Domani sera, in questa afosa estate italiana, si terrà la finale del Premio Strega e sapremo chi, davanti ad una luna piena ed esuberante, salirà sul palco a bere il famoso liquore che Barnes, il protagonista di Fiesta di Ernest Hemingway, paragona al sapore dell’Izarra, un amaro dei Paesi Baschi. Devo ammettere che era da molti anni che non si assisteva ad una finale qualitativamente così di alto livello, segno che qualcosa (forse) sta cambiando anche nel panorama letterario italiano.
È partito il conto alla rovescia, e vorrei sommessamente dare il mio voto, di cui conosco l’inutilità ai fini della vittoria, e tentare in parte di spiegare il perché della mia preferenza. Sono partito anticipando l’alto valore del Premio di quest’anno e quindi, sostenuto da questa captatio benevolentiae, spero nel profondo del mio cuore che vinca lo scrittore barese Nicola Lagioia con il suo La ferocia (Einaudi, 2014). Diverse sono le motivazioni che potrei mettere sul banco dei testimoni, ma vorrei soffermarmi su poche considerazioni, nella speranza di convincere anche solo uno di voi della bontà delle mie parole.
Comincerò citando un altro scrittore, che per me rappresenta il meglio della narrativa italiana, Francesco Pecoraro, il quale, poco meno di un anno fa su Lo straniero, rivista curata da Goffredo Fofi – a proposito, potrebbe essere lui Elena Ferrante? – si esprimeva con queste parole:
Scrive Giorgio Agamben (Che cos’è il contemporaneo?) che «appartiene veramente al suo tempo […] colui che non coincide perfettamente con esso, né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo».
Se è vera questa affermazione allora soltanto chi proviene dal tempo delle appartenenze è capace di accorgersi quando giunge l’era delle dis-appartenenze. Chi invece vi è nato non può averne una nozione autentica, perché non ha fatto esperienza di come stavano le cose prima.
Ho messo in corsivo la parola che, dal mio punto di vista, è fondamentale per l’economia del discorso di Pecoraro – scrittore classe ’48 –, ossia esperienza. In poche parole Pecoraro ci sta dicendo che gli scrittori dell’era della dis-appartenenza, cioè dell’era del crollo delle grandi meta-narrazioni, per intenderci gli scrittori nati negli anni Settanta come il nostro Lagioia, sono protagonisti di quella che Antonio Scurati ha definito la letteratura dell’inesperienza. In questo modo lo scrittore de La vita in tempo di pace traccia un confine ben definito tra una letteratura impegnata, possibile però solo in chi ha vissuto la cosiddetta era dell’appartenenza, e una letteratura del disimpegno che, gioco forza, è obbligato a scrivere chi non ha vissuto quest’epoca delle ideologie forti. In realtà, è proprio l’opera di Lagioia che mostra l’inesattezza di questa affermazione. Lagioia, nonostante viva quello che Daniele Giglioli ha definito un vero e proprio stato di minorità, ritorna ad una scrittura civile e d’impegno, e questo è il primo e più importante motivo per cui vorrei che vincesse il Premio Strega.
La ferocia deve essere visto come l’ultima parte di una trilogia, cominciata con Occidente per principianti (Einaudi, 2004) e passata per Riportando tutto a casa (Einaudi, 2009), che racconta la storia di noi tutti, la storia degli ultimi trent’anni dell’Italia.
In Occidente per principianti ha parlato di un’intera generazione, la sua generazione, quella che ha vissuto in un mondo opaco e derealizzante, una vera e propria Cartoonia collettiva. Ma sono due schegge di realtà, la morte di Carlo Giuliani al G8 di Genova e il crollo delle Torri Gemelle, che fanno rientrare nella Storia il protagonista di Occidente per principianti e lo stesso Nicola Lagioia. Le ultime battute del libro sono già una dichiarata proposta di intenti per i due libri successivi:
Provavo un senso di solitudine perfetta. Mi sentivo restituito ai miei limiti, alla semplice estensione delle fibre muscolari intorno alle ossa, come se l’implosione delle Torri avesse avuto la capacità di risucchiare per qualche ora la gigantesca cubatura di materiale esilarante vaporizzata nei cieli delle nostre città sin dal giorno in cui siamo nati. L’artiglio ha allentato la presa lasciandoci precipitare finalmente sulla Terra.
