Da qualche anno a questa parte, ogni volta che sento parlare di mappe, il mio pensiero va inevitabilmente a Le armi l’amore, l’opera con cui nel 1963 Emilio Tadini fece il suo esordio come romanziere. Il motivo di questa immediata torsione sta senz’altro nei miei studi: tre anni trascorsi sulle carte e sugli scritti di Tadini non passano certo senza lasciare traccia; e come segni incisi nella mia personale geografia, le parole riservate da Tadini a Carlo Pisacane, protagonista di quell’opera-mondo, si sono fissate nella memoria.
Più che lo stoico e tragico eroe risorgimentale, il Pisacane di Tadini è un eroe inerte e impotente, smarrito di fronte alla molteplicità di possibilità divergenti che gli si squadernano davanti agli occhi nel momento in cui deve fare delle scelte per portare avanti la sua azione. Organizzare la spedizione nel Regno borbonico per liberarlo dalla monarchia e consegnare i territori liberati alla futura nazione italiana si trasforma così da impresa audace in rivoluzione impossibile. Per affrontare tutti gli imprevisti e i potenziali ostacoli che i rivoluzionari incontreranno sul cammino l’unica soluzione sarebbe cercare di prevederli, paradossalmente includendoli come varianti di un grande piano universale, capace di comprendere tutte le ipotesi di realtà. Un piano che abbia anche il proprio corrispettivo grafico su carta, perché la mappa è «paesaggio in miniatura, tracciato per fissare in una serie di simboli fuori del tempo l’immagine dell’intera regione».
Cosa la sorte abbia riservato a Pisacane è noto a tutti e anche se Le armi l’amore racconta perfino i futuri impossibili, in cui l’eroe sopravvive alla propria impresa e anzi per quella riceve onori e tributi, la sua immagine resta segnata definitivamente dalla sconfitta, che è innanzitutto il fallimento della logica e della razionalità di fronte al proliferare inafferrabile della realtà. Simbolo di questa sconfitta, di questo inutile tentativo di aggiornare costantemente il progetto alle variazioni improvvise degli eventi, una mappa solcata in tutti i versi da segni neri che la rendono praticamente illeggibile.
Animato da un simile furore razionale è anche Serge Victor, il protagonista di La Mappa (Il Saggiatore), l’ultimo romanzo di Vittorio Giacopini, candidato al Premio Campiello 2015. Serge Victor è un cartografo illuminista che, all’epoca delle campagne napoleoniche, partecipa – ora effettivamente arruolato, ora invece con semplice trasporto emotivo – alle grandi imprese del Bonaparte. Sono le due facce della stessa medaglia, Victor e Napoleone, spirito speculativo l’uno e animo conquistatore l’altro, fin dai tempi dell’assedio di Tolone, anno 1793, quando i due, ancora ragazzi, si trovarono per la prima volta di fronte a una Natura che si presentava come problema da risolvere: come sfruttare le specificità del territorio per aggirare le difese britanniche? Come riprendere la città caduta in mano ai lealisti?
Il secolo dei Lumi si sta per concludere, ma riesce a ancora a irradiare le menti con il mito della ragione e così la risposta appare immediata: «Prima viene la mappa, indi l’azione». Quello che per Pisacane era un esorcismo contro una realtà spaventosa e annichilente nella sua complessità, per Victor è il simbolo del trionfo di una logica matematica, superiore perché indiscutibile: è la mente umana che dà forma alla realtà attraverso i concetti, che si trasformano poi in segni grafici sulla carta. Senza questi segni, il mondo non è altro che caos e inazione.
Tolone viene presa; la rivoluzione è salva.
Non c’è da stupirsi della vicinanza di pensiero tra due personaggi come Carlo Pisacane e Serge Victor (tenendo conto che quest’ultimo è frutto della fantasia di Giacopini): entrambi sono figli di un’epoca che lega assieme rigore illuministico e afflato risorgimentale attraverso il mito della libertà conquistata con la forza della ragione, fonte e ispiratrice di ogni azione (anche oltre ogni ragionevole dubbio). A legare i due, però, è anche un’altra rivoluzione, più vicina alle loro ossessioni, al loro eroismo millimetrico, ed è una rivoluzione cartografica, raccontata tante volte nei saggi di Franco Farinelli (a partire dall’imprescindibile Crisi della ragione cartografica): si tratta del passaggio dalla mappa come guida per l’individuo che affronta il territorio percorrendolo – le antiche carte geografiche che riproducevano anche l’uomo all’interno del territorio mappato, fornendo così la scala di misurazione e insieme un’istruzione per l’uso – alla carta come strumento obiettivo e infallibile in virtù di uno sguardo che informa il paesaggio estraniandosi dal suo caos. Uno sguardo rialzato che, «come se fosse per aria», riesce a dominare «l’asimmetria scabrosa della Natura» (proprio come fa l’odierno sguardo satellitare).
