L’intento del recente libro di Cavalleri – La resistenza al nazi-fascismo – è cercare di colmare, almeno in parte, la lacuna della considerazione filosofica della resistenza. L’idea di fondo è che nell’esperienza in larga parte contingente, improvvisata, confusa, persino casuale e talora ambigua della scelta resistenziale si siano progressivamente e a fatica delineate, nella concretezza storica, un’antropologia e un’etica dal valore universale. Come scrive nella Prefazione Maria Cristina Bartolomei, è auspicabile che «tale esperienza puntualmente storica e in quanto tale non replicabile possa essere assunta nei suoi aspetti non irripetibili come paradigma di strutture implicate nell’agire umano in quanto tale» (p. 8).
Potrebbe forse sembrare banale, in questo contesto, ma l’aspetto fondamentale non irripetibile, anche se non facilmente replicabile, è esattamente quello della liberazione. Secondo Sartre, libertà non è uno stato, ma lo scarto di cui l’uomo auspicabilmente è, o almeno potrebbe, dovrebbe, essere capace. Libertà è nella capacità di prendere distanza, è separazione di sé dal proprio stato; libertà è una virtù della dinamica, non della statica. Al di là della provocazione sartriana della prima ora (quella vicina all’ora storica dell’entusiasmo manicheo della resistenza), per cui libertà e responsabilità sono degli assoluti posti – e imposti, perché non siamo liberi di essere liberi, perché non lo abbiamo scelto e «siamo condannati a essere liberi»[1] –, il Sartre più maturo ripensa la questione della libertà relativizzandola nel contesto opaco e limaccioso del secondo dopoguerra. L’unica libertà concessa è, forse, nella liberazione. «L’idea che non ho mai smesso di sviluppare è che, in fin dei conti, ciascuno è sempre responsabile di ciò che è stato fatto di lui – anche nel caso in cui non possa fare niente di più che assumersi questa responsabilità. Io credo che un uomo possa sempre fare qualcosa di ciò che è stato fatto di lui. Ecco la definizione che darei oggi della libertà: quel piccolo movimento che fa di un essere sociale completamente condizionato una persona che non si limita a riesteriorizzare nella sua totalità il condizionamento che ha subito»[2].
I giovani che nel 1943 salirono in montagna erano cresciuti nel regime fascista, che per loro era tutto. Prima di scegliere la resistenza, essi dovettero mettere in discussione il sistema in cui erano immersi e in tal senso furono decisive le esperienze traumatiche della guerra – in particolare della ritirata di Russia, che Italo Calvino accosta all’Anabasi di Senofonte. Lo sforzo di liberarsi dalla presa del tutto in cui erano confusi è ben illustrata dall’immagine di copertina dello Schiavo che si ridesta di Michelangelo, in cui una massa antropomorfa lotta con la pietra greve in cui è immersa e da cui cerca di emergere per assumere un volto pienamente umano. Un tale profilo, però, si delineerà solo col tempo, col racconto, con la riflessione, con la coscienza di quanto stava avvenendo e di quanto era ormai avvenuto.
Inevitabilmente, una riflessione filosofica sull’esperienza resistenziale finisce per concentrarsi su questi aspetti – Hegel direbbe sulla fenomenologia dell’idea che torna a sé, della ragione che acquista coscienza di sé. Ma la resistenza non fu solo la trasparenza dello spirito che la migliore memoria di essa ha distillato e ci ha tramandato, la resistenza fu anche lotta nella feccia, con la materia torbida, con le tenebre di quel tempo oscuro. Molto opportunamente, quindi, Cavalleri cita anche Nuto Revelli, che, nella Guerra dei poveri, confessa: «Al 26 luglio si poteva anche scegliere sbagliato. Se mi picchiavano, se mi sputavano addosso, forse sarei passato dall’altra parte, con i fascisti, con le vittime del momento. Oggi [1 febbraio 1944] sarei con le canaglie, con i barabba, con le spie dei tedeschi». E ancora: «Mi spaventano quelli che dicono di avere sempre capito tutto, che continuano a capire tutto. Capire l’8 settembre non era facile». Anche di questo occorre fare memoria, al di là di ogni trionfalistica celebrazione della resistenza, perché solo oggi i fatti di allora appaiono chiari, ma il problema che la memoria viva della resistenza pone a noi oggi sono i fatti di oggi, non quelli di allora.
