In controtendenza con un’immagine di Giacomo Leopardi che è stata abbondantemente rimasticata fino a rinchiudere il poeta di Recanati in un triste recinto – atto più consono a domare una belva feroce che a capire e insegnare un poeta –, Da un luogo alto, la monografia di Raoul Bruni pubblicata dalla casa editrice Le Lettere alla fine del 2014, restituisce il respiro a una creatura che, prima di essere stata imbalsamata, amava molto gli «interminati spazi» e viveva anche di emozioni forti, al di là di ogni stereotipizzazione da manuale. Da un luogo alto è formato – ce lo spiega l’autore stesso nella premessa – da capitoli che riprendono in tutto o in parte precedenti pubblicazioni di Bruni: si passa dall’ispirazione alla filosofia morale nelle Operette, dagli influssi della tragedia antica alla forma del diario nello Zibaldone, dal confronto con Emerson all’immagine dell’Italia nei Paralipomeni della Batracomiomachia, per finire con il leopardismo di Giuseppe Rensi e di Papini.
La ricostruzione operata dal critico scardina con paradossale dolce violenza alcuni preconcetti acquisiti, non tanto opponendosi dichiaratamente a questa o a quella teoria, ma puntando su aspetti che i più avevano trascurato. Da un luogo alto potrebbe essere preso così come valido punto di partenza per inaugurare una stagione di riscoperta felice del vero Giacomo Leopardi, riscoperta a cui l’Italia oggi è chiamata, se non vuole mantenere intrappolato lo spirito libero di un uomo che sapeva dialogare con l’eterno e che ormai non ha senso tenere in trappola, visto che gli spiriti liberi spaventano molto più da vivi che da morti, e più il tempo passa meno spaventano. La monografia di Raoul Bruni, fra l’altro, esce a pochi mesi di distanza da un dibattito che ha coinvolto intellettuali e non proprio su questo personaggio, grazie a un film che, se non altro, ha avuto il merito di ribattezzare il nostro poeta con un epiteto brillante: Il giovane favoloso.
Il primo capitolo del volume si intitola Poesia e ispirazione in Leopardi: il nucleo è l’entusiasmo di Giacomo Leopardi e riferimento costante ne è lo Zibaldone. Messi a riposare nell’armadio in naftalina i tre tipi di pessimismo, diventiamo appagati spettatori del trionfo dell’entusiasmòs, che altro non è se non la scintilla divina che rapisce i poeti nell’atto della creazione, di cui anche i lettori per riflesso possono godere. Nello Zibaldone Leopardi la descrisse approfonditamente, parlando di «frenesia», di «vivissimo impulso», di «entusiasmo», di «armonia universale», di «elevazione dell’anima» e addirittura di «Dio in noi». Che a sottolineare questo aspetto gioioso del poeta passato alla storia come un depresso ante litteram sia proprio il critico Raoul Bruni non stupisce. Bruni, infatti, ha dedicato al topos dell’entusiasmòs il suo dottorato di ricerca in Italianistica all’università di Padova, con una tesi pubblicata da Aragno nel 2011: Il divino entusiasmo dei poeti. Collegando quindi l’interesse per questo motivo letterario con lo studio particolare del poeta recanatese, l’italianista ha curato poi la voce Entusiasmo del volume Per un lessico leopardiano, a cura di Novella Bellucci e Franco d’Intino, edito da Palombi nel 2011. Calcare la mano su sentimenti euforici restituisce di Leopardi un’immagine più sfaccettata di quanto si fosse disposti ad ammettere, forse difficile da digerire però autentica, profonda, non stilizzata. Anche se il critico non usa mai, tra queste pagine, il termine clinico “bipolare”, il ritratto che emerge di Leopardi porta a credere seriamente che il favoloso giovane di Recanati non fosse soltanto un temperamento malinconico, ma che oscillasse da un polo all’altro, tra l’ipomania e la depressione.
In una lettera a Pietro Giordani (30 aprile 1817), Leopardi stesso dipinse una smania di scrivere così forte da avere l’impressione di sentire «quasi ingigantire l’animo in tutte le sue parti». Tra il disturbo bipolare e il genio artistico ci può essere un legame molto forte. Se le sensazioni che Raoul Bruni ha attentamente raccolto circa il misticismo e la probabile euforia del poeta sono utili ad analizzare l’ispirazione leopardiana in tutte le sue parti, come dentro a un caleidoscopio psichedelico che rivela la sostanza stessa di quell’ispirazione, all’orecchio di uno psichiatra risuonerebbero invece come sintomi inequivocabili: mania, ipomania, depressione. Quindi disturbo bipolare. Pietro Citati, autore della monografia Leopardi, nel 2010 lo disse chiaramente: Giacomo Leopardi era affetto da disturbo bipolare. Lo psichiatra Matteo Pacini catalogò il poeta come bipolare nel 2011, citando proprio L’Infinito, che in effetti, stando al nocciolo dell’esperienza descritta, restituisce al lettore uno sconfinamento che va ben oltre le normali percezioni di tutti i giorni e che culmina con una specie di «naufragio dell’anima», con un ricongiungimento con l’infinito appunto, che se può essere pensato o immaginato da tanti (almeno vagamente), in realtà può essere sperimentato solo da due o tre categorie di persone al massimo: i mistici, i bipolari e chi fa uso di certe sostanze (ma per chi non gode delle consolazioni della religione la categoria del mistico scompare).
