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Born to run: la lunga corsa del Boss

Quarant’anni. A pensarci sono davvero quarant’anni… Il 25 agosto di quarant’anni fa un giovanotto del New Jersey, cognome olandese e sangue italiano, raccoglie otto canzoni e pubblica un album dal titolo accattivante. Born to run, si chiama; e lui, non ancora “the Boss”, è soltanto Bruce Springsteen. Un ragazzo di 26 anni, magrissimo, riformato alla visita di leva e scampato al Vietnam; un tipo sveglio, al terzo disco con la major CBS, un menestrello d’America sulla scia di Bob Dylan e un fan sfegatato di Elvis Presley: uno che il servizio d’ordine ha beccato a scorrazzare nei giardini di Graceland, senza permesso, a caccia di un autografo del “re”.

La provincia, quella inquieta e desolata di Asbury Park, è il suo mondo; la musica è la sua passione, il rock la sua vocazione. Del rock americano riscopre le radici: il blues, il country, il folk; l’essenzialità e il furore; e ci aggiunge il guizzo dell’elettricità, una ritmica potente, un pianoforte terso a tessere melodie, un sassofono sfavillante, dal timbro inconfondibile. Il giovanotto smilzo dirige l’orchestra, eseguono i musicisti della E-street band, fedeli compagni di viaggio dai tempi della gavetta.

Al terzo tentativo, Born to run è l’album della maturità: la vena creativa di Bruce si sposa alla perfezione col suo spirito rock, la voce graffia al punto giusto, gli arrangiamenti si tengono in equilibrio tra semplicità e raffinatezza. Un successo istantaneo: poche settimane dopo il ragazzo di Asbury Park si ritrova sulla copertina di “Time” indicato come “il futuro del rock’n’roll”. Cose all’americana, si capisce: un’altra storia di ascesa mirabolante, l’ennesimo sogno “proletario” che diventa realtà. E però Born to run ha tutti i crismi del vero capolavoro: la musica elevata a inno, il fascino e l’evocazione della poesia, un diluvio di sincerità ed energia. Otto pezzi per un viaggio musicale che non risparmia niente all’ascoltatore, che copre tutta la gamma dei sentimenti, acceca e stordisce a tratti, racconta e accompagna. E alla fine, proprio all’ultimo respiro, regala uno dei vertici assoluti della produzione di Springsteen.

Jungleland. Una suite pop – dieci minuti dieci – che fin dal titolo annuncia la sua ambizione di manifesto. Che in dieci minuti di languori, strappi e svolte, suggestioni poetiche e sonore, condensa tutti i principali motivi dell’ispirazione di Bruce. La frenesia di correre – insieme lanciarsi e scappare – la musica come riscatto, il rock che miscela malinconia e furore, l’idea della poesia come sforzo di catturare il lampo della realtà mentre accade, come missione, “apostolato civile”, testimonianza dello strazio quotidiano, della bellezza che soccombe allo strazio e dallo strazio rinasce.

 

I rangers facevano una rimpatriata ad Harlem nel cuore della notte
e il Ratto Magico guidava la sua macchina tirata a lucido oltre i confini dello stato del New Jersey.
Una ragazza a piedi nudi siede sul tettuccio di una Dodge
beve birra calda nella soffice pioggia d’estate.
Il Ratto piomba in città, s’arrotola i pantaloni
insieme fanno un tuffo nel romanzo e spariscono sulla Flamingo Lane.
 

Ora, il Massimo Tutore della Legge si lancia sulle tracce del Ratto e della donna a piedi nudi
e i ragazzi tutto intorno sembrano ombre sempre quiete, in attesa.
Dalle chiese alle galere è silenzio in tutto il mondo
mentre noi ci mettiamo in posizione
quaggiù a Jungleland.
 

