Citando una frase di Kafka, nel 1980 Grazia Cherchi afferma, in una delle sue note critiche, che bisognerebbe leggere soltanto i libri in grado di svegliarci con un pugno nel cranio. La luce è più antica dell’amore, di Ricardo Menéndez Salmón (Marcos y Marcos, trad. di Claudia Tarolo) fa parte di questa categoria.
L’autore spagnolo ricrea le biografie di tre pittori, Adriano de Robertis, Vsevolod Semiasin e Mark Rothko. I primi due sono inventati – De Robertis e Semiasin: il primo visse in epoca rinascimentale; il secondo fu attivo in Russia dagli anni Quaranta del secolo scorso – o meglio, sognati da Bocanegra, il quarto protagonista del libro, che è un immaginario premio Nobel per la letteratura dell’anno 2040.
Durante la stesura di un libro che ha lo stesso titolo di quello che il lettore ha tra le mani, le vicende esistenziali di Bocanegra si intrecciano alle storie dei tre pittori, facendo in questo modo della sensibilità letteraria un grimaldello per l’accesso alla comprensione dell’esperienza artistica, attraverso l’elaborazione di una fenomenologia del (doloroso) legame tra l’artista e la sua opera.
Mentre i fili della narrazione si imbrogliano attraverso ingegnose coincidenze cronologiche tra le vite di De Robertis, Semiasin e Rothko, la rappresentazione del processo di avvicinamento alla scrittura da parte del giovane Bocanegra, che è «solo con se stesso, come i pionieri», perché «nulla in lui porta a pensare che sia un eletto» (p. 47), prende la forma di un viaggio. La via da percorrere è duplice: tanto la graduale conquista di un punto di vista autoriale, vale a dire unico, sul mondo, quanto la progressiva acquisizione della consapevolezza – cara anche a un celeberrimo autore argentino – che «l’uomo è un copista, non un demiurgo; un amanuense, non un artista» (p. 46), pertanto più che il compiacimento del padre, è bene che si abitui a provare l’imbarazzo dell’intruso. Uno stato, quest’ultimo, che accomuna Bocanegra e De Robertis, perché entrambi hanno vissuto il contatto stretto con una delle forme tangibili del male, sempre ignobilmente impudica, dunque imbarazzante: l’agonia. Del figlio per il pittore e della moglie per lo scrittore.
Entrambi interpellano l’oscurità nelle crepe della coscienza moribonda e, tendendo l’orecchio verso il suo sfiatare, ci finiscono dentro. Lì, in quell’interregno dai confini sfumati dove ha deciso di albergare anche Rothko durante gli ultimi anni della sua vita, prima del suicidio, la prospettiva sulla creazione artistica fa un salto di qualità legittimo: essa non è che un succedaneo annacquato della spettacolarità inclemente dell’esistenza che affida alla malattia la trasformazione della materia.
La beatitudine è privilegio solo di chi ammira e contempla il «precipitato di tutta l’angoscia» (p. 79) incorporata nell’elaborazione artistica, il dolore psichico trasformato in luce, di cui le pagine di Menéndez Salmón sono un acuto e vibrante compendio.
* La copia recensita di La luce è più antica dell’amore ci è stata gentilmente resa disponibile dall’editore Marcos y Marcos.
Immagine @Mark Rothko