Adua è un nome e tante cose. Una donna dagli occhi scuri, una città etiope attraversata dalla storia, una spiaggia turistica sulla riviera del Tirreno. Adua in questo caso è un romanzo, della romana di origine somala Igiaba Scego, veloce alla lettura ma con un sottotesto complesso, in cui la storia passata va a toccare la storia presente e quella individuale degli ignari attori che si ritrovano loro malgrado a recitarla.
Se dalle prime pagine Adua (Giunti, 2015) sembra un testo fondato sul quanto mai urgente e attuale discorso sull’immigrazione africana in Italia, il tono muta nel corso dei capitoli trasformandosi nell’odissea di una famiglia, anzi, nella vicenda di due identità dilaniate, di due figli soli, impegnati in un continuo duplice rapporto di lotta e riconciliazione con il proprio passato. C’è quindi Zoppe, il figlio che arriva in Italia dalla Somalia nella prima metà del Novecento per poi tornare in Africa a lavorare per i fascisti e contro il suo popolo, il figlio che cerca in rare visioni l’eredità di quel genitore indovino di cui non si è mai sentito all’altezza. Adua, invece, è la figlia di Zoppe, anche lei scappa dalla Somalia, ma per sfuggire all’ottusa ferocia paterna, e sbarca nella Roma crudele e cinica di Cinecittà e delle produzioni erotiche degli anni Settanta.
Sono andata al Festivaletteratura di Mantova per parlare di queste e altre suggestioni con Igiaba Scego, un’autrice che si riferisce ai suoi personaggi come a individui indipendenti, artefici di un destino che lei si limita a osservare e a cercare di interpretare.
Matilde Quarti: In Adua ho ritrovato molte attinenze con quanto scrivi nei tuoi articoli sul blog di Internazionale.
Igiaba Scego: Non trovo molte differenze tra quello di cui scrivo e quello di cui mi occupo. Per Internazionale cerco uno stile molto più diretto, anche se alcuni articoli sono più elaborati, quasi accademici. Invece col romanzo mi sono permessa di usare vari registri stilistici, però è chiaro che deriva tutto dalle stesse riflessioni.
Ho notato che sia dagli articoli sia da Adua emergono una serie di domande che si concatenano, è come se stessi cercando delle risposte ma emergessero altre domande.
Io mi chiamo “risposta”, il mio nome ha la stessa radice della parola araba “risposta”. Tutte le persone arabofone mi fanno una battuta, dicono: “Ma tu allora sei una risposta o cerchi risposte”. Infatti ho tante domande.
In Adua emerge molto forte il discorso famigliare. Ho cominciato a leggere il romanzo convinta che si trattasse di un testo principalmente sull’immigrazione, ma già dai primi capitoli mi sono resa conto che è la storia di una famiglia e nello specifico di un doppio rapporto paterno-filiare: quello di Adua con Zoppe e quello di Zoppe con il padre indovino.
C’anche il rapporto di Adua con Titanic, che è suo marito, ma in lei c’è questo lato materno molto pronunciato, sia materno che matrigno. Per me Adua è un romanzo sulle relazioni, avvenute e mancate. La domanda a cui ho cercato di rispondere scrivendolo è: cosa succede ai corpi quando vengono attraversati da una storia, anche violenta, come può essere il colonialismo, ma anche tutta la parte post-coloniale, e quindi tutti quegli stereotipi e quei razzismi che non sono stati disinnescati. Adua è post-coloniale, però purtroppo – e lo vediamo nella storia dei giorni nostri – l’Africa non è mai stata lasciata veramente da sola. Il colonialismo non è mai effettivamente finito per certi Paesi. Per esempio la Somalia è stata devastata dalla globalizzazione e dallo sfruttamento. E come la Somalia anche il Congo, o la Nigeria. Ma questa indagine io ho scelto di farla attraverso le relazioni: famigliari, affettive e del corpo.
Sì, sembra che nel romanzo ci siano due movimenti, da un lato un movimento della storia, che si incanala nelle vite dei singoli e dall’altro il movimento del singolo, che finisce per trovarsi nella sua vita privata, anche intima, a vivere la storia. Per esempio la vita di Adua con il marito Titanic si inserisce nella storia attuale.
Sai, io ho cercato veramente di unire in questi personaggi il colonialismo, questo post-colonialismo non veramente post e le migrazioni moderne nel Mediterraneo. Mi sono interrogata molto se chiamare Titanic il marito di Adua, perché è quasi irriverente. Però non me lo sono inventata: la comunità somala ha chiamato per molti anni “Titanic” i ragazzi di Lampedusa. Una frase che torna nel libro viene in realtà da un ragazzo che mi ha detto: “So che Titanic è un film dove muoiono tutti, ricordati però che io non sono morto”.
