Luciano Neri (1970) è nato e vive a Genova, dove lavora come insegnante. Dopo l’esordio Dal cuore di Daguerre (Firenze, Gazebo, 2001), ha pubblicato La spedizione del controtempo nel Nono quaderno italiano di poesia contemporanea (Milano, Marcos y Marcos, 2007), a cura di Franco Buffoni e con introduzione al testo di Fabio Pusterla; in seguito ha pubblicato Lettere nomadi (Novi Ligure, Puntoacapo, 2010), con una postfazione di Tiziano Pacchiarotti. Quarto movimento della propria esperienza poetica, Figure mancanti (Massa, Transeuropa, 2014) rappresenta il punto di arrivo del viaggio attraverso la poesia di Luciano Neri, e lo colloca tra i migliori poeti della sua generazione. Poeta civile, Neri in questa ultima raccolta riconfigura testualmente la presenza dell’altro all’interno del panorama poetico e nell’immaginario collettivo della società contemporanea, restituendo a quelle figure dimenticate dalla storia e dall’uomo la dignità di esistere.
A.C.: Nella nota che chiude Figure mancanti scrivi che «le pagine qui proposte tengono conto di un percorso di scrittura che ha tratto esperienza da una serie di viaggi compiuti a partire dal dicembre 1997 e fino all’agosto del 2013», anche se «il nucleo principale dei testi resta tuttavia quello dei viaggi mediterranei del 2006, del 2008 e del 2009». Inoltre, definisci la tua poesia «“viaggio-scrittura” come pretesto e testo» (p. 99). Ci potresti parlare di questa tua idea di viaggio-scrittura?
L.N.: C’è un filosofo che partendo dall’impossibilità di vivere la storia in termini di esperienza da parte dell’uomo contemporaneo traccia alcune interessanti riflessioni e ipotesi sul rapporto con la negatività del nostro tempo. Il terreno su cui si muove è quello ontologico. Pressappoco egli dice: «Così come è stato privato della sua biografia, l’uomo contemporaneo è stato espropriato della sua esperienza: anzi, l’incapacità di fare e trasmettere esperienza è, forse, uno dei dati certi di cui egli disponga su se stesso». Sempre parafrasando, sarebbe proprio questa incapacità a rendere insopportabile l’esistenza quotidiana da parte di molti, per una ragione (chi vive nella sicurezza della propria casa) o per l’altra (chi vive nell’estrema privazione di tutto, vita compresa). Tutte le esperienze che l’uomo può compiere sono al di fuori di esso, ormai. Di questo non si può che prendere atto. Questa impossibilità, che io stesso non riesco ad accettare, e si pone come ricerca di chi scrive, rappresenterebbe il pretesto del viaggio per smuovere ciò che nella nostra società sembra irreparabilmente cristallizzato, fermo. Il pretesto del viaggio-scrittura ha questa valenza dunque: verificare, tentare, trovare nuovi orientamenti, una via differente per smuovere ciò che sembra perduto irrimediabilmente, cioè il senso dello stare in comune. Non si tratta di un io, ma di una comunità diventata sorda, cieca, negativa verso qualsiasi forma di relazione, interna ed esterna. Il problema sarà poi un altro, a viaggi compiuti: la storia, questa macchina poderosa di violenze e ingiustizie, ha ormai dissennato ogni cosa, producendo sempre più macerie e rovine. Uscire da questa morsa è impossibile, ma forse non è impossibile sperimentare il rifiuto del tempo dominante sulle vite e imposto come cronometraggio, sono parole di Michel Onfray, dell’esistenza.
