Argéman, l’ultima raccolta di Fabio Pusterla, esce per i tipi di Marcos y Marcos nel 2014. A un veloce sguardo il libro ripresenta le caratteristiche a cui l’autore ci aveva abituato con Corpo stellare: il gran numero di testi, la tendenza all’aggregazione poematica, un animale in copertina (questa volta una libellula stilizzata).
Il titolo ritorna in un testo eponimo ed è spiegato così nella corposa Nota dell’autore: «termine dialettale di origine misteriosa. Indica le lingue di neve o di ghiaccio che restano perennemente in certi anfratti di montagna, spesso al di sotto di una quasi impraticabile bocchetta; anche, una valanga e i suoi resti, appunto.» Ma “argeman” è anche un fiore purpureo, una specie di “ginestra” desertica, e anche un villaggio palestinese sulle alture della valle del Giordano.
Pusterla pratica, per via omonimica, una specie di tout se tient legato alla visione del mondo coltivata lungo le sue raccolte. Se non si proponesse in modo laico e decisamente antimetafisico, potremmo dire che l’autore verifica i suoi dogmi: la tenace e improbabile resistenza della vita, l’amore per le creature marginali, la vena civile, il naturalismo etico, la pedagogia del dubbio.
La prima caratteristica notevole del libro è la sua fluvialità. Un carattere di per sé neutro, ma che nel caso di Argéman ha qualcosa di lagunare, si disperde in una miriade di vene, comporta un disorientamento dovuto non tanto alle variazioni quanto all’insistenza del tema. L’ispirazione-torrente di Pusterla cola in mille diverticoli, mantenendo tuttavia una specie di sotterranea costanza. Un’alchimia tematico-formale che si rintraccia già nel testo di apertura: appena dopo la soppressione per frana del «primo treno verso nord», ne parte subito un altro, «su identica | tratta. Motivo: sarebbe | un troppo grave errore il disperare» (Annuncio ai viaggiatori, p. 11). Citando poi su e giù per la raccolta, abbiamo «La forza che mi muove è tutta qui: | io so resistere fitta nel terreno | più arido e più avverso» (Mandragora officinalis, III, p. 98), la trottola che si «osserva resistere, avvitarsi | testarda in una danza su di sé | proprio quando sembrava piegarsi sul suo asse» (Trottolino, p. 122); «Vengono vite che insistono, mani | miti a proteggere l’esile luce, fiammelle | sempre in pericolo, sempre sul punto di cedere eppure | vive, e lucenti, che vanno, sorrisi.» (Regole per il custode della piccola porta, IV, p. 82). Muovendosi tra temi e registri diversi, questi testi si trasformano in numerose anguille montaliane, che attestano di continuo la moralità “biologica” di chi resiste e si ostina oltre ogni evidenza. Le anguille risalgono «di capello in capello» le vene più diverse: il pezzo di cronaca o d’occasione, quello più fantasioso-riflessivo, la veduta paesistica, lo “studio” animale, l’istantanea sociologica. Ma ogni «macigno» è sul punto di fendersi grazie alla speranza ostinata dell’anguilla…
Un iper-tema della poesia di Pusterla, magistralmente sviluppato e trasformato altrove (nel raffinato remake L’anguilla del Reno, in Drosofile o all’interno di Corpo stellare) ma che qui rischia di essere proposto con un po’ troppa foga. È vero che questa stessa insistenza potrebbe essere altamente mimetica: l’«esile luce» è davvero l’ultimo strumento a cui aggrapparsi, e di conseguenza lo stile si fa carico di questa logorante scarsità di mezzi. Tuttavia, da qualunque lato lo si intenda, il miracolo-maledizione dell’anguilla rischia di svanire, di consumarsi nella sua continua enunciazione.
Un’altra costante significativa è – come già anticipato – la cospicua vena civile, che pervade tutto il libro e si concentra in due poemetti collocati verso la fine, Amaranthus palmeri e La terra di lavoro (dedicati rispettivamente alla Monsanto, multinazionale leader del biotech già fornitore della Coca-Cola, e alle pietose condizioni eco-sociali della Campania). Pusterla si dimostra coraggioso nell’accogliere ingenti e diversificati strati di materiali “prosastici”: così gli insulti ricevuti possono comporre un intero poema (Rappresentazioni del signor nessuno), e alcuni testi sono ispirati a fatti di cronaca o all’aneddotica personale (ad esempio quelli relativi all’esperienza dell’insegnamento, come Fili de le pute o A un insegnante cattiva). A prescindere dal valore letterario, che va verificato nel merito, chi pensa che simili lavori non rientrino nel dominio della poesia si rifà a una visione davvero antiquata del genere.
È più che lodevole dedicare un poema-denuncia ai crimini secolari della Monsanto (dall’agente Orange usato nel Vietnam e gli altri letali defolianti all’abuso del transgenico). Ma la patina lirico-pedagogica rischia di diluire lo sdegno, ne dolcifica l’amaro, minimizza il rischio grazie ai “chiodi fissi” della poetica.