Allora in Adua ho pensato di voler far vedere anche le meschinità dei personaggi e della realtà. Perché quando si parla di immigrati si parla sempre di numeri, di morti, di cifre, ma non delle persone, che sono varie, ce ne sono di splendide ma c’è anche tanta bassezza e ambiguità. E io non volevo scrivere una storia manichea, come tante che si trovano in giro: ci sono tanti eroi, ma io volevo parlare di chi non è eroe e dalla storia è stato sconfitto. Come Zoppe, che fa una brutta fine ma ha anche dei momenti belli.
Zoppe è anche sconfitto sul piano famigliare, nel suo rapporto con la figlia. Autosconfitto, direi.
Zoppe è un misto di contraddizioni. È il rapporto col padre che gli fa capire che la sua strada è sbagliata e il padre, pur cercando di aiutarlo come può, sa che neanche i figli possono essere salvati dall’errore.
Nei capitoli dedicati a lui si percepisce molto l’umanità del personaggio, mentre nei capitoli dedicati ad Adua risulta uno Zoppe diverso, più duro, che è stato cambiato dalla storia.
La moglie morta di parto, il colonialismo, il fatto di aver tradito gli ideali degli amici e della famiglia, porta Zoppe a raccontare e raccontarsi delle bugie. Vuole convincersi di non essere responsabile di tutti i morti della guerra a cui ha contribuito. Anche perché in Etiopia, soprattutto in Etiopia, con la guerra di Mussolini e le rappresaglie, lui ha lavorato come traduttore. È stato lì e ha lavorato come traduttore.
Zoppe è rimasto sommerso, cosa che Adua nonostante tutto è riuscita a evitare. Aprendosi per esempio al marito e poi lasciandolo andare.
A me piace pensare che il gabbiano del finale sia il nonno, che Adua venga salvata dalla sua storia antica. Però questa è una mia interpretazione, ogni lettore valuterà. In ogni caso Adua è diversa dal padre, non perché è donna – anche se in generale le donne sono belle toste –, ma perché a un certo punto fa un percorso e in questo percorso trova quello che il padre non ha trovato: degli amici, delle persone. Lul, soprattutto. Anche se in parte è lei stessa Lul, nel senso che si è aiutata da sola trovando un’amica così brava.
Da milanese trovo che in molti testi di autori romani si riveli non tanto il lato seducente del cinema ma il lato più perverso, come fosse un’ombra su Roma.
Io questo non lo so, nel romanzo ho dato spazio al cinema perché volevo parlare anche del dilemma della rappresentazione. Io amo molto il cinema, e il cinema per chi è di Mogadiscio ha rappresentato l’unico momento di svago in una città molto dura. E del cinema a Mogadiscio tutti mi parlavano come di un grande sogno, andavi lì e trovavi Marilyn e Audrey. Infatti parlo di cinema holliwoodiano non a caso: a Mogadiscio arrivavano solo tre cose, film italiani, film di Hollywood doppiati in italiano (perché fino al 1983 l’italiano era lingua di Stato) e film di Bollywood. Bollywood era una potenza, la Somalia è sull’Oceano Indiano, parte della nostra popolazione è proprio indiana e nella lingua somala ci sono tantissime parole indi.
In più volevo parlare della rappresentazione, in Italia e nel cinema, del corpo nero; un corpo legato ancora alla Faccetta nera, alla disponibilità, alla sessualità volgare e cheap. Perché il cinema ancora oggi, non solo nel periodo di Adua, non riesce a sbloccare questa rappresentazione?
Adua lo pone questo problema: sogna di fare film bellissimi come Judy Garland e in realtà finisce a fare un porno soft di serie C.
Adua stessa – il suo corpo – viene usata dai registi, come se la rappresentazione dovesse necessariamente passare nella vita reale.
I corpi delle attrici sono sempre molto usati e in più Adua era anche una ragazzina sola. Però penso che riesca a salvarsi, perché nonostante tutto continua ad amare il cinema. Insomma, io Adua lo vedo come un libro positivo – nonostante sia molto duro – perché contiene tanta speranza.
Questa speranza io l’ho percepita nella lingua che hai usato, si tratta di una storia cruda ma la narrazione scorre lieve.
Ho cercato di lavorare sulla lingua dei personaggi. Volevo che la lingua seguisse l’andamento di ciascun personaggio, per esempio quando entra in scena il padre di Zoppe la lingua diventa più poetica e quasi biblica, Zoppe invece alle volte è molto duro, mentre Adua è sognante. E poi ho cercato di riprendere i grandi scrittori sudamericani, Galeano soprattutto. Lui scriveva piccole storie quotidiane, magari su un cacciatore, oppure su un minatore e trovava sempre un guizzo di poesia. Allora io ho provato a fare la stessa cosa con i miei personaggi.