Il pretesto quindi era di trovare una via di fuga, individuale all’inizio, al fine, come emerge nelle note del libro, di cercare dati sensibili, degni di significato e rielaborare i testi scritti e confluiti in Lettere nomadi, libro pubblicato nel 2010 e che, evidentemente, mi aveva lasciato insoddisfatto. Riscrivendo, e intanto viaggiando (nei Balcani 2011), mi sono accorto della funzione della memoria nella stesura dei testi e negli appunti di viaggio che andavo riunendo, di quanto possa essere rilevante rispetto a ogni immediatezza dello scrivere. Ciò richiede un lavoro paziente, che rispetti i tempi della scrittura, senza avere fretta sul risultato, e che rispetti soprattutto le urgenze espressive senza vanificarle.
Il rapporto del viandante scrivente in rapporto alla posizione dell’io nella scrittura del viaggio e questa posizione in rapporto ai confini, alle rovine, alla passività che lo stesso andava incontrando di tappa in tappa, di città in città – questi sono gli aspetti più interessanti che spero ci sia modo di approfondire, in una poesia italiana dove il rapporto prevalente tra l’io e la scrittura è di tipo narcisistico, confessionale: l’io prima di tutto e poi il resto detto da quell’io, quando va bene, che si fa portavoce di un’esperienza limitata, tutta interna all’io che dice, sente.
A.C.: Come si articolo il rapporto tra viaggio, esistenza e figure mancanti nel tuo libro? La presenza dell’altro è fondamentale, quasi fosse un complemento della voce lirica che narra questa esistenza mancante in movimento.
L.N.: Più che di esistenza parlerei di esperienza, quell’esperienza che come ho detto sembra impossibile ai più. Questa mancanza di esperienza, ora esistenziale, ora stilistica, e cioè nella forma che la scrittura prende, si nota in molta poesia contemporanea. Se pensi che ancora ci sono poeti che scrivono come Montale! Bisogna fare un passo ulteriore, tendere a quella sperimentazione della lingua e del linguaggio che dovrebbe essere l’incontro di scrittura e vita, cambiando però le coordinate tradizionali. Secondo un noto critico [n.d.r. Enrico Testa] siamo ormai ampiamente fuori dalla lirica tradizionalmente intesa, un io che pensa, scrive, registra ciò che gli accade alludendo a una centralità irreparabilmente perduta, se tutto ciò che accade nel mondo accade appunto al di fuori di noi. Chi scrive oggi a partire dalle proprie esperienze dovrebbe chiedersi quale possa essere il tema necessario, visto che le possibilità di raccontare sono ormai ridotte al minimo. Dovrebbe porsi quella domanda che Theodor W. Adorno si era posto all’indomani dell’Olocausto: «è possibile scrivere poesia dopo Auschwitz?». E per noi: «è possibile scrivere poesia se tutto ciò che accade rimane fuori dalla nostra esperienza e ci ritorna indietro in differita, come un qualcosa di già visto ma che non viene afferrato perché perennemente lontano?». Essere posti fuori dalla nostra esperienza rispetto alla storia ci ha reso certamente sicuri nelle nostre case ma irreparabilmente estranei a noi stessi. Pertanto, una poesia che nasce lontano da un’esperienza diretta con il mondo non può trovare il mio interesse. Poi, ovviamente, c’è la questione del linguaggio poetico con il quale l’esperienza si forma nella pagina, viene formalizzata. Ma questo è un altro capitoletto di cui poter parlare in seguito.
Il viaggio di Figure mancanti si pone almeno l’obiettivo di tentare una fuoruscita dal cronometraggio costrittivo dell’esistenza, di sottrarsi se non altro al dominio annichilente delle società in cui viviamo. Il viaggio presuppone il rifiuto di una società autoreferenziale e immobile a vantaggio di un piacere che diventa gioia, invenzione, imprevisto. Chi viaggia si allontana dal tempo sociale, collettivo e stringente, esercita l’apertura dei sensi e dell’esperienza. Ritrova una forza empatica con l’altro che pensava perduta. Tuttavia è indubbio che il viaggio si traduca anche in dolore o addirittura in perdita di sé. Ma forse oggi perdersi potrebbe essere una forma di salvezza, allontanarsi da ciò che ci opprime. Quando ho deciso di intensificare i miei viaggi ero arrivato a un punto morto di me stesso, ero come caduto in un oblio di me, non sentivo più niente, socialmente ero uno zero, senza nulla da dare né da ricevere.
