Scrivo di questo mio viaggio ne Gli Increati nella penombra della mia camera la quale è rischiarata lentamente dalla luce della lampada. Scrivo de Gli Increati non col grande sentimento amicale che mi lega ad Antonio Moresco, ma con una genuina condivisione dell’idea di letteratura.
Sono avviluppato, in questa stanza, dal silenzio il quale mi arriva, placido, da altri territori, credo i territori intoccabili dell’aldilà o la parvenza di essi che a noi tocca vivere in parte e che, suppongo, intravvediamo osservando il cielo quando scurisce. Il libro riposa sulla scrivania lavorato dai miei occhi, segnato fisicamente da costanti commenti a matita lungo i bordi delle pagine, cronache partorite da una pura compartecipazione spiritica alla potente metafisica del libro. L’ho letto nel suo Tempo giusto, per me il Tempo della notte, che è il Tempo dove il romanzo respira come un inesteso cosmo il quale non smette di slargarsi. Come un specie di polmone immortale con un’incessante fame d’aria dentro il buio sottile che avvolge i luoghi e gli edifici de Gli Increati.
Dico del romanzo lontano da un ipotetico lavoro esegetico o critico, lo faccio con una mia comprensione (quella rurale, quella metafisica, e per tale ragione irrefrenabile), della sensibile confessione che ha scritto Antonio Moresco. Una confessione, quella ne Gli Increati, che per eternale umanità è l’autentica voce di un uomo (nella forma dello scrittore, armatura intima che sopportiamo sopra la pelle, sopra il corpo), che è stato alla ricerca, nel libro, prima di tutto dell’amore perduto, e solo dopo della significanza delle cose oscure, delle cose immateriali che balbettano e che si infiltrano nella realtà obnubilando dolorosamente i nostri sensi dal principio al camminamento ultimo. Uno scrittore, in definitiva, che non può permettere, per proprio squarciante urlo spirituale, la risoluzione letteraria della nostra esistenza in una materiale cronaca della realtà.
Si inizia dunque dalla morte, il libro nasce dalla morte e dal suo mondo, e combatte con la morte stessa.
Ché nella sola lingua dei morti (quella che è resa possibile grazie al sentimento abissale dello scrittore), si può conoscere il suggerimento della rivelazione delle cose che hanno avuto primigenia creazione. La narrazione è quindi quella della poesia del verbo. La poesia: l’unica che può toccare e vivisezionare tutte le ossa, anche inspiegabili e ultraterrene, del presente, del passato e di un tempo incatalogabile dove si è destinati. La funzione della poesia: quella di diveltere la domanda che la ratio obbligatoriamente pone. Ecco allora un verbo impossibile, poetico, quello di Antonio Moresco, in grado di parlare di elementi e personaggi viventi, o vissuti, e incastrati nella disperazione animica della rievocazione dal mondo dei morti; che può riunire la questione degli spazi che stiamo abbandonando, che può ricordare il primo esordio, le prime solitarie notti da seminarista, i primi incontri col Gatto, con la Suora Nera, i propri genitori fantasma che camminano surreali in una casa ormai squarciata dall’usura del non-tempo, le case natìa e attuale in una dimensione di buio incatalogabile, il vero amore che è poi il moto potentissimo che anima nell’aldilà Antonio Moresco.
Per incontenibile e palpitante sentimento lo scrittore parla coi defunti compagni del proprio viaggio di uomo-scrittore: Pasolini, Gesù, Lazzaro, Mao, Dio, Il Diavolo ecc. Così i dialoghi non hanno movimento da una spenta vivisezione intellettuale, ma da un disperante e bellissimo bisogno di risposte, di insopprimibile primo amore verso l’Idea e la sua giovinezza imperitura, di necessarie e vibranti richieste su cosa sia la letteratura (la loro, la sua, e quella in generale), e dove finirà o è finita in quel mondo nel quale lo scrittore poeta e viaggia.
La narrazione è quindi una non-narrazione, qui non abbiamo storia o cornici reali, nella morte non può concretarsi nulla. E credo che ciò possa essere inteso (questo è un mio metafisico suggerimento) se per un secondo ci adoperiamo per sprofondare nella nostra essenza scarnificata chiudendo gli occhi, oppure osservando la terribile presenza della luna sopra le nostre teste spogliandola del velo di ragione che ci soffoca, o la giustifica. O ancora realizzando che siamo didentro una galassia.
Nella morte, nel suo territorio, nell’increazione, tutto è sprovvisto di precisi soffitti e paesaggi, ogni cosa è obliqua, di colori indecifrabili e fiamme senza categoria se non nascenti dalla guerra, che poi accade, o dal niente. Le descrizioni dei territori e degli edifici sono quindi sfuggenti come un dolce lungo sonno.
Ora, nella precaria luce di questa camera, dico infine che quello che più preme nella carne di questo romanzo è l’amore. Gli Increati è una magnifica storia d’amore, ultraterrena, di cosmica fattura. Un combattimento per ritrovare l’amore perduto nell’aldilà affrontando i ricordi, la malinconia, la propria carne mortale che tende all’immortalità solo grazie al sentimento imbattibile: l’amore. La lingua del morto, dello scrittore, serve allora per chiedere di dove si trovi la Pesca, la vera sposa dello scrittore. La lingua suprema per distruggere l’impalcatura che lo condanna all’oscurità e alla guerra in quel pianeta mortuario. In questo pianeta… La sposa, e l’amore, che hanno mosso l’opera intera dello scrittore.
Confesso che mi è capitato spesso di piangere durante la lettura notturna de Gli increati per aver sentito quel terribile confine materico, anche se immateriale, che si frappone a quest’avventura buia verso l’amore. Confesso che ho sentito l’esigenza di Antonio Moresco di squarciare il tempo perché il Gatto, il dio dei vivi, il dio dei morti, i paesaggi, le stelle assenti, e tutti gli altri personaggi gli segnalino la mappa per raggiungere la Pesca e quindi la ragione dell’amore riunita alla scrittura. La Pesca che a volte, nel camminamento, gli appariva e concedeva la forza, i propri gesti, il bacio del morto, la duale tracimazione e la potenza necessarie. Pertanto i personaggi divini alla fine sono solo particelle subordinate della domanda principe che Antonio Moresco si pone con una meravigliosa scrittura sconfinante: che cos’è l’amore?
Ci si domanderà allora: «e l’amore che cos’è rispetto alla letteratura?» La risposta de Gli Increati credo sia, che è anche la mia risposta, e lo affermo con ancora lacrime sincere che questo romanzo una volta chiuso mi ha dato nuovamente possibilità di sentire: la letteratura procede sostenuta verso l’amore il quale divarica la maledizione di questa realtà sino a farti sprofondare in un combattimento soprannaturale.