Il 30 giugno Apple Music, ovvero la nuova piattaforma di servizi di streaming dell’azienda di Cupertino, sarà disponibile in oltre cento Paesi, andando tardivamente a completare la formazione titolare di una squadra che vuol vincere la scommessa della musica online. Una direzione importante per l’azienda che più di ogni altra ha modificato le modalità di fruizione della musica, ma che allo stesso tempo era stata colta impreparata dall’avvento dello streaming. Eppure, la discesa in campo della mela morsicata ha attirato un vespaio di critiche: la scelta di non retribuire gli artisti nei primi tre mesi di prova del servizio è stata da molti ritenuta inaccettabile. Risultato: dietrofront imbarazzato della Apple (che riesce così ad accaparrarsi un catalogo ancora più ampio, portando dalla sua parte gli artisti della Beggars Group).
Venendo a noi, giugno ha visto svolgersi tanti festival importanti, in Italia come all’estero. Alcuni degli artisti della Top Five li potrete apprezzare dal vivo nei prossimi mesi. Inoltre, ricordiamo qui la scomparsa del grande Ornette Coleman lo scorso 11 giugno e raccomandiamo di dare un ascolto al debutto dei londinesi Wolf Alice.
Jamie XX – In Colour
L’esordio solista di Jamie XX era nell’aria da quando il giovane tuttofare e produttore degli XX aveva aperto a collaborazioni e remix importanti, ritrovandosi in poco tempo una lunghissima quanto eterogenea coda di musicisti desiderosa di lavorare con lui. Un altro effimero altare costruito dalla stampa d’oltremanica? Non sembra proprio il caso. Tutto è studiato al dettaglio e la gestazione lunga e pensata di In Colour è testimoniata dalla qualità dei suoni e dalla sintesi tra l’introspezione malinconica del suo gruppo e la giungla sonora dei club londinesi. Jamie è molto bravo a costruire un’architettura complessa partendo da fondamenta abbastanza semplici. Il pezzo d’apertura, Gosh, ne è l’esempio lampante col suo scorrevole incedere da atmosfere da club a territori meno ludici, riassunti dal sinistro sintetizzatore in chiusura. I momenti più intimi sono quelli in cui gli altri due XX offrono la voce all’amico, in tre canzoni che, pur non distanziandosi dallo stile della band, suonano come dei remix interessanti. In particolare, Loud Places è forse il pezzo che meglio sintetizza l’idea di fondo dell’intero disco, ovvero la ricerca di intimità e di se stessi in spazi caotici e rumorosi. Al di là del fuoripista clamoroso di I Know There’s Gonna Be (Good Times), In Colour è un disco piacevole e sorprendente, il cui sipario, The Rest Is Noise, testimonia il talento di questo giovane ragazzo.
Sharon Van Etten – I Don’t Want to Let You Down
Il presentatore neozelandese che quasi si mise a piangere nel corso dell’esibizione a sorpresa di Sharon Van Etten, diventando a suo modo una piccola celebrità tra gli intranauti, sarà sicuramente felice di apprezzare il ritorno dell’artista, seppur in forma di EP. A distanza di un anno rispetto all’ultimo fortunatissimo disco Are We There, la Van Etten pubblica questo mini di cinque canzoni che riprende il discorso dove lo aveva lasciato. La formula infatti non muta: voce graffiante e malinconica, melodie che resuscitano il fantasma di Jeff Buckley e accompagnamenti classici, dove però l’estro dei musicisti non viene castrato. Se la canzone eponima dà sfoggio della capacità di scrivere pezzi canonici senza renderli troppo scontati, è sicuramente la seconda (Just Like Blood) a colpire maggiormente per l’elegante arrangiamento con piano e archi che si stagliano sopra l’organo. I Always Fall Apart avrebbe potuto essere inclusa a pieno titolo in Are We There ed è una piccola gemma che segna l’apice di questo lavoro, anche se la successiva (Pay My Debts) è il pezzo che introduce le novità più consistenti grazie a quella linea di basso ipnotica in stile Pink Floyd. A dispetto del titolo, è difficile che Sharon Van Etten possa deludere qualcuno.
