Qualche anno fa Alberto Asor Rosa spiegava come fossero numerosi gli scrittori che ritornavano in provincia, col desiderio di raccontarla. Tra questi si deve sicuramente contare anche Alessio Torino, classe 1975, che dopo due romanzi – Undici decimi e Tetano – ambientati in un paese di fantasia, Pieve Lanterna, antico borgo nell’Appennino umbro-marchigiano che può essere definito un luogo della memoria di derivazione proustiana, decide con Urbino, Nebraska (minimum fax 2013) di parlare della sua Urbino, che rimette al centro del mondo come aveva fatto Paolo Volponi in La strada per Roma.
Ma oltre Volponi, dietro il romanzo di Torino si celano anche Silvia Ballestra, che nel 1991 ha raccontato la gioventù marchigiana, e Pier Vittorio Tondelli che con sguardo acuminato ha descritto Rimini e dintorni e un’intera generazione. In questo romanzo Urbino diventa sicuramente un luogo mentale e fantastico, ma nello stesso tempo mantiene tutta la sua fisicità: Zena Mancini, Nicola Chimenti e Mattia Volponi, i protagonisti del libro di Torino, letteralmente si scontrano con questa città e hanno con essa rapporti ambivalenti, da una parte vorrebbero abbandonarla per lasciare il suo provincialismo e la sua marginalità, ma dall’altra Urbino li attrae al punto che sembra non riescano a farne meno, trasformandosi così nella costola mancante di tutti i personaggi del microcosmo di Torino.
Urbino, come un fiume carsico, influenza tutte le vicende ed è il vero protagonista del libro; diventa un vero e proprio topos dei sentimenti, ma soprattutto della memoria, infatti tutti i protagonisti sono legati indissolubilmente da un fatto di cronaca avvenuto nel 1987: la morte per eroina di due ragazze Ester e Bianca, trovate con la siringa ancora nella vena su una panchina della Fortezza Albornoz. Urbino così è lo scenario perfetto per raccontare un disagio e una precarietà che accomuna tutte le figure del romanzo, dagli anni Ottanta agli anni Zero del ventunesimo secolo.
Ma ecco che l’opacità di questa città di provincia viene squarciata da una candida luce di speranza, rappresentata dal bambino Federico, descritto in modo perfetto e puntuale da Torino che può essere considerato uno tra i migliori cantori del mondo della fanciullezza. Con un’immagine in soggettiva, il lettore, alla fine del libro, segue lo sguardo di Federico che dalla finestra guarda la stradina di casa completamente innevata che prosegue oltre il cancello. Dopo le diverse strade interrotte o mai percorse che pullulano nel libro, quella strada che non termina è la fine più umana che Torino poteva offrirci.
Vorrei partire dalla copertina del libro. Mi piacerebbe che provassi a commentare lo splendido disegno di Alessandro Gottardo. L’immagine riassume l’idea di fondo del libro?
L’illustrazione di Alessandro Gottardo è talmente splendida che la considero un regalo che mi è stato fatto dall’illustratore stesso e dalla casa editrice. Solo un grande illustratore poteva rivisitare un’iconografia come quella senza cadere nel ridicolo. Quest’aspetto della rivisitazione del classico è ciò che sento di più vicino al libro.
Mi piaceva che due nomi di luogo, ‘Urbino’ e ‘Nebraska’, uniti o separati da una virgola, si elidessero a vicenda, portando il tutto su un piano non tanto geografico, ma mentale. Se dovessimo invece parlare di un luogo, credo che questo titolo evochi un luogo fantastico, come potrebbe essere il nome di un’isola misteriosa in un libro di mare per ragazzi, ma allo stesso tempo tenebroso, di quelle tenebre mentali che ci sono nell’album di Springsteen.