Il partigiano, uomo contemporaneo al suo tempo storico, si assume la «responsabilità nei confronti del proprio presente», mediante «un radicale, costante e riflessivo, riposizionarsi rispetto alla storia». L’idea di contemporaneità cui fa riferimento l’autore è quella di Giorgio Agamben: «una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa [la contemporaneità] è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto pienamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla […] il contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo», senza lasciarsi sedurre dalla tenebra, ma cercando in essa una luce. «Per questo i contemporanei sono rari. E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio»[3]. Per questo la resistenza è ancora contemporanea, e sempre rara, perché è un perenne esame di coscienza e un costante sforzo critico. Anche secondo Calvino, a decenni di distanza dalla guerra partigiana «il vero modo di serbarsi fedeli alla lezione della resistenza» consiste «nel rifiutare ogni mistificazione ideologica, nel ricercare una via d’uscita dal mortificante trantran di una convivenza sociale e politica moralmente sottosviluppate» (p. 61).
Tornando all’esperienza storica della resistenza al nazifascismo, Cavalleri prosegue sottolineando come, nonostante l’opacità della coscienza, la politica è pur sempre «la finalizzazione di una discussione ad una scelta» (p. 203). Occorre sciogliere i nodi, o reciderli, sapendo che «la vita giusta è irrealizzabile; “però [citando Adorno] lo sforzo del concetto è riuscito a comunicare agli uomini l’idea di una vita giusta”» (p. 207). La scelta resistenziale dà a pensare a chi viene dopo, porta al pensiero e chiama pensiero, ma spesso essa stessa comincia, o quanto meno prosegue, con un atto di pensiero, con la decisione interiore di dire a se stessi la verità. Detta questa, tutto il resto viene da sé. «Dire ciò che la situazione è e trarre le conseguenze di questo ‘dire’ è innanzitutto, tanto per un contadino dell’Auvergne che per un filosofo, un’operazione del pensiero. […] Quelli che non resistevano, se si lascia stare la cricca collaborazionista, erano semplicemente quelli che non volevano dire la situazione, neanche a se stessi. Non è esagerato dire che essi non pensavano. […] Contrariamente a ciò che viene spesso sostenuto, non conviene credere che sia il rischio, effettivamente gravissimo, che impedisce a molti di resistere. È al contrario il non-pensiero della situazione che interdice il rischio, cioè l’esame dei possibili. Non resistere è non pensare. Non pensare è non rischiare di rischiare»[4].
Il pensiero filosofico può utilmente alimentarsi di questa vicenda storica, ma proprio in questa esperienza la filosofia si riconosce, perché il pensiero autentico è esso stesso, in quanto tale, resistenza. È ciò che rileva Hannah Arendt quando dice che, mentre «tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che tutti gli altri credono o fanno, coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio perché il loro stesso rifiuto di unirsi alla maggioranza è appariscente e si converte per ciò stesso in una sorta di azione. In simili situazioni la componente catartica del pensare […] si rivela, implicitamente, politica»[5]. Oppure, con le parole di Theodor Wiesengrund Adorno, «la filosofia è resistenza contro l’opinione costituita, […] la filosofia rappresenta effettivamente la resistenza intellettuale organizzata, essa è opposizione contro le convenzioni e i clichés che sono coniati dalla società. Un individuo che non ha mai provato disgusto per quello che tutti pensano e tutti dicono, per quello che gli è messo davanti senza che l’abbia chiesto, un soggetto simile non può giungere alla filosofia. Bisogna vedere la costrizione, l’ingiustizia e la menzogna che stanno dietro le ovvietà, bisogna vedere come certi modi individuali di comportamento che considerati isolatamente appaiono giusti e ragionevoli meritino invece una valutazione completamente diversa, se considerati nel tutto sociale a cui appartengono. Bisogna far luce sul contesto di accecamento, come si sono sforzati di fare Eraclito nell’antichità e Schopenhauer nella filosofia moderna. La filosofia è la resistenza contro tutti i clichés che è diventata consapevole»[6].
Matteo Cavalleri, La resistenza al nazi-fascismo. Un’antropologia etica, prefazione di Maria Cristina Bartolomei, Milano-Udine, Mimesis, 2015, pp. 234, € 20.
[1] Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, Milano, il Saggiatore, 1991 (1943), p. 665.
[2] Jean-Paul Sartre, Sartre visto da Sartre, in Materialismo e rivoluzione, Milano, il Saggiatore, 1977 (1972), p. 150.
[3] Giorgio Agamben, «Che cos’è il contemporaneo?», in Id., Nudità, Nottetempo, Roma 2009, pp. 20 e ss.
[4] Alain Badiou, Metapolitica, Napoli, Cronopio, 2001, p. 24.
[5] Hannah Arendt, La vita della mente, Bologna, il Mulino, 1987, p. 288.
[6] Theodor W. Adorno, Terminologia filosofica, Torini, Einaudi, 2007, p. 125.