Sun Kil Moon – Universal Themes
Dopo il successo di Benji, lavoro che – come già raccontato qui – ha consacrato una carriera ventennale, sembra proprio che l’irrequieto Mark Kozelek non abbia voluto far passare troppo tempo: tour mondiale, collaborazione con Paolo Sorrentino per il suo nuovo film Youth e, adesso, nuovo disco che conferma lo stile del fortunato predecessore. Anche in Universal Themes, infatti, troviamo lunghi e coloriti flussi di coscienza che si traducono in canzoni, prevalentemente guidate da chitarre acustiche, che rompono con la classica struttura del cantautorato americano per trasformarsi in lunghe suite. A differenza del predecessore, però, Universal Themes è un album più divertente e solare, interamente ispirato all’ultimo anno dello stesso Kozelek, un anno che, a sua detta, è stato ricco di soddisfazioni. Dal resoconto in forma quasi diaristica del soggiorno in Svizzera per la lavorazione di Youth (“How the hell I ended up playing myself in an Italian film…” canta ironicamente) alla rumorosa With a Sort of Grace I Walked to the Bathroom to Cry, il cui garage rock ricorda il gruppo da cui la carriera di Kozelek era partita, i Red House Painters. Ma sono sicuramente il delirante pezzo d’apertura, The Possum, e la bellissima Little Rascals a convincere di più in un disco che, per quanto degno di nota rispetto al piattume generale, non riesce a raggiungere quanto fatto l’anno scorso.
Jenny Hval – Apocalypse, Girl
Tra tutte le nuove uscite di giugno, il disco di Jenny Hval è quello che più s’allontana dall’idea di un disimpegnato ascolto sotto l’ombrellone o di un piacevole sottofondo per intrattenere i vostri ospiti a casa. La musica surreale e sperimentale dell’artista norvegese ruota attorno al tema del corpo e della sessualità in tutte le sue declinazioni, come testimoniato dall’audace canzone d’apertura Kingsize, una specie di installazione in stile Biennale in cui i riferimenti sessuali si alternano ad una visione quasi apocalittica. Per raggiungere la terra sacra (Holy Land, ultimo brano dell’album), la Hval attraversa territori molto diversi tra loro, utilizzando parti recitate o melodie tra il serio e il faceto. L’apparente inacessibilità musicale di quest’artista non deve intimorire: canzoni come The Battle Is Over, che ricorda il miglior Gainsbourg, la labirintica Sabbath o la bjorkiana Heaven dimostrano il talento di una donna che, arrivata all’età di Cristo, non ha ancora la perso la curiosità di cercare risposte alle sue domande. Per quanto difficile, Holy Land è un “qualcosa” che merita di essere ascoltato. Da soli, però.
Florence and the Machine – How Big, How Blue, How Beautiful
Pochi giorni fa, la giovane Florence Welch ha suonato come headliner sul palco principale di uno dei più importanti festival del mondo, Glastonbury, a causa dell’infortunio di Dave Grohl e la conseguente defezione dei Foo Fighters. In quest’occasione ha avuto modo di presentare il suo ultimo disco, How Big, How Blue, How Beautiful, che arriva a quattro anni di distanza dell’acclamato Ceremonials. Ispirato agli effetti collaterali del successo e al rapporto con la natura, l’album riassume quanto di meglio la Welch riesce a fare, ovvero poderose melodie che lasciano libera una straordinaria potenza vocale (What Kind of Man e Delilah). Anche se la maggior parte delle volte l’epicità del risultato sembra stridere con il contenuto riflessivo del disco, bisogno dire che gli arrangiamenti orchestrali e le sezioni di ottoni (Queen of Peace) calzano a pennello con lo stile anni Settanta (Mother) della Welch. Eppure, sono i pezzi più riflessivi a rappresentare una novità, e allo stesso tempo fanno capire al meglio quello che questa ragazza è in grado di fare: ascoltate Various Storms and Saints o St. Jude e avrete davvero l’impressione di assistere alla calma dopo la tempesta.