’idea che aveva di lei. Fitzgerald però, che è di animo gentile, decide di far morire il suo Gatsby prima che questa intuizione diventi certezza. Così l’amore per Daisy non si sporcherà mai veramente.
È vero, vi abbiamo parlato di due storie molto diverse, a tratti antitetiche, come del resto i paesi e le epoche da cui provengono: da una parte una Russia malinconica, immersa nel suo decadente Ottocento e prona all’autocommiserazione; dall’altra c’è un’America ruspante e arrivista, che si tuffa senza salvagente nello splendore dei ruggenti Anni Venti. E Il carattere di questi personaggi è lo specchio delle loro origini: da una parte il sognatore russo, che si crogiola nella sua stanzetta pietroburghese; dall’altra Jay Gatsby, nel suo castello da fiaba in una New York che si muove a ritmo di jazz.
Ma il lettore attento avrà intuito che ci troviamo davanti a due facce della stessa medaglia: dietro alle apparenze c’è sempre lui, l’irriducibile sognatore che non conosce compromesso tra l’orrida realtà e il suo ideale. Per questo la vera storia d’amore raccontata in questi romanzi è quella del sognatore con un’idea, se non addirittura con se stesso; e a ben guardare la relazione con la bella dama ha la stessa consistenza, fioca e illusoria, della luce intermittente di un faro. Ma loro non lo sapranno mai. E siccome la realtà mediocre non fa al caso non solo del sognatore, ma nemmeno di un buon romance, va bene così… lasciamo che le nostre due storie si concludano nell’ideale ancora intatto di queste quasi-storie d’amore.