Mi sono avviato allora a piedi verso l’Esquilino, dove c’è uno dei migliori ristoranti cinesi di tutta la città […] Prendo i ravioli al vapore. Poi il riso alla cantonese. Un piatto di pollo alle mandorle e un’anatra al limone. Dopo l’amaro e il caffè, insieme al conto, mi viene portato il solito biscottino della fortuna […] pago il conto, spezzo il mio biscotto come un’ostia e posso leggere: «NON C’E’ GIORNO CON PIU’ FUTURO DI QUESTO».
L’immagine-chiave del romanzo resta quella in cui il protagonista si specchia e pensa di essere lui l’immagine, la copia, mentre il suo io reale si trova al di là dello specchio, in un vero e proprio ribaltamento dello stadio delle specchio di Jacques Lacan. L’unico modo per riproporre il proprio io e, di conseguenza, il proprio inconscio sarebbe, con un gesto prometeico, distruggere lo specchio, ossia uscire dalla cosiddetta Età dell’Acquario. Questo gesto è ciò che rende così interessante Lagioia, che nei suoi romanzi è alla ricerca del suo trauma senza evento.
La parte più interessante di Riportando tutto a casa è la riflessione che la Lagioia fa su come tutti comincino a parlare la lingua del potere, o meglio siano parlati da quella lingua. È importante perché Lagioia fa una riflessione antropologico-fenomenologica, mettendo in risalto una vera e propria microfisica del potere che corrompe esteticamente, quindi anche eticamente, i corpi e gli sguardi dei personaggi che si aggirano in questa Bari del lusso e preannuncia il tema che, come un fiume carsico, lega sotto traccia tutto il racconto de La ferocia:
I cambiamenti scavano la fossa al vecchio mondo in modo che il suo crollo sia spesso molto silenzioso. È così che cambiano gli uomini – una smorfia, uno scatto di nervi, una parola al posto di un’altra parola –, è in questo modo che da un momento all’altro non siamo più noi stessi. Per cui, ai miei occhi, la cosiddetta questione meridionale (quel residuo di questione planetaria che può riassumersi nella domanda: ha ancora il sacro uno sviluppo sostenibile?) morì definitivamente nel giorno in cui il marito di una ricamatrice arrivò tutto imbarazzato in casa nostra per reclamare un diritto inesistente, e mio padre decise di accordarglielo.
In queste poche parole Lagioia rappresenta una mutazione antropologica; La ferocia, non solo esplica questa mutazione, ma mette in scena un crollo, con il suo impercettibile rumore: il crollo della famiglia Salvemini e dei suoi componenti che vivono in una luminosa gabbia di anaffettività, in una società allo stato di natura che riprende l’adagio hobbesiano homo homini lupus e che basa tutti i suoi rapporti sugli interessi e il denaro – da questo punto di vista il libro di Lagioia si avvicina a Storia del denaro di Alan Pauls –, restano vittime di questo mondo crudele e feroce i due personaggi più deboli: Clara e il fratellastro Michele, nato da una relazione extraconiugale del capo-famiglia Vittorio con una donna che muore dandolo alla luce.