«La guerra come impresa mentale; anticipazione»: è una concezione da «cartesiano moderno» quella che spinge Serge Victor ad arruolarsi nell’esercito della rivoluzione – e poi in quello napoleonico – e a mettere la propria “ragione” al servizio della grande causa della nazione francese. Trasformato in mappa, il mondo assume le fattezze di un tavolo da gioco, di una scacchiera le cui caselle sono separate dallo spazio della riflessione e della scelta. Ogni mossa sarà l’esito della mediazione tra game e play, come diceva Celati, tra regole del gioco – dettate dalla semplice agibilità degli spazi – e capacità di interpretarle a proprio vantaggio. Come sa fare Napoleone.
La sua ascesa illumina anche la vicenda di Victor, che è uomo dell’ombra, consigliere spesso lasciato ai margini dell’azione. Tanto che, quando si tratta di conquistare la Lombardia per farne la futura Repubblica Cisalpina, a lui spetta un compito di avanguardia: stabilirsi a Mantova e intessere contatti con i (presunti) filofrancesi. Il tutto si risolve però in una lunga e noiosissima attesa, mentre fuori, per le campagne, la Storia avanza con piede pesante.
Ma ci vorrà del tempo prima che Victor si disilluda del tutto rispetto alle false lusinghe della Storia e di chi se ne fa portavoce a colpi di grancassa (una grancassa infarcita di retorica dell’azzardo e dell’orgoglio). Prima dovrà ancora subirne il fascino, perché insieme alle conquista da parte di Napoleone dell’Italia Centro-Settentrionale arriverà anche un grande incarico per lui, cartografo brillante e amico di vecchia data del còrso: La Carte générale du théâtre de la guerre en Italie et dans les Alpes.
La Mappa, finalmente. E non una qualsiasi. Un «omaggio all’Italia» e al tempo stesso «un monumento alla gloria dei conquistatori dell’Italia»: così la vuole il generale Bonaparte. E Victor mette a frutto tutti gli studi, compendia e confronta le più diverse teorie cartografiche per arrivare a concepire e realizzare una mappa nuova, «la mappa delle mappe», ovvero una mappa che dispieghi tutto il suo potere non più anticipando l’azione militare “da compiersi”, ma ritraendola nella sua stratigrafia cronologica, nel suo scorrere e alterare le geografie, i confini, gli spazi. Il progetto cresce così, nel suo laboratorio domestico, come definitivo corollario di un’impresa politico-militare unica, che non solo ha dimostrato all’Europa la grandezza della Francia, ma ha ribadito ulteriormente gli ideali della rivoluzione del 1789. Perché per Victor l’arte cartografica è legata a doppio filo alla nuova concezione dell’uomo e della società, al pensiero aperto e democratico degli “enciclopedisti”. Mappare significa infatti tracciare confini, ridurre le ambizioni dei più forti e fornire ai più deboli uno strumento che dia consapevolezza di un territorio, e con esso anche di un’identità. Il suo modello è quello della «carta-Odissea», monumento alla conoscenza che libera.
Non così la concepisce Napoleone, che dopo l’Italia volge il suo sguardo al di là del mare e punta alla conquista dell’Egitto. Napoleone è il profeta di una «carta-Iliade», incarnazione dei fantasmi totalitari che proprio l’Età dei Lumi aveva covato nel proprio seno – come un secolo di pensiero negativo e dialettica dell’Illuminismo hanno insegnato. Campoformio e il tradimento di Venezia sono la conferma di un sospetto che Victor aveva già cominciato a maturare, la manifestazione definitiva di un fantasma che aleggiava già tra le righe dell’ Encyclopédie.
I fantasmi: ecco i veri nemici di un uomo che ha affidato il proprio destino alla logica ferrea di una scienza che ambisce al dominio integrale della realtà. I fantasmi sono le credenze parareligiose; sono le presenze evocate da Zoraide, donna capace di sprofondare Victor in un languido sogno d’amore; sono quelli che si celano dietro ogni imprevisto o accidente; sono il caso e la follia. Sono dappertutto e demoliscono, a poco a poco, tutte le certezze di Victor, tanto che lui stesso finirà per ridursi a fantasma, costretto a cambiare nome e a rinunciare a tutto quello che dal suo nome avrebbe potuto essere siglato. La condanna all’anonimato sarà l’ultimo dei tanti colpi inflittigli da quel che non è altro che «l’inciampo dell’esperienza», il carattere imprevedibile e irriducibile della realtà.