Da quel punto dimenticato sono ripartito, con un taccuino e un itinerario di massima da seguire lungo il periplo nord del mediterraneo: Italia, Grecia, Turchia e poi i Balcani. Come tu hai giustamente notato nel tuo bellissimo saggio su Figure mancanti [n.d.r., Le figure mancati di Luciano Neri, in «Atelier», LXXVII, 1, gennaio-marzo 2015, pp. 9-15], la prima parte del libro è tutta giocata sui vuoti del frammentario, che tuttavia voleva annunciare uno smarrimento, la perdita della via di casa, come uno spatriato; un’assenza di collocazione, una perdita geografica. Dopo la perdita, paradossalmente, ho cominciato ad avvertire la presenza delle figure. Un po’ come nella fenomenologia agostiniana della visio spiritalis: non più i corpi intrappolati dal tempo stringente della società tardo-capitalistica, ma i corpi consumati dalla vita di chi sta dall’altra parte; non più quei corpi ma “parvenze di corpi”, figurae, formae. Enrico Testa, in un libro minuscolo quanto intenso, parlava di “pronomi” [n.d.r Pronomi, Torino, Il Segnalibro 1996]. Nella perdita del viaggio ho visto questi corpi senza esserlo, ho visto i loro volti, ne ho visti tanti, portatori di un’umanità dimenticata. Questi corpi sono stati il tramite tra l’esperienza e la mia scrittura, tra il pretesto e il testo di Figure mancanti, loro hanno posato la voce sulle pagine, spesso l’hanno bisbigliata appena.
A.C.: Ricollegandomi a quanto hai risposto nella seconda domanda, vorrei chiederti di parlarci della geografia spaziale intorno alla quale si articola l’incontro tra l’io e l’altro nel tuo libro.
L.N.: Il racconto poetico di Figure mancanti, senza queste figure, non avrebbe potuto avere luogo. Si è trattato piuttosto di un incontro con la passività dell’altro: la disgrazia, l’annientamento dello stato concentrazionario, la guerra, l’indifferenza, persone che fuggono, persone che non esistono, sono tutte situazioni che si riconoscono in un tratto comune. È come dire: anonimato, perdita di sé, perdita di una collocazione, impossibilità della presenza, dispersione, separazione. In questi tratti comuni si delineano i confini dell’esistente. Il viaggio ha permesso, soprattutto nell’area balcanica, un confronto con tali confini, dove però nessuno guarda. Per un io pressante non poteva esserci spazio fino ai margini o alle zone residuali del dimenticato. Pur aggrappato al pozzo della negatività, il tentativo dell’io-viaggiatore è stato di creare una rete solidale di perdite, lasciando traccia di ciò che manca. I morti presenti nella raccolta hanno la stessa funzione dei morti in vita: si aggirano tra le rovine, difendono lo spazio che hanno conquistato, a volte fanno irruzione nel mondo dei vivi, contrastano le loro futili ambizioni, risvegliano i loro sensi di colpa e, soprattutto, offrono materia al racconto.