Al critico Raoul Bruni l’etichetta patologica non interessa: è l’analisi letteraria che gli preme. Il suo realizzato svecchiamento della figura-luogo comune del poeta di Recanati, chino sui libri e capace solo di leggere e studiare, poggia anche sullo smantellamento di un altro pregiudizio: Leopardi non fu un poeta eccezionale soltanto perché aveva letto moltissimi libri. Le riflessioni zibaldoniane insistevano sulla necessità dell’esistenza del “genio” per creare, la genialità era necessaria contro ogni pedanteria intellettualistica. Oggi gli aspiranti scrittori se lo chiedono spesso: per scrivere occorre studiare? Le scuole di scrittura fanno di questo motto il loro baluardo e illudono persone prive di genialità, promettendo facili successi: l’importante è leggere, e il resto verrà da sé. Secondo Leopardi, invece: «Non si può esser grandi se non pensando e operando contro ragione» (Zibaldone). Non fu solo lui ad affermare questo concetto rivoluzionario, eppure, ancora oggi, una risposta simile irrompe con l’aggressività di un tuono. Tutto quello che serve al poeta sono le grandi sensazioni: l’entusiasmo. E l’entusiasmo non si può imparare né comprare, perché è una scintilla divina (una malattia, una croce e delizia, un fardello da portare, alla fine).
Anche il secondo capitolo ruota intorno all’entusiasmo. Qui Raoul Bruni punta sulle lacune della critica intorno al reale motivo dell’aggettivo delle Operette morali. «Leopardi sostiene, fin dalle prime pagine dello Zibaldone, che la morale è alimentata soprattutto dalle illusioni, dall’immaginazione, dall’entusiasmo, in una parola, dalle passioni»: ancora una volta è la passionalità del poeta, la sua capacità di provare emozioni estreme la risposta, la leva per distinguersi da un panorama annichilente, quell’Italia povera di etica che tanto assomiglia alla nostra. La poesia e la prosa in grado di smuovere l’immaginazione erano, per Giacomo Leopardi, argini validi all’assenza di moralità. Il critico nota in questo atteggiamento un’anticipazione della tesi del premio Nobel Iosif Brodskij («l’estetica è la madre dell’etica»).
Il terzo capitolo ricollega il poeta di Recanati con il teatro dell’antica Grecia. Se Leopardi, dopo una breve esperienza da drammaturgo, fu molto scettico verso il teatro dei suoi contemporanei, «dovette subire piuttosto precocemente la fascinazione della tragedia greca». In particolare fu sedotto dal coro, dalla sua funzione di rappresentare la nazione, dal suo compito morale e dalla sua «potenza poetica». Il coro, nucleo della tragedia già in Aristotele, e poi di nuovo in Nietzsche, doveva essere recuperato perché in esso convergevano alla meraviglia poesia e filosofia.
Subito dopo, Raoul Bruni ci spiega le sue riflessioni sulla scrittura diaristica di Leopardi (Il diario come forma filosofica: esperienza e scrittura nello Zibaldone). L’elemento diaristico costituiva una novità per il genere “zibaldone”, prima regno del caos: «Le date scandiscono infatti le occasioni di un pensiero in continuo movimento», scrive il critico, riprendendo la felice formula di “pensiero in movimento” da Solmi. Riferimenti immancabili in questo contesto sono gli studi sull’argomento diario di Blanchot e di Lejeune.
Convincente poi il parallelo tra Leopardi ed Emerson “nel segno della circolarità”, dove però le differenze tra i due autori sono ben sottolineate (apertura a continue possibilità in Emerson, chiusura in un circuito di produzione e distruzione in Leopardi). Nel capitolo che chiude la prima parte, Bruni restituisce un’interpretazione più ampia dei Paralipomeni della Batracomiomachia: il regno di Topaia non è soltanto il regno di Napoli, ma «è in realtà un’immagine esemplare dell’intera nazione». La satira di Leopardi colpì i carbonari e colpì gli stranieri che odiavano l’Italia, invidiosi del suo legame con il mondo classico, un mondo ormai lontanissimo, perché il poeta «è ben consapevole che nessuna epoca può tornare tale e quale nella storia».
Da un luogo alto si chiude con il leopardismo del filosofo Giuseppe Rensi e con il rapporto fraterno, ma nascosto, tra il fondatore della Voce Giovanni Papini e il «poeta-pensatore recanatese».
Tratto costante di questa monografia non è solo l’argomentazione, indispensabile in un saggio scientifico e qui sempre puntuale, ma anche lo stile elegante, il tocco leggero e la grande ricchezza lessicale. Tutti aspetti che rendono il libro fruibile non solo per i leopardisti, ma per chiunque sia interessato con sincerità al pensiero di uno tra i più grandi poeti italiani di tutti i tempi. Raoul Bruni ha portato avanti con determinazione la ricerca su Giacomo Leopardi, analizzando nuovi aspetti della sua eredità umana e intellettuale.