Mentre in Riportando tutto a casa Lagioia concede molto alla cronaca italiana – si pensi alla magnifiche pagine satiriche su Drive In e il suo creatore Antonio Ricci, a quelle drammatiche sulla spettacolarizzazione dell’orrore all’Heysel e a quelle sull’incubo della crisi ecologica rappresentato dal disastro di Cernobyl –, La ferocia è talmente intrisa di contemporaneità che non fa più alcuna concessione alla cronaca del tempo. Con questo romanzo Lagioia sembra aver abbandonato definitivamente le poetiche postmoderniste ed esserci avvicinato ad una tradizione otto-novecentesca. Del resto fin dal suo esordio letterario, Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (e non risparmiare se stessi) (Minimum Fax, 2001), nonostante il suo intento fosse quello di destrutturare la tradizione letteraria, rappresentata da Lev Tolsotj e Marcel Proust, Lagioia sente la nostalgia della forma-romanzo. Forma-romanzo che credo abbia raggiunto appieno proprio con La ferocia, libro dietro al quale non si può non scorgere la Montagna incantata e i Buddenbrook di Thomas Mann, i Fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij, ma soprattutto l’Urlo e il furore di William Faulkner, romanzo in cui tutto è impregnato di crisi e non c’è neppure bisogno di fare un accenno alla crisi economica del ‘29.
Con buona pace di chi spera in un ritorno al realismo, l’impegno di Lagioia prende altre strade, molto più interessanti perché più letterarie e dalle inaspettate soluzioni narrative. La realtà del Ventunesimo Secolo è molto più vicina ai quadri espressionisti di Otto Dix e ai versi caustici di Georg Trakl; non è un caso che in un punto del libro Michele, il vero protagonista del romanzo, fa un omaggio a Trakl, uno dei poeti più apprezzati da Lagioia. In particolare parla dei suoi corvi dietro ai quali, senza fare alcuna concessione alla cronaca del tempo, c’è la prima guerra mondiale, così come dietro il crollo della famiglia Salvemini si trova la crisi barbara e brutale che gli anni Dieci hanno regalato all’umanità:
Lui, ad Avellino, seduto su una pila di vecchi elenchi telefonici, curvo sulla macchina da scrivere, uno stanzino dove la luce batte simile al sole sulle piastrelle di certi cessi pubblici, tac tac tac tac, se il poeta, raccontando corvi e alberi reali, ricaviamo dai suoi versi non il sollievo per lo scampato pericolo ma il dolore di un’occasione persa, tac tac tac tac, se capissimo, prima di dimenticarlo, se cogliessimo nei versi dedicati a Grete qualcosa che è alberi e corvi e guerra insieme, più grande della guerra, più luminoso e nero del trascorrere degli anni, tac tac tac tac.
Michele, moderno principe Myskin, grazie alla sua schizofrenia che lo rende un idiota mistico, ha un rapporto inattuale e strabico con la realtà ed ha la stessa marginalità che possedevano il ghost-writer di Occidente per principianti e l’adolescente io-narrante di Riportando tutto a casa. È proprio grazie a questa subalternità che Michele può essere definito contemporaneo, ossia colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Quindi contemporaneo è proprio colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente. Parafrasando Franz Kafka, si può affermare che Michele è contemporaneo perché si assume potentemente il negativo del proprio tempo. In questo modo il protagonista de La ferocia percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda in profondità e non cessa di interpellarlo, diventando un qualcosa che si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Per percepire ciò Michele deve sdoppiarsi. Questo sdoppiamento avviene in un punto preciso del romanzo: Michele è ancora piccolo e assiste passivamente al crollo di un muro della sua scuola. Come un ectoplasma, esce dalla scuola e accostandosi alla maestra le dice che ha visto una mano venire fuori dalle macerie, in realtà non c’è nessuno sotto le macerie, ma Michele, in questo suo sdoppiamento, vede se stesso sotto il crollo del muro, chiara metafora che rende esplicito il fatto che le colpe del padre ricadranno anche sul figlio.