Tuttavia, questa spazialità non è solo patetica, nel suo senso etimologico, ma anche materica, fisica. Il libro è pieno di città, piccoli o grandi centri, che in un viaggio sono tappe dalle quali non è possibile prescindere. Ma esse non state viste dall’occhio del viaggiatore, i passi che le hanno attraversate non hanno voluto costituire una trama abitudinaria dello spazio urbano quale luogo di relazioni certe. Esse piuttosto hanno seguito l’alterazione sensibile dei personaggi. E attraverso lo sguardo dei personaggi, quale viaggiatore, anche io ho provato a guardarle secondo una diversa spazialità, sperimentandola attraverso un occhio estraneo. Oltre ai residui dei bombardamenti, in molte città una parte di essa ha preso il sopravvento sulle altre: a Belgrado la città è diventata il parco; a Sarajevo la città è diventata un libro, anzi, il libro, l’Haggadah; a Mostar la città è diventata non il ponte, ma la periferia ancora ferita; ad Atene la città è diventata un solo quartiere e poco altro, quello di Grigoropoulos, e non la città turistica. Guardare i luoghi con gli occhi dell’altro è stato come ripianificarle, rimuovendo la pluralità sorda e sostituendola con uno spazio anonimo, parziale, residuale, frammentario, come le macerie, in molte di esse presenti, a cui nessuno fa più caso. Paradossalmente anche la memoria di questi luoghi ha ripreso un suo vigore. Guardare con occhi altrui o cercare l’altro nei percorsi secondari mi ha posto dinanzi a una superficie bianca di proiezione, di fronte a una pagina bianca. Michel de Certeau lo afferma: «nel tracciato abituale dei percorsi si perde ciò che è stato». Il concetto viene espresso anche all’interno del libro, con un incipit tratto da una poesia di Izet Sarajlic.
La memoria si perde nei movimenti abituali, mentre essa, almeno per chi scrive, è uno scavo ininterrotto, un’archeologia umana. Intendo la memoria allo stato potenziale, quella espressa e prodotta dallo smemorato, altra figura chiave di questo libro.
A.C.: La terza sezione, Quadri di Grigoropoulos, ripercorre le vicende degli scontri di Atene del 2008 tra le forze dell’ordine e i manifestanti. Le liriche di questo terzo movimento sembrano fotografie, strappi della realtà incastonati dalla parola poetica. Ci puoi spiegare che rapporto c’è tra la percezione fotografica della storia e la sua trascrizione poetica?
L.C.: Il rapporto tra fotografia e scrittura, in Figure mancanti, esiste e vi sono testi nati direttamente a partire da istantanee, come in Museo di Sarajevo (p. 84), dove il soggetto della fotografia riguarda persone che cercano riparo l’una sull’altra per evitare i colpi di un cecchino. È la foto simbolo di quell’assedio, esposta appunto in un museo della città. D’altronde lo scrivente che si muove nello spazio geografico ha in fondo il passo del reporter; il suo viaggio procede a piedi, alla ricerca di dati sensibili al fine di registrarli su un taccuino.
Le fotografie, al pari dei volti, sono parte di questa interzona, di questo confine tra assenti e presenti, tra vivi e morti, di cui si è detto. Esse hanno rappresentato l’occasione per dar vita a ogni singolo scavo testuale, dove ha preso forma, tramite la scrittura, una vita immaginata e verosimile. È curioso il fatto che, in sede di stesura, delle tante stesure, nessuna fotografia scattata da me in questi anni mi abbia suggerito un testo, forse qualcuno, ma indirettamente. Non so spiegare il perché, ma credo che ad un certo punto sia la scrittura a dettare ciò che l’autore vorrebbe scrivere, e non il contrario. È come se l’esperienza dello scrivere prendesse il sopravvento rispetto a ciò che è stato esperito. Rimangono delle tracce, che tuttavia trovano altre forme con cui affermarsi. Inoltre, per le cose evidenziate nelle risposte precedenti, mi ha sempre affascinato il processo attraverso cui una fotografia sia in grado di fissare, sospendendolo, in un secondo, un istante di vita, e che questo istante venga poi ridato alla luce in un luogo buio, in un’acqua scura, come le figure di cui parlo, che vivono nell’oscurità e nell’indifferenza, cioè in quei luoghi dove nessuno normalmente guarda. In tal senso trovo un parallelo tra il processo di sviluppo di una fotografia e il mio approccio alla materia sensibile che tratto.
