Sono finalmente a casa, reduce dal film-documentario Cobain: Montage of Heck di Brett Morgen, retrospettiva che da mesi ci viene propinata come sola ed unica detentrice del reale volto di Kurt Cobain, svelandoci tutto ciò che avremmo sempre voluto sapere ma non avevamo mai osato chiedere. Appuntamento imperdibile per tutti coloro che vivono ancora nell’ombra nostalgica del Grunge inizio anni Novanta, quelli con le camicie a quadri in stile taglialegna e una certa avversione per lo shampoo. Ma anche per quelli come me che, nel ’91 (all’uscita di Nevermind) avevano quattro anni e al grunge ci sono arrivati dieci anni dopo, pur lavandosi i capelli.
Il mio rapporto coi Nirvana è decisamente adolescenziale: so bene che, arrivati alla soglia dei trent’anni, si dovrebbe ormai essere usciti da certe dinamiche viziose intrise di acne e Smemoranda, ma ammetto candidamente che per me non è così. Probabilmente, a sedici anni, ero una persona molto più matura di adesso ma il mio non è fanatismo: è rispetto, riconoscenza e affetto profondo. Premetto che, mentre scrivo, è trascorsa appena un’ora dai titoli di coda: il mio intento non è dunque essere oggettiva né tantomeno ragionata ma credo siano importanti le impressioni a caldo, soprattutto quando riguardano situazioni di una certa portata (e sì, mi sto riferendo ai Nirvana e sì, credo di non parlare unicamente a mio nome). Appena terminata la proiezione, il mio unico desiderio è stato quello di abbandonare la sala il più in fretta possibile e fumare, fumare tutte le sigarette necessarie a sciogliere il nodo allo stomaco. Il nodo allo stomaco non era però dovuto alla commozione bensì al fastidio per un qualcosa che mi fa tutt’ora sentire come dopo una seduta dal parrucchiere, trascorsa a sfogliare compulsivamente riviste scandalistiche. Mi sento come ci si può sentire guardando Barbara d’Urso in tv mentre Signorini bercia in sottofondo.
Il “montage” è a tutti gli effetti un montaggio, un sapiente assemblaggio (132 min.) in ordine cronologico di filmati super 8, registrazioni audio, spezzoni di concerti (fra cui l’MTV Unplugged in New York del 1993) con il patrocinio e la benedizione di Courtney Love, per la prima volta compiacente nella cessione dei diritti e co-produttrice del documentario, insieme alla figlia Frances Bean Cobain. Innegabile l’immane lavoro di selezione e montatura dei materiali a cui si alternano animazioni (in stile Waking Life per intenderci) per fare da sfondo alle incisioni audio inedite. Morgen non tralascia nulla: dall’infanzia ad Aberdeen, cittadina di falegnamerie, neve e desolazione, passando per il divorzio dei genitori fino all’approdo alla Subpop di Seattle, ai dischi di platino e al suicidio nel 1994: c’è proprio tutto, eroina included. Non mancano neanche le interviste al padre del cantante, alla sorella, alla madre che sembra Courtney Love negli anni Novanta, a Courtney Love che adesso sembra Cameron Diaz a vent’anni, a Krist Novoselic, presentato semplicemente come “Kurt’s friend” quasi che il suo essere stato bassista dei Nirvana sia qualcosa di marginale e, in fondo, neanche troppo importante.
Tutto ruota in maniera ossessiva e morbosa intorno al simulacro di Cobain, in un turbinio stroboscopico di immagini voyeuristiche che, a mio avviso, violano troppo spesso la sacralità di quel poco di intimo e privato che poteva essere rimasto. E non mi riferisco solo alla voce di Kurt Cobain a due anni o ai video dei suoi genitori negli anni Sessanta: parlo della quantità esagerata di video privati di lui e della moglie Courtney Love in asciugamano dopo la doccia, mentre limonano distesi a letto, mentre cazzeggiano rotolandosi su una moquette ai limiti della legalità, evidentemente strafatti e perduti. Non che non emergano anche tratti caratterizzanti della personalità del cantante: traspaiono perfettamente la riservatezza e la modestia di Cobain, l’ambiziosa e appassionata dedizione e una rara capacità di critica e autoanalisi, sempre lucida e puntuale nonostante tutto (nonostante il successo, la fama, la droga); così come il suo essere personaggio da palco, con le chitarre e gli amplificatori sfasciati, gli sbadigli in mondovisione e un astio sincero per le interviste. E forse è proprio qui che sta il punto, caro il mio Brett: non ha senso documentare quanto fosse discreto e riservato Kurt Cobain, quanto odiasse ferocemente l’attenzione mediatica per poi sbattermi in faccia quanto di più patologicamente fanatico sia mai stato concepito dopo la pubblicazione dei diari. O meglio, forse un senso ce l’ha, ma lo trovo poco rispettoso.
Uno degli aspetti positivi in questo vortice di psicosi collettiva sembrava essere l’ingombrante assenza di Dave Grohl (batterista dei Nirvana, ora frontman e chitarrista dei Foo Fighters), da sempre restìo e taciturno in merito all’intera vicenda; speravo fosse una sua scelta, una presa di posizione consapevole da parte di qualcuno che non ha mai speculato su quanto accaduto, pur recitando la parte di coprotagonista; in verità, pare essere stata una questione di tempistiche: Grohl sarebbe stato intervistato troppo tardi, impedendo così a Morgen di montare il materiale riguardante la sua testimonianza. Rimane comunque interessante la dichiarazione del regista di Montage of Heck che, giustificando la mancanza di Grohl, s’affretta ad aggiungere di avere comunque già ottenuto l’immagine di Cobain che desiderava e di non volere troppe persone nel film. (seppur datata, potete ottenere qualche info aggiuntiva qui.)
Non mi sento, ora come ora, di conoscere cose che avrei sempre voluto sapere ma che non avevo mai osato chiedere: mi sento un po’ sporca, quasi in colpa, come se avessi spiato dal buco di una serratura, profanando ciò che rimaneva della privacy di un morto. Mi sento anche un po’ stupida perché avrei dovuto immaginarlo, sospettarlo e forse tenermene alla larga. Prima di assistere alla proiezione del documentario, ho accuratamente evitato di leggere articoli, opinioni e giudizi a riguardo, rifiutandomi persino di dare un occhio al trailer; sapevo solo che sulla copertina di «Rolling Stones» di aprile compariva la faccia sorridente di Kurt a otto anni e il titolo recitava: L’ultimo punk – il documentario ridefinisce un’icona.
Non so se Kurt Cobain fosse davvero l’ultimo punk ma forse avrei preferito non saperlo; così come mi sarei volentieri evitata le riprese amatoriali di un padre eroinomane che fatica a tenere in braccio la figlia di un anno. Più che la ridefinizione di un’icona, sarebbe corretto parlare di distruzione di un idolo ma allora, parlando veramente in nome di ciò che i Nirvana e Cobain stesso hanno rappresentato per la sottoscritta, la chiusa perfetta per il processo di santificazione (Damon Albarn cit.) evidentemente in atto è una frase degli Sonic Youth: «Kill your idols […]. Ah let this shit die». Una volta per tutte.