Al libro va il merito di una transitività pressoché assoluta: Pusterla fa una poesia completamente comunicativa, gioca a carte scoperte. Questa apertura si lega alla serietà “politica” con cui il poeta intende il suo mandato. Argéman paga la sua chiarezza “democratica” scivolando in una specie di coazione pedagogica. Fin dalle microstrutture i testi riproducono le movenze di un continuo spiegare: dubitazioni, interrogative e frequenti supposizioni (si noti l’uso continuo del “forse”) conferiscono allo stile un tono maieutico e quasi didattico. L’interrogativa – più che ricorrente nello stile di Pusterla – sembra essere l’indice di una posizione gnoseologica “debole”, la cautela enunciativa di chi non ha la verità in tasca (e nella penna). Ma l’insistenza di questo stilema ne minaccia la freschezza, generando un effetto “rassicurante” e leggermente paterno.
In generale, Argéman sembra rendere meglio nella misura breve, quando tutte le meccaniche stilistiche e ideologiche di Pusterla sono condensate in piccoli spazi, in versi in cui spicca il suo talento di esperto melodista. Come in certe zone di Mandragora officinalis, o nelle strofette digradanti di Argéman:
Gli strati, privi di logica, ordine. Ghiaccio
su fuoco rappreso, terriccio, poi quarzi, pietraie.
Epoche, cosmogonie, perfezioni precarie. Nel mucchio,
anche loro. Slogate.
(p. 95)
Tra le varie suite spicca Ospedale dei giocattoli, dedicata a una virtuosa iniziativa luganese in cui vecchi giocattoli vengono riparati dai disoccupati e poi offerti a giovani bisognosi. Specialmente il secondo testo, Carillon, colpisce per la felice invenzione figurale e il passo acuto e dolce («Poi la canzone si spegne si annoda | su se stessa, il dentino d’ottone si smangia, | e infine il rullo diventa un compressore, | il cilindro una bomba che esplode e che nega ogni | gioia», p. 159).
Come in molti altri suoi testi, il poeta affida alla natura e ai suoi “agenti” – animali, paesaggi – un valore di riscatto etico-conoscitivo. La natura è concepita tradizionalmente come madre-matrigna, e il paradosso è espresso dalla sua frequente connotazione antitetica («Ciò che risplende e acceca. L’onda d’urto dei mondi», Argéman, p. 95; «Il tuo mucchietto di lucciole, il tuo mucchietto di cenere. || Pesali. Fiore e dirupo.» Fiore, dirupo, p. 132). Ma alla lunga l’antitesi lascia un senso di vuoto, come se a un certo punto si trasformasse in una semplificazione, in una soluzione “confusiva” e di comodo. Inoltre, la contrapposizione tra la natura dolce e tremenda (ma in fondo buona), e l’uomo, così implicato nelle sue varie miserie, ha in sé qualche pericolo stilistico e ideologico. Nei testi di Argéman contempliamo gli agenti della natura come rappresentanti della purezza, come detentori di un’origine buona a cui guardare, sebbene comprensiva del caos, del divenire, del moto perpetuo di ogni ciclo creaturale. Marcando però solo lo scarto, si rischia di assolvere la natura e colpevolizzare l’uomo, di pensarlo come un figliol prodigo pronto a tornare a casa quando, consumata ogni ricchezza, rimane da solo col suo principio-speranza.
Dall’altro lato, la natura rischia di apparire, anche stilisticamente, un po’ troppo oleografica: una natura-talismano da cui sono rimossi gli orrori, di cui si scordano le contaminazioni a doppio senso con l’umano. La natura non è soltanto una libellula, una «signora» elegante che «stremata estenuata» ci spiega la ricetta della social catena («el compartir | es la ley del camino, non altro. || Spezza il pane, dividilo.» Libellula, VI, p. 209). Ma è anche un “gorgo” che ingoia e non risponde, un’ordalia, una guerra che divora e produce solitudini. E questo genere di amarezze ci suscitano, per contrasto, alcuni tra i più compatti e ispirati versi di Argéman:
Congedo
Libellula gentile
vola
fatti veloce
lieve traversa i nembi
di chi più si dispera
e non ha voce,
portati svelta in vista,
azzurra chiama gli occhi
e gli stupori.
Giù nelle vite perse
nei solchi profondissimi di nero
tessi la tua conocchia luminosa,
deponi lo smeraldo di un’ipotesi,
di un’ala.
Dopo, tocca ogni cosa
sillaba bene il suo nome
e falla vera.
(p. 213)
Fabio Pusterla, Argéman, Milano, Marcos y Marcos, 2014, pp. 228, € 16.
* La copia recensita di Argéman ci è stata gentilmente resa disponibile dall’editore Marcos y Marcos.