Il Premio Calvino, lo dicono tutti, è il più importante riconoscimento per scrittori emergenti, l’anticamera di una pubblicazione. Il famoso primo passo verso il successo (letterario). Scartabellando vincitori e finalisti degli ultimi anni si possono trovare i nomi di Peppe Fiore, Flavio Soriga, Luisa e Fulvio Ervas, oltre ad alcune nostre vecchie conoscenza di #DieciperDieci, come Giusi Marchetta, Paolo di Paolo e Giovanni Montanaro. Una lista – quella dei partecipanti poi pubblicati – che si è oggi allungata con Pier Franco Brandimarte e la sua Amalassunta, il testo che ha vinto l’edizione 2014 e che Giunti ha da poco portato in libreria.
L’amalassunta, ovvero «la Luna nostra bella, garantita d’argento per l’eternità, personificata in poche parole, amica di ogni cuore un poco stanco», è un libriccino di nemmeno duecento pagine che sarebbe improprio definire romanzo. È infatti una lunga divagazione sull’arte e sulla ricerca estetica, un’indagine sull’eterna dicotomia “strapaese-stracittà”, un’analisi su quel momento che sancisce la definitiva entrata nel mondo degli adulti; L’amalassunta è tutto questo e forse anche molte altre cose. Quel che è certo è che la narrazione è percepibile soltanto in potenza: a volte un personaggio o una suggestione accendono la miccia e, all’improvviso, nel testo si incunea una storia, un’azione, un movimento; ma gli eventi non seguono quasi mai un andamento lineare, si attorcigliano su se stessi fino a diventare allegorie, simboli che rimandano a piani narrativi ed esistenziali differenti. È così, per esempio, che lo stuort Magellano, il pazzo che tutte le notti cammina lungo la statale senza mai mutare percorso, certifica al narratore l’idea del «limite delle terre conosciute» e allo stesso tempo rende evidente a noi lettori la follia insita in ogni ricerca, il pericolo dell’ossessione che si nasconde dietro qualsiasi passione, fornendo un macabro parallelismo con la vicenda esistenziale del narratore, che alla figura di Osvaldo Licini sta dedicando tutte le sue energie.
Già, Osvaldo Licini. Riavvolgiamo il filo e torniamo indietro. L’Amalassunta racconta la storia di due esistenze lontane, talmente lontane da specchiarsi l’una nell’altra. Quella di Antonio, il narratore, un giovane che da un giorno all’altro abbandona Torino e la sua ragazza per far ritorno in un minuscolo paese delle Marche, dove suo nonno possedeva una barberia; e quella di Osvaldo Licini, pittore astrattista che, dopo aver studiato nella Bologna di inizio secolo, raggiunge la Parigi di Modigliani soltanto per poi rientrare nel borgo di Monte Vidone, sull’Appennino, e passare lì tutta la vita. Il romanzo segue il crescendo dell’interesse di Antonio, un interesse che presto diventa ossessione, e allo stesso tempo ripercorre la biografia di Osvaldo Licini, dall’amicizia con Giorgio Morandi alla Grande Guerra, che gli lascia in dono un’eterna zoppia, l’incontro con il grande Modì, il momento in cui, a Parigi, conosce la sua futura moglie Nanny. E poi Osvaldo e Nanny che se ne vanno a Monte Vidone, il loro esilio volontario nell’isolamento appenninico, i momenti bui della Seconda guerra mondiale, fino ad arrivare all’inaspettato riconoscimento alla Biennale di Venezia, dove Licini vince il primo premio poco prima di morire, a sessantaquattro anni.
È un espediente classico dell’autofiction quello di mescolare la storia di un io fortemente autobiografico e quella di un personaggio storicamente esistito (e qui la figura di Licini diventa ancor più reale grazie alle fotografie e alle riproduzioni dei dipinti che accompagnano il testo), ma Brandimarte sceglie una strada originale che alla scrupolosità della ricostruzione storica preferisce il linguaggio del sogno: Licini è spesso un’apparizione, un fantasma che si manifesta quando il narratore meno se lo aspetta (e questo è evidente già dall’incipit del libro, «Ecco lo vedo. Pulisce il pennello alla pezza, soffia sul foglio, riavvita l’inchiostro di china»). È una scelta che rende L’amalassunta un testo fortemente onirico e permette di delineare sequenze di grande effetto, come quella in cui Antonio dialoga con Morandi, venuto a bussargli alla saracinesca della barberia in cui vive per farsi dare una spuntatina ai capelli. («Mi perdoni se sono indiscreto» chiede Antonio a Morandi, «ma perché si è messo a dipingere bottiglie?» «Perché ce le avevo lì.») Ecco, questo dialogo è uno dei momenti più riusciti del libro, e il Tabucchi di Sogni di sogni deve essere stato lì vicino a osservare la scena, come un nume tutelare.
Insomma, un esordio riuscito quello di Brandimarte (classe 1986). Certo, alcuni eccessivi lirismi tradiscono un po’ di autocompiacimento stilistico (per definire il quadro che dà il titolo al libro, per esempio, il narratore stila un elenco di quattordici elementi in rapida successione, si va da «l’elmo di un guerriero senza corpo con rostro e pinna sul cimiero» a «il fumo rappreso di un colpo di cannone»), ma che sarà mai un po’ di sana ambizione in un romanzo che nella maggioranza delle sue parti raggiunge un buon equilibrio tra giuste domande (cosa rende un artista quello che è?), personaggi riusciti (Pietro che, armato di un cercametalli, setaccia il terreno alla ricerca di proiettili della Seconda guerra mondiale) e una sincera passione per quell’Osvaldo Licini che muove tutta la storia?