La banda dei pipistrelli si è riunita e ha preso un appuntamento per la notte
si incontreranno sotto l’insegna gigante della Exxon che sfavilla di luce artificiale.
Amico, c’è un’opera fuori sul Turnpike
c’è un balletto che si combatte nei vicoli
finché lo sbirro del posto, Cherry Tops, squarcia questa notte santa.

La strada è viva mentre si pagano debiti segreti
contatti appena presi svaniscono inosservati
i ragazzi fanno brillare le chitarre come fossero lame che si incrociano intorno al giradischi,
il fuggiasco e l’affamato esplodono dentro le rock band
che si scontrano per strada a mani nude quaggiù a Jungleland.

 

A condire il racconto, fatto a voce ferma e roca, sono un pianoforte quasi classico, con un trillo da esercizio di scuola e una melodia avvincente, un tempo erratico, una chitarra sporca e incisiva, un sax che ha tutto, che è tutto, dal soffio di fiato al battito di cuore allo strazio di tendini e muscoli.

 

Nel parcheggio orde di visionari indossano il vestito dell’ultimo rancore,
dentro le ragazze dei bassifondi danzano al ritmo dei dischi che suona un DJ,
amanti solitari si struggono negli angoli bui
disperati mentre la notte avanza: uno sguardo, un sospiro e sono spariti.

Sotto la città due cuori battono,
macchine animate percorrono una notte così tenera,
nel chiuso di una stanza da letto, tra sospiri di dolce rifiuto e poi di resa.
Nei tunnel dei quartieri alti il Ratto è ucciso dal suo stesso sogno:
i colpi rimbombano, l’eco si sparge nel buio dei vicoli,
nessuno vede l’ambulanza che sfreccia
o la ragazza mentre spegne le luci della stanza.

Fuori la strada brucia in un valzer mortale
della carne con la fantasia e i poeti quaggiù
non scrivono niente, restano solo a guardare mentre tutto accade
e nel guizzo della notte vivono il loro attimo di gloria:
provano a fare bella figura e alla fine si ritirano
feriti, neanche morti
stanotte a Jungleland.

 

È, quella di Springsteen, una poesia personale e profonda, ispirata, concreta, perfino dimessa, una poesia “operaia”: viti e bulloni, giunture, lampi di luce sui bordi, negli spigoli. È una poesia che resiste per lo più alle seduzioni della musica commerciale, una poesia che non lancia slogan (salvo strumentalizzazioni), non accarezza ideologie, non propone apologhi; che al contrario denuda “gente” e mostra “vite”. Che racconta storie.

Una storia, in questo consiste anche Jungleland. Un intreccio di storie, meglio, una recita corale, una visione d’insieme, intricata e struggente, in cui la giungla d’asfalto diventa sinfonia di ruggiti e sospiri, di cuori che rombano e motori con l’anima.  Se Thunder road e la title-track Born to run rimandano il ringhio di una provincia claustrofobica, strangolata dal suo stesso orizzonte, Jungleland disegna – insieme alla rabbiosa Backstreets e alla scanzonata Tenth Avenue freeze-out – un affresco emblematico e quasi eterno, crudo e al tempo stesso delicato, dell’America metropolitana. Ne tratteggia l’enormità, lo spazio inquieto, la facciata sfavillante e poi si addentra nelle stanze segrete, nelle vite nascoste, si aggira lungo sentieri invisibili e infine si posa, trova il suo posto tra le speranze spazzate ai margini e i riscatti fermi sul ciglio e tutte le incredibili evoluzioni di eroi senza gloria.

Non basta. Per spiegare il successo di Born to run e del suo brano di punta c’è forse bisogno di fare appello a una dimensione più elementare. Pescano, la canzone e tutto il disco, qualcosa nel profondo dell’immaginario collettivo; la nota del diapason: una suggestione essenziale, un sentimento assoluto di inquietudine ed “entusiasmo” che resiste al tempo perché va oltre il tempo. Quarant’anni, a queste latitudini, sono un battito di ciglia.