Tra i poeti esorditi nell’ultimo quindicennio, Azzurra D’Agostino offre – a mio giudizio – una delle voci più pulite. Vorrei qui commentare alcune poesie scelte da D’aria sottile (Transeuropa, Massa, 2011), la sua terza e penultima raccolta.
Falene, un testo della prima sezione, recita:
Questo non è un posto in cui stare
questo è un posto a cui ritornare
mi dico mentre sono qui
fuori i grilli fanno cadere
dagli alberi il loro canto stropicciato
e mi chiedo se è lo stesso per sempre
come pare o se invece prima o poi
tutto sarà muto nel rombo dei motori
e noi cosa saremo. Come vorrei avere
una lingua migliore per dire il tempo passa
le falene consumano al lume breve
di questa notte come sempre come mai.
La limpidezza e la musicalità di questi versi sono il frutto di un’attenta composizione. Il primo periodo si estende su nove versi, i verbi principali («mi dico», «e mi chiedo») aprono il terzo e il sesto; il secondo periodo (vv. 9-12) è in forma ottativa. Tutta la poesia è attraversata da alcuni deittici: «qui» al v. 3, e «questo/a» ai vv. 1, 2, 12 (in apertura del primo e dell’ultimo verso). La lingua è tesa, corre senza rallentamenti di ritmo; l’aggettivazione è scarna ma misurata: il canto dei grilli «stropicciato», una lingua «migliore», il lume «breve». L’anafora ai vv. 1-2, rafforzata dalla rima grammaticale, si concentra su un posizionamento spaziale, mentre la poesia poi dilata una riflessione sul tempo (v. 6: «per sempre»; v. 7: «prima o poi»; v. 10: «il tempo passa»; v. 12: «questa notte come sempre come mai»). La tranquillità della natura, cui i grilli innalzano in sottofondo un «canto», è contrastata dall’onomatopea allitterante «nel rombo dei motori». La pace del luogo permette alla poetessa di parlare tra sé e sé indisturbata e di sviluppare una propria meditazione, che si allargherà a comprendere un «noi» (v. 9), sul cui futuro grava l’ombra dell’incertezza. Il desiderio finale della poetessa però non è quello di durare o di conoscere, ma di «avere / una lingua migliore»: un mezzo più trasparente per dire cosa quel posto significhi per lei.
La seconda sezione raccoglie testi perlopiù in dialetto, di cui l’ultimo si intitola Giardino delle rose ed è dedicato a Andrea:
Tun m è mâi portà un fiôr
ma tótt un żardên
brîsa na canzôn dl’orchèstra
ma la musica intîra.
Mé, ai ò sôl sti dó parôl
rótt e scalcagnà.
La vida l’è bèla, al sèt?
(Non mi hai mai portato un fiore/ ma tutto un giardino/ non una canzone da
orchestra/ ma la musica intera./ Io, ho solo queste due parole/ rotte e
malmesse.// La vita è bella, lo sai?)
La semplicità di D’Agostino punta alle cose più alte. Tre strofe che progressivamente si accorciano, da quattro a due a un verso. Nella prima due frasi bilanciate e parallele inscenano un contrasto che dal particolare tende al generale (ora collettivo, ora astratto) con formazione di due iperboli: portare non un fiore ma un giardino, non una canzone ma la musica. All’azione ordinaria se ne oppone una specifica del dedicatario, al quale la poetessa ha ben poco da offrire: solo due parole, «rótt e scalcagnà» (mentre nella poesia precedente aspirava ad «avere / una lingua migliore»). Tuttavia queste due parole racchiudono un incommensurabile: l’affermazione che «la vida l’è bèla». Un dono luminoso, che ha bisogno non di orpelli, ma di poche e maneggevoli parole.
Dalla terza e ultima sezione prelevo una poesia intitolata Salmoni e dedicata a Daria, / nell’amicizia che dura:
Poter ricordare i nomi ed i posti
le liti i bagagli persino i vestiti
salire insieme come fanno i salmoni
nel fiume segreto della propria storia
E vanno così nel freddo fondale
controcorrente in coppie a fatica
a deporre in sorgente le cose migliori
uova malanni speranze tremori.
Le due quartine (dal metro irregolare) sviluppano una similitudine già anticipata dal titolo: la memoria condivisa di due amiche ricorda il viaggio controcorrente di coppie di salmoni. Il tempo trascorso riappare grazie a dettagli elencati (vv. 1-2) secondo una scelta e un ordine non casuali. Ma le parole di maggior peso si concentrano al v. 6, fra le quali, in particolare, «controcorrente» (pentasillabica, la più lunga del testo) magnetizza il senso e costituisce il perno della similitudine. L’assenza di punteggiatura e la solennità degli attacchi («Poter ricordare», «E vanno») suggeriscono un tono familiare, proprio di una confidenza a un’amica. Come negli altri testi, D’Agostino aderisce alla concretezza delle cose con una lingua trasparente e semplice, innestando la grammatica degli affetti sui luoghi a lei cari. Una via – mi sembra – feconda e salutare, che ha molto da insegnare.