I testi che riguardano Grigoropoulos e gli scontri di Atene hanno tenuto conto di questi approcci, una sorta di cronaca poetica immaginata e verosimile a partire dai luoghi dove i fatti sono accaduti. Lo scenario della cronaca è rappresentato dal vuoto urbano in cui essi hanno avuto luogo. I luoghi lasciano traccia e una fotografia sospende un attimo, provoca in realtà un vuoto rispetto al fluire del tempo, un fermo-immagine del tempo, perché quell’istante è figlio di un presente, certamente, ma anche di un passato e di un futuro.
A.C.: In Karagöz riprendi la tradizione del teatro turco, dove l’io lirico diventa una figura mancante. Nella quinta poesia, scrivi che «l’autoritario mi ha tolto la luce dei riflettori / […] capendo che non fingevo più, / che non sapevo più fingere». Il libro vive di questa relazione osmotica tra dimensione lirica ed empirica della realtà. Tuttavia, in questo ultimo momento poetico sembra che questa commistione non sia più possibile: di fronte ai figuranti autoritari, qual è il ruolo del poeta? Può la poesia civile non solo raccontare, ma permettere a chi non fa parte del teatro del mondo di vivere questa realtà?
L.N.: La sezione Karagöz invece è nata casualmente, piuttosto di getto, non per una declinazione ulteriore della prospettiva nella quale lo scrivente si è trovato ad operare. Mi trovavo a Bursa, città turca e antica capitale, città bellissima, dove ogni anno si tiene un festival teatrale di marionette. Qui ho avuto occasione di assistere a uno spettacolo di Karagöz, il teatro d’ombre. Da qui è nata la sezione del libro. Karagöz è uno dei personaggi principali di questo teatro, una sorta di Arlecchino o Pulcinella, una maschera polemica e sprezzante nei confronti del potere. Mi è piaciuta questa idea che le ombre potessero prendere vita, proiettandosi, pur sapendo che in fondo a muovere il tutto fosse una mano. L’autorità, centrale, questa mano, su cui la sezione si basa, potrebbe avere più livelli di lettura, essendo lo scrivente ombra tra le ombre, parte residua della scena. La figura dell’autoritario che muove i personaggi può essere considerata, polemicamente, come il poeta lirico tradizionalmente inteso, secondo l’accezione hegeliana, tutt’altro che estinta nella poesia contemporanea; anzi, diciamolo, ancora dominante. Quel tipo di poeta che intende la poesia (e se stesso) come il tramite per esprimere la propria emotività rispetto al mondo in cui vive, il proprio punto di vista a partire da un’interiorità quale fonte primaria di espressività atta a rimarcare un soggetto parlante, pensante, in modo inequivocabile. Una fonte da cui tutto sgorga. Su tali temi, urgenti, di recente ho avuto il piacere di leggere su «Le parole e le cose» un saggio molto interessante di Paolo Zublena, che indaga le forme del soggetto nella poesia contemporanea in Italia. Il libro, poi, si pone in antitesi rispetto al mondo governato dagli adulti, i responsabili, rei invece di non sapere più dare risposte né indicazioni, pur volendo restare al centro di tutto.
A.C.: In Fine del ritorno geografia, temporalità e poesia diventano un corpo unico, quasi un «respiro di una pagina alla soglia appannata / di una finestra», dove «i morti hanno un’unica esistenza, / quello che i vivi immaginano per loro». Si potrebbe descrivere la filosofia della storia di Figure mancanti secondo un paradigma civile di r-esistenza?