Appassionato di storie di uomini misteriosi e maestri dell’inganno – quali furono B. Traven e il conte di Cagliostro, protagonisti dei suoi ultimi due romanzi –, Vittorio Giacopini mette al centro della Mappa la vicenda di un uomo ingannato dal potere, dagli uomini e dalle sue stesse convinzioni. Figlio rinnegato della propria epoca, Serge Victor è il testimone di una Storia osservata sempre in prima fila – a colloquio ora con Christophe Saliceti, ora con Gaspard Monge o Gioacchino Murat –, eppure sempre da comparsa o addirittura controfigura (come nel caso del più titolato cartografo Bacler d’Albe). La sua vita è un primo piano sfuocato, e sullo sfondo, nitidi e roboanti, scorrono gli eventi, le parabole si compiono, in un procedere circolare che avvince Storia universale e vicende individuali, azzerando qualsiasi spazio di speranza in un progresso o in una redenzione. Vale per Napoleone, ma vale anche per Victor, la cui esistenza si consuma nel circuito chiuso del contrappasso La ferrea logica di una follia che riporta sul medesimo piano di una simultaneità delirante tutti i fatti, gli incontri e i paesaggi di una vita, è lo specchio ribaltato della verve loica del giovane cartografo che pretendeva di leggere il mondo attraverso il filtro della mappa. La «visione», il sogno di uno sguardo integrale, capace di compendiare in un unico istante lo scorrere degli eventi e il loro dislocarsi nello spazio-tempo si ritorce nell’eterno presente della follia, nell’impossibilità di fare i conti con il passato, di respingerne i fantasmi.
Quel piano di gioco da affrontare con le armi dell’intraprendenza, della spavalderia e di una calcolata strategia, dopo esser stato «trastullo e ostaggio di un sogno disfatto e stanco di Potere», alla fine, quando tutte le parabole si sono concluse, si riduce nell’inutile tracciato di un gioco dell’oca in cui le uniche regole sono quelle del caso e della fortuna. I fantasmi, per un’ultima volta, tornano a tormentare la coscienza ormai compromessa di un uomo che potrebbe anche essere eletto a rappresentante del nostro stesso presente, di un’epoca che nonostante tutte le avanguardie della ratio e della tecnica, continua a rigirarsi nell’ombra dell’incoscienza. Un presente che infatti si rende refrattario a ogni rappresentazione grafica, visto che neanche la forma iperconnessa e diramata della Rete sembra più adeguata a rappresentare la sconfinata proliferazione di connessioni e salti che regolano l’andamento del reale.
Ma qualsiasi proiezione allegorica risulta impedita dall’inadeguatezza stessa del protagonista, eroe dimezzato, controfigura debole di un’epoca in cerca di nomi da ricordare e condannare. Così il circuito chiuso in cui si serra la vicenda di Serge Victor diventa la figura di una narrazione che non procede se non per salti, da casella a casella, ripercorrendo gli episodi cruciali della vicenda napoleonica, unico vero vettore della narrazione e stella che continuamente oscura la storia del protagonista. L’effetto complessivo è solo quello di una riscrittura, la cui necessità neanche lo stile, notevolmente elaborato in direzione di un manierismo ottocentesco, è in grado di mostrare al lettore. Giacopini arriva al romanzo storico spinto da un gusto da erudito e non tanto per sfruttare il passato in funzione del presente. Quasi dovesse essere complemento e figura del furore di esattezza e completezza che fin dall’inizio ossessiona il protagonista, la sua prosa trova la propria cifra nell’elencazione, nella descrizione esauriente e anzi infiorettata di endiadi, fastosa nell’accumulo di particolari eruditi. In questo modo il racconto si satura, la propulsione narrativa, ancorata prima alla partecipata attesa dei nuovi successi napoleonici e poi a un’improbabile quête amorosa, si smorza, arenata nelle secche di uno stile nominale che alla lunga affatica e spegne l’erotica della lettura.
La vicenda di Serge Victor, nata sotto i migliori auspici, si perde nel furore delle battaglie e dei ribaltamenti politici e non riesce a portare sui fatti storici quello sguardo nuovo che può giustificare una riscrittura. La narrazione di Giacopini non riesce così ad aggiungere al noto della Storia l’ignoto e il fantastico – l’impossibile che era, ad esempio, nel romanzo di Emilio Tadini – che sono propri del romanzo. La vicenda di Serge Victor, folle miniaturista della Storia, si chiude in se stessa, persa nel gioco di specchi di una frustrazione sterile e irrisolvibile.