Ecco il terzo motivo per cui Lagioia dovrebbe vincere lo Strega: questo libro è intriso di tragedia greca. Ribaltando la tragedia sofoclea, Michele è una moderna Antigone che tenta di riportare dentro le mura della polis Clara, moderna Polinice, perché sa che è il corpo di sua sorella, nella sua vulnerabilità e creaturalità, che deciderà le sorti della sua famiglia. La ferocia si avvicina all’idea greca del tragico: i protagonisti vivono e si muovono nell’isolamento, si misurano da soli con il proprio destino. Anche quando creano dei rapporti interpersonali, vivono fino in fondo il loro particolare fato. Quello che Lagioia ci vuole dire è attraente e nello stesso tempo terrificante: tutto è perduto, tutto è tragedia e la stessa natura si sta ribellando a questo stato di cose e decide di morire:
L’assistente capo del Corpo forestale si fece avanti. Vide l’acqua salirgli alle caviglie, poi fino alle cosce. Si muoveva con lentezza. Sentiva la melma sotto la suola degli stivali. Iris e ranuncoli galleggiavano intorno. Riemerse dall’altra parte zuppo. Fango e fogliame. Superò un cespuglio di sagittarie. Si arrestò. Il grande corpo rosa si contorceva nell’acquitrino. Dunque era successo. Un fenicottero precipitato in volo. I movimenti dell’uccello erano convulsi, disperati. Ogni tanto il becco si apriva, e dall’estremità ricurva sgusciava una grossa lingua bianca e ruvida. L’assistente capo si sentì stretto da un sentimento di pietà. Fece due passi avanti. A quel punto il fenicottero sollevò il collo. Accecato da ciò che lo stava divorando, provò a scagliarsi contro l’intruso. Strisciò nel fango, e benché non fosse un predatore sembrò in procinto di ribellarsi alla propria natura. L’uomo era paralizzato. Il fenicottero mandò un profondo verso rauco che mai nessun etologo aveva registrato. Ricadde nel terreno umido e morì.
Con una lingua al limite della perfezione Lagioia dà il senso di come tutto sia ormai morte. Così siamo arrivati al quarto motivo per cui lo scrittore barese dovrebbe vincere lo Strega: il tema della lingua. Ha perfettamente ragione Filippo La Porta quando scrive che la frase di Lagioia ha una perfezione estenuata, è così “scritta” da non far trasparire nulla. In effetti il linguaggio di Lagioia è perfetto e talmente pieno nella sua complessità che non dà margini di manovra; la lingua di Lagioia è sempre in lotta e in antitesi con il linguaggio del potere. Mentre il secondo punta alla persuasione tramite slogan – è, per intenderci, il linguaggio di Vittorio Salvemini – il primo mira a una qualche verità attraverso dubbi, quesiti, ambiguità – la lingua di Michele. Così, secondo lo scrittore barese, per restituire la realtà, la letteratura dovrebbe operare una torsione linguistica su se stessa, dovrebbe modificarsi con i suoi propri strumenti per rendersi letterariamente efficace.
Lo stile di Lagioia riprende una tradizione letteraria italiana minoritaria, quella boccacciana, ossia una tradizione duttile e materica meno adatta agli strumenti del potere. Credo però che il modello di Lagioia vada ricercato anche altrove, in un autore che ha descritto in modo magistrale il Male del nostro secolo appena iniziato: il cileno Roberto Bolaño, uno scrittore che ha superato il dibattito tra postmodernismo e nuovo realismo per indicare una strada diversa e più originale. Bolaño, così come Lagioia, riesce a raccontare la complessità contemporanea e a restituire umanità ai propri personaggi attraverso uno stile che riprende il modernismo e si discosta dalle sperimentazioni avanguardistiche.
I motivi per cui dovrebbe vincere Lagioia sarebbero ancora tanti, ma credo, anzi spero, di avervi convinto con quelli che ho provato, in modo disordinato, a proporre. Mi auguro vivamente che non si perda quest’occasione per far vincere un autore davvero bravo, che forse non avrà scritto il Grande Romanzo Contemporaneo Italiano – di cui in realtà nessuno sente la mancanza – ma che sicuramente rappresenta in modo perfetto quella generazione di scrittori orfana di veri padri letterari, a cui è mancato il passaggio del testimone e che con difficoltà si è dovuta creare una propria tradizione. I pronostici sono fatti per essere ribaltati e molto probabilmente saliranno sul palco o Mauro Covacich o Elena Ferrante (o chi per lei, forse Domenico Starnone?), ma almeno fino a giovedì lasciatemi accarezzare dalla labile immagine di questo tenace ragazzo barese con in mano la bottiglia dello Strega e un bel sorriso dietro i suoi occhiali con montatura nera.