L.N.: Qui non voglio rispondere dicendo quanto Figure mancanti sia un libro di impegno civile o meno; saranno gli eventuali lettori a rilevarlo. È un libro comunque che mi ha impegnato a fondo, per anni, e di cui sono soddisfatto. È fuor di dubbio però che ogni forma poetica che cerchi di dare voce a nuove esperienze, formali e/o tematiche, sia da collocarsi in un ambito di poesia civile, nell’accezione più ampia del termine. Malgrado tutto io credo nella funzione sociale della scrittura poetica quale via per disvelare la realtà dai meccanismi che la rendono insopportabile e invivibile, al fine di mettere in crisi ciò che non ci vuole mostrare. Dopo i grandi “vecchi” del ‘900 la poesia italiana ha fatto passi indietro, proponendo, dagli anni Novanta in poi, tanta poesia autoreferenziale, attraverso un io, volutamente o meno, dimesso, senza forza espressiva, compassato, senza idee: forme (pseudo)autobiografiche, magari riscattate da una formalizzazione attenta, oppure diluite in versi deboli, appena distinguibili dalla prosa (contaminazione alla quale tuttavia non sono contrario, se c’è sostanza). Io penso che, ancora una volta, il rapporto tra scrittura e impegno civile vada ricercato nel rapporto tra poeti e destinatari, i lettori, sullo sfondo di una questione che abbia al suo centro le forme da proporre. Non può essere efficace una poesia che non abbia di fronte dei lettori ai quali destinarla. Bisogna scrivere per qualcuno, reale o fittizio che sia, avere ben chiaro a chi scrivere e, ovviamente, cosa. Può passare soltanto attraverso forme di confronto e di criticità, se non quando di rottura, l’impegno civile, dettare passaggi essenziali, non ancora praticati ma praticabili.
Oggi continua ad essere un’altra la logica diffusa tra i poeti: il timore, la paura, di affrontare un impegno, quello della scrittura, che impone fatica, tanta fatica, e ovviamente studio e talento, con il rischio di sentirsi esclusi dal “consenso” della comunità poetica, che negli ultimi anni, oltretutto, ha imposto ai suoi addetti e sempre più la logica “clientelare” quale modalità di confronto, la logica del mutuo favore, impoverendo il dibattito sulle questioni poetiche più urgenti e allontanando i poeti appunto dall’impegno verso una lingua di ricerca. Le stroncature ormai si sono estinte, malgrado le centinaia di pubblicazioni annue, su qualsiasi rivista, cartacea oppure on line. Possibile? Nel giro di un paio di decenni si è passati “dal pubblico della poesia a una poesia senza pubblico”, o meglio, con un pubblico esclusivo di poeti. La critica, in tutto ciò, nel ruolo che da sempre dovrebbe caratterizzarla (fare da filtro alle scritture necessarie e suggerire una via percorribile alle forme), non è esente da colpe. Ovviamente esistono delle eccezioni, sia tra i poeti sia tra i critici, ma sono davvero poche. Il disimpegno, inoltre, complice anche l’editoria, connivente con le dinamiche di cui sopra, quando va bene, oppure venditrice di illusioni, quando va male, non ha saputo rinnovare i linguaggi ma si è adeguata a vivacchiare, senza correre rischi. Andrea Cortellessa ha parlato di un disimpegno causato, in primis, dalla perdita e dalla “mancanza di ideologie”, aggiungendo che la funzionalità sociale della scrittura lascia spazio ormai, oggi più di ieri, al potere del narcisismo e dell’autoreferenzialità, senza più idee, forme e linguaggio. Ognuno naviga per sé, nella sua “parole”, in una spaccatura con il linguaggio forse non più risanabile. Sono d’accordo con lui. Oggi dobbiamo solo imparare a vivere, per chi ci riesce, nel grande mare delle disuguaglianze, della precarietà, nel girone delle ingiustizie e dell’indifferenza, nella selva degli egoismi. Questo è il mondo in cui viviamo, inutile nasconderlo, questi siamo, ma tutto mediato da uno schermo, che ci rende impermeabili rispetto a quelle esperienze drammatiche che ci piombano da tutte le parti ormai, acutizzando soltanto l’indifferenza, perché questo è il pericolo vero, non provare più. La scrittura deve opporsi a tutto ciò, con uno schermo formale, linguistico ed esperienziale, stilistico insomma, che sappia ristabilire l’ottica, il vedere, in rapporto alle cose che contano, per un’etica (e una estetica) relazionale.
Luciano Neri, Figure mancanti, Transeuropa, Massa 2014, pp. 104 € 9,90