E poi mi è servita la lezione delle mie due origini, ho cercato di costruire una lingua in between tra Somalia e Italia: uso l’italiano ma ripropongo le strutture linguistiche del somalo, soprattutto quelle legate alla tradizione orale. Ho cercato di trovare una miscela che unisse questi mondi, di arrivare a un risultato molto semplice, ma anche sperimentale in certi punti. Sono modi per arricchire la lingua italiana, proprio come lo è anche l’inserimento di parole somale nel testo.
Quindi hai pensato molto allo stile quando hai scritto Adua.
Più che alla storia ho pensato alla lingua. La storia ce l’avevo da tempo, ma c’era qualcosa che non andava. Alcune parti le ho riscritte più volte perché non mi suonavano. Anche perché quando scrivo leggo ad alta voce. Una parte di me è legata alla cultura orale: mia madre è stata nomade fino a nove anni, canta e compone poesie improvvisate perché i somali fanno così, creano da una parola, da un fatto, una poesia. Se io non sento il suono non funziona la scrittura.
Tornando al discorso storico, riesci a parlarne in modo sottile, non sembra mai di leggere un libro concentrato più sul momento storico che sui personaggi, fino a farli sembrare delle marionette. In Adua il momento storico risulta dalla quotidianità, come poi di fatto accade nella vita di tutti i giorni.
Io amo la storia, mi appassiona molto, ma volevo trasmettere qualcosa che non si studia a scuola: il colonialismo. Nella stesura di questo romanzo a un certo punto sono andata in crisi, vedevo che al suo interno c’erano delle cose molto pesanti e allora l’ho lasciato perdere e ho scritto un libro veramente di storia – che poi è una passeggiata per la città – che si intitola Roma negata, percorsi post-coloniali nella città, con un amico fotografo, Rino Bianchi. Roma negata mi ha aiutata a capire cosa non andava in Adua, mi ha insegnato che la storia è quotidiana, ce l’abbiamo in mezzo alla città. Anche per i somali era così, anche per loro la storia era quotidiana, fatta di gente che ha tradito e di gente che non ha tradito. Sono cose semplici e io volevo rendere partecipe il lettore di questa ordinarietà.
Anche il discorso attuale sui migranti lo affronti delicatamente.
Sì, perché non volevo speculare sul tema, ma farne arrivare il sentimento. Volevo riuscire a raccontare come una donna che si imbatte in un migrante un po’ lo sfrutta il ragazzo e un po’ lo aiuta, un po’ è mamma e un po’ è stronza.
E lo stesso discorso vale per il ragazzo migrante, Titanic.
Sì e questa cosa fa nascere un rapporto molto ambiguo, ma molto paritario. Anche se Adua prova a scavalcarlo, a colonizzarlo, lui non si fa colonizzare. Perché comunque Titanic ha fatto quel viaggio lì, ne ha viste di tutti i colori. E poi come tutte le coppie che stanno insieme si fanno tante cose belle ma anche tante cattiverie.
Titanic è un personaggio molto riuscito, perché non compare in modo prepotente, ma solo attraverso i racconti di Adua. Poi nel momento in cui libera Adua dal suo passato emerge tutta la sua bellezza.
Secondo me quel nome terribile mi ha anche aiutata a costruirlo in quel modo. Ma ci sono tanti personaggi positivi nel romanzo: il padre di Zoppe, per esempio, che a me piace molto perché rappresenta una Somalia che non c’è più ma che io ho visto quando ero piccola, una Somalia che aveva fiducia (anche la Somalia di oggi ha fiducia, ma è molto più ferita). Poi l’elemento più positivo è l’elefante del Bernini a cui Adua racconta la sua storia. Io penso sempre che l’elefante sia quella parte buona di Roma che nonostante tutto c’è, la bellezza, il centro città che spesso abbandoniamo e lasciamo ai turisti come se fosse Disneyland. Il cuore della città dovrebbe vivere in correlazione con la periferia. E io ho cercato anche questo dialogo: quello tra le due città, quella periferica, Adua, e quella centrale, l’elefante. L’elefante è a tutti gli effetti un personaggio, un amico di Adua. Poi, l’elefante probabilmente è un elefante indiano, mansueto, viene dallo stesso oceano di Adua, quindi è perfetto come suo confessore. Adua attraverso di lui vede se stessa e anche Roma, che è un po’ come Adua, rivede se stessa. Perché secondo me Roma è una città magnifica, che però non lo sa, ha bisogno di rivedere la sua bellezza, è la mia musa ispiratrice. Roma negata e Adua sono due libri legati tra loro dalla città. Se non avessi girato così tanto per Roma forse non avrei parlato dell’elefante del Bernini: ora per me è diventato un luogo simbolico, il simbolo di una società che potrebbe essere diversa da quella che abbiamo, come quel Welcome refugees che avviene quotidianamente da vent’anni a Lampedusa.
Fotografia di copertina: ® Simona Filippini