La Urbino che descrivi non è solo quella da cartolina, anzi il lettore si trova spiazzato perché scopre che Urbino ha un suo lato periferico e grigio, dovuto all’esagerata cementificazione. Paradossalmente mostri la periferia di una piccola città di provincia: insomma c’è qualcosa di altro oltre Raffaello Sanzio. Il lettore che non conosce Urbino si trova smarrito di fronte ai nomi di alcuni dei suoi luoghi, come il Mercatale e la stessa Fortezza Albornoz,. Questa meticolosità nella descrizione è sicuramente voluta, perché provoca un disorientamento utile di fronte ad una città in perpetuo divenire. Zena Mancini paragona Urbino al fegato, in un’altra parte del libro si parla di una Urbino che, vista dalla galassia, è tutta contratta nelle sue mura storiche. Com’è la tua Urbino? Può essere considerata un baricentro ai margini?
Questa è una domanda su Urbino come città reale, quindi siamo su di un piano ben diverso rispetto al libro. Ma rispondo lo stesso volentieri. Su Urbino come città reale ho scritto una specie di saggio letterario che s’intitola I mattoni ben cotti della città ideale, dove mi sono civilmente scagliato contro un parcheggio costruito in una zona sacra di Urbino, proprio sotto i Torricini del Palazzo Ducale, nel cosiddetto Mercatale, cioè la vecchia piazza dove si teneva il mercato cittadino. Per farti un esempio meno visibile, ma non meno grave, a Urbino non c’è una biblioteca comunale. Eccellenti biblioteche universitarie a iosa, ma una biblioteca pubblica no. A Urbino convivono queste due luci, quella della capitale del Rinascimento e quella del borgo periferico.
Non so quanto consapevolmente, ma in questi racconti tu riscrivi gli ultimi trent’anni della Storia italiana. Anche per questo motivo prima parlavo di “senso universale”, perché credo che Urbino diventi un interessante laboratorio da esplorare per capire più in generale il nostro paese. Il libro si tiene legato da un evento che ha innegabilmente toccato la nostra storia: la comparsa dell’eroina subito dopo anni difficilissimi culminati con l’assassinio Moro. Negli anni ottanta l’eroina ha segnato un’intera generazione delusa dai fatti degli anni Settanta. Zena Mancini e Nicola Chimenti sono invece ragazzi della fine del XX secolo e degli inizi del XXI: profondamente incompleti e inconclusi – in loro ci rivedo il Walter di Tutti giù per terra e Alex D. di Jack frusciante è uscito dal gruppo. Sono gli emblemi di una gioventù disorientata che non riesce a trovare il proprio posto nel mondo, anche perché questo mondo non offre i mezzi per conquistarlo, penso ad esempio alla cena di Zena in casa della professoressa. Infine c’è il personaggio più complesso, anche perché tuo coetaneo: Mattia Volponi. A me sembra, insieme col suo amico Jaco, simbolo di una generazione cresciuta tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta che non è mai definitivamente diventata adulta. Lo si vede, ad esempio, nella difficoltà di Mattia ad affrontare i momenti difficili della vita, come nel suo rapporto con il padre. Mentre Jaco è da questo punto di vista la vera chiave di lettura: un ragazzo intrappolato in un corpo di adulto, vittima della sindrome di Peter Pan. Cosa ne pensi?
Mattia Volponi e Jacopo Martelli, almeno per come li sento io, sono due facce della stessa medaglia. Mattia trova ogni pretesto per non tornare a Urbino per non dover affrontare una parte di se stesso e della propria emotività, mentre Jaco, che da Urbino non se n’è mai andato, ha finito per addentrarsi troppo dentro la propria mente. Direi semplicemente che a entrambi manca una costola. Come del resto manca una costola a Zena, mentre si arrovella sul divano di casa, tra mille inutili paranoie. Così come a Federico che guarda i due uccellini che beccano le briciole nella neve e pensa che siano Ester e Bianca.
