A maggio si definiscono i programmi dei festival estivi. «L’Indiependente» ha pubblicato un’utile guida per chi vuole orientarsi nel marasma di eventi che avranno luogo in Italia: troverete delle belle conferme e delle interessanti novità. Da diverso tempo l’assenza di festival di respiro europeo è un tema sviscerato in svariati articoli che s’interrogano sulle possibili cause di questa peculiarità italica: arretratezza culturale, assenza di domanda, latitanza di promoter coraggiosi e burocrazia asfissiante sono alcune delle risposte che sono state date. In realtà, anche se è palese che nel nostro Paese non esistono manifestazioni di livello pari a quelle che vengono organizzate nel Regno Unito o in Spagna, da qualche anno a questa parte l’offerta italiana è di gran lunga migliorata. E ora ce n’è per tutti i gusti. A voi la scelta, dunque.
Prima di addentarci nella nostra Top Five, non possiamo non ricordare B.B King che questo mese se n’è andato, lui che più di ogni altro incarnava nell’immaginario collettivo l’idea del blues.
Kamasi Washington – The Epic
Kamasi Washington è un talentuoso compositore e sassofonista losangelino che questo mese ha pubblicato il suo esordio solista. Composto da tre volumi per un totale di quasi tre ore di musica, The Epic è la prima grande occasione in cui questo jazzista ha avuto la possibilità di esprimere la propria arte senza nascondersi dietro i dettami di Kendrick Lamar o Flying Lotus, tanto per citare due nomi che compaiono in un curriculum fitto di collaborazioni d’eccellenza. Ascoltando il mastodontico The Epic si capisce subito che il jazz di Washington è lontano anni luce dal manierismo accademico che questo genere ha subìto col passare dei decenni, anzi sembra resuscitare i grandi maestri del passato, Coltrane su tutti. Con quest’ultimo infatti Washington condivide non soltanto lo strumento, il sax tenore, ma anche l’intensa espressività dei fraseggi. Accompagnato da un’orchestra di trentadue elementi e un coro di venti voci, Washington sfodera un repertorio free jazz con contaminazioni gospel, blues e afro, partendo dalla labirintica Change of the Guard, che costituisce il concept dell’intero disco, e la bellissima Isabelle per arrivare fino al famoso standard Cherokee dell’ultimo volume.
The Epic è un viaggio senza tempo in un luogo in cui la creatività di ciascun musicista non è mai uno sterile esercizio di stile.
Unknown Mortal Orchestra – Multi-Love
A due anni dall’ottimo II, tornano sulle scene gli Unknown Mortal Orchestra con Multi-Love, cronaca di un menage à trois in salsa psichedelica che si candida a essere uno dei dischi più interessanti di questo 2015. C’è da sorridere se si considera che il poliedrico Ruban Nielson, cantante e ideatore della compagine, è passato in breve tempo dall’idea di abbandonare le proprie velleità musicali a essere considerato uno degli alfieri, assieme ai ben più conosciuti Tame Impala o MGMT, di un rock che affonda palesemente le proprie radici nei tardi anni Sessanta, ma che ne riesce a veicolare lo spirito senza suonare derivativo. Alla base di Multi-Love sta il concetto di “poliamore”, ispirato dall’incontro tra i coniugi Nielson e una giovane ragazza con cui si è formato un triangolo amoroso che avrebbe messo a tappeto la psiche di qualsiasi persona normale. L’estasi e gli svariati sintomi della prolungata e volontaria coabitazione a tre sotto lo stesso tetto emergono in tutto il disco: dalla canzone eponima in cui al piano elettrico e agli stacchi ritmici risponde una voce lisergica, alla più danzereccia Can’t Keep Checking My Phone che riassume lo stato d’abbandono e ansia provocato dalla separazione. Nel complesso le nove canzoni presentano arrangiamenti più sofisticati rispetto ai lavori precedenti, grazie anche agli allucinati suoni di sintetizzatori che creano un’atmosfera gioiosa alla Flaming Lips.
Con Multi-Love gli Unknown Mortal Orchestra viaggiano in una galassia tutta da scoprire, in bilico tra il passato e il futuro.
Hot Chip – Why Make Sense?
I londinesi Hot Chip ritornano sulle scene riproponendo il loro pop elettronico tra vocoder, sintetizzatori e musica soul del passato. Il disco, il cui titolo sembra rimandare ai Talking Heads dei primi anni Ottanta, riassume il meglio che il quintetto ha offerto nei suoi quindici anni di attività dimostrando tutta la sua capacità di rinfrescare la propria ricetta e di stare al passo con i tempi. Nelle dieci canzoni presenti si passa dal funk elettronico di Love is the Future, in cui compare il rap dell’amico De La Soul, e di Cry For You, fino alle ballate su piano elettrico in stile Robert Wyatt come White Wine and Fried Chicken. Ma sono il singolo Need You Now, che contiene il sample della canzone di Sinnamon e che ricorda quanto fatto dal miglior Moby, e il vocoderizzato brano d’apertura Huarache Lights a convincere di più.
A differenza dell’ultimo disco dei Daft Punk in cui il duo francese ha scelto di rivisitare il passato, Why Make Sense? è un album proiettato al futuro ma riesce a risultare altrettanto piacevole.
Ludovico Einaudi – Taranta Project
Che ci azzecca il piano malinconico e sognante di Einaudi con il ritmo indiavolato e le corde pizzicate della tradizione della taranta? Come la calma apparente di un lago vulcanico, la formazione classica del pianista risveglia un rito antico nato per curare i mali di una persona sofferente attraverso una liturgia di ritmi e danze. Taranta Project è stato pensato da Einaudi a seguito della sua partecipazione alla famosa Notte della Taranta e si avvale di tantissimi ospiti, tra cui uno dei massimi cultori della musica salentina, Antonio Castrignanò. Se in alcuni passaggi, come Nazzu Nazzu, non si comprende molto il contributo del pianista piemontese alla causa, in altri, come Choros, è sorprendente ascoltare i suoi tipici fraseggi, ipnotici e dolci, su una base nervosa di archi pizzicati. La riproposizione della celebre strumentale Nuvole Bianche in una nuova veste allinea definitivamente due pianeti che sembravano all’inizio inconciliabili, anche se è la canzone Preludio/Nar-i-Seher a riassumere al meglio lo strano incontro tra digressioni pianistiche che invitano alla meditazione e archi arabeggianti che sfociano in un percuotere ossessivo e primitivo.
Blanck Mass – Dumb Flesh
A distanza di quattro anni dal suo esordio, Blanck Mass – ovvero la metà più ombrosa del duo Fuck Buttons – ritorna con un disco in cui forte è il suo marchio di fabbrica: una massa informe di elettronica pesante accompagnata da beat ipnotici e ossessivi e processata dal suo fidato computer. Come si percepisce in Loam, Blanck Mass plasma suoni distorti ed esasperati di cui è difficile indovinare le fonti e manipola le voci per rendere ancora più sinistra l’atmosfera. Rispetto ai Fuck Buttons, il suo limite è quello di proporre quasi esclusivamente lo stesso schema: un costante sottofondo nero da cui emergono ogni tanto alcune melodie bianche. La ripetitività dei pezzi è spezzata soltanto da No Lite che, partendo da una plateale esplosione, si sviluppa progressivamente in una serie di beat alla Kraftwerk che alleggerisce l’eccessiva compressione delle otto canzoni.
Dumb Flesh è come una serie tv con qualche episodio eccellente ma che, in fin dei conti, non convince del tutto.