Un discorso a parte merita quello che considero il più bel racconto del libro. Il protagonista Federico assiste impotente alla morte del nonno, che da dipendente comunale aveva trovato i corpi morti di Ester e Bianca. È un racconto di formazione, anche se sembra che rimanga bloccato. Tutto il libro può essere considerato un romanzo di formazione, più precisamente l’elaborazione di un lutto, la morte di Ester e Bianca. Più di una volta Zena si accomuna ad Antigone e al suo gesto di rottura: è di vitale importanza che i morti vengano sepolti dentro le mura della città. Ma mi chiedo se veramente Ester e Bianca siano sepolte dentro le mura. Questi racconti si avvicinano all’idea greca del tragico. I protagonisti vivono e si muovono nell’isolamento, si misurano da soli con il proprio destino. Anche quando si creano dei rapporti interpersonali, vivono fino in fondo il loro particolare fato. La realtà è sì la conseguenza di una decisione, ma è soprattutto una scommessa sull’ignoto. Così per Zena, Nicola, Mattia e Federico la scelta diventa un inganno: una sola via si apre davanti all’individuo, ed egli è forzato e costretto a seguirla. Potrebbe essere una chiave di interpretazione per il tuo libro?
Anche se sono l’autore del libro, non credo di avere il diritto di sentenziare se una chiave di lettura sia lecita o no. Proprio ieri ho riletto Campo indiano di Hemingway e ho pensato che si tratta di un rapido e terribile viaggio all’inferno per Nick Adams. È giusto o sbagliato? Non lo so, questo è quello che ho sentito. Per cui se tu, da lettore, hai trovato quella chiave, la porta del senso, per te, si aprirà con quella chiave. Quello che mi sento di aggiungere di particolare a queste considerazioni generali, è che mi piaceva che il libro finisse con una strada aperta. Dopo le tante strade interrotte o mai percorse – penso a Zena che non riesce ad andarsene da Urbino o a Mattia che fa così fatica a tornarci – quello stradino nella neve, anche con tutto il dolore che comporta, era il finale umano che ci voleva.
Infine vorrei soffermarmi sulle tue influenze in campo letterario e stilistico. È indubbio che hai una grande capacità di registrare i minimi stati d’animo dei tuoi personaggi, sei un vero e proprio sismografo dei loro mutamenti interiori, in questo mi ricordi Marcel Proust. La tua struttura narrativa oscilla tra coesione e frammentazione e c’è un piccolo squilibrio tra narrativa e letteratura a favore della prima, in questo invece mi sembra di scorgere un influsso della narrativa postmodernista americana. Quindi, oltre a Pavese, Volponi e Bassani che descrivono la provincia, e ad autori come Joyce per l’utilizzo del flusso di coscienza che abbonda nei tuoi racconti, penso a David Foster Wallace, citato da Zena. La tua narrazione è cinematografica, non a caso Filippo La Porta paragona il tuo libro a Fargo dei fratelli Coen. Wallace, e più in generale l’Avantpop, credo ti possano aver influenzato, ma potrei sbagliarmi.
La cosa più importante è quanta strada sei riuscito a fare dentro te stesso, a liberarti dunque dai tuoi modelli. Se Zena Mancini e gli altri personaggi non avessero trovato un proprio passo – cioè ritmo e parole propri – non ci sarebbero né Volponi, né Bassani, né Wallace che terrebbero. Le influenze sono inevitabili e importanti, ma enormemente più importante è la libertà che da scrittore ti sei conquistato sul campo, spesso cancellando e cestinando pagine su pagine.
Che tipo di lettore sei?
Ti posso dire quello che vorrei essere e che aspiro a essere: un lettore disordinato. In questo senso non c’è posto migliore per ‘esercitarsi’ che i mercatini di libri usati. Per quanto anche lì, di fronte a bancarelle dove i libri sono ammucchiati a caso, la nostra mente tende a essere attratta da quelli che conosciamo già, da quelli di cui abbiamo sentito parlare. È che il cervello cerca sempre di risparmiare energia e fatica. Invece, più argini mentali riusciamo ad abbattere – dico noi che leggiamo e scriviamo – e meglio è.