Questo articolo è il secondo di una serie dedicata ai migliori esempi di cinema horror nel nuovo millennio. Qui trovate il primo
Ѐ innegabile: gli inglesi ce l’hanno nel sangue. Dall’antico poema Beowulf fino alla tradizione del romanzo gotico, passando per le pagine di Shakespeare, l’horror è sempre stato presente nella tradizione e nella sensibilità albionica. Rispetto a quello americano o quello francese, il cinema dell’orrore inglese sembra però meno interessato al sangue e alla violenza, preferendo toccare corde ben più sottili come il mistero, il non mostrato, l’insondabile. Dopotutto, la Gran Bretagna è la patria del cosiddetto folk horror, quel sottogenere che trae la sua ispirazione da un mondo pagano e arcaico fatto di campagne, riti ancestrali e antiche divinità agresti, dove presenze inquietanti si aggirano tra gli esseri umani, celati alla loro vista. Si pensi a tal proposito ai racconti di fine Ottocento del gallese Arthur Machen come The Great God Pan o The White People, o, sul grande schermo, a certi capolavori degli anni Settanta come I Diavoli di Ken Russel o The Wicker Man di Robin Hardy. Detto questo, se la sua forza principale è dunque quella di saper costruire atmosfere e tessere suggestioni, non significa che il cinema inglese non sia stato comunque influenzato da quello americano e che rinneghi totalmente il piacere dell’azione o della gratificazione immediata. Come vedremo, questo naturalmente vale soprattutto per le sue manifestazioni più commerciali, sicuramente meno originali ma non per questo meno degne di rispetto o attenzione.
28 giorni dopo: gli zombi corrono
Il primo, grande, film dell’orrore inglese degli anni Duemila è appunto il celebre 28 giorni dopo di Danny Boyle, regista che non ha certo bisogno di presentazioni. Uscito nel 2002, ritrae una Gran Bretagna post apocalittica infestata dai cosiddetti infetti, esseri umani contagiati da un virus simile alla rabbia e in preda a un’incontrollabile furia omicida. Il film ha il merito di rendere popolare – se non di creare – la figura dello zombi rapido (per quanto tecnicamente le creature del film siano esseri umani ancora in vita ma trasformati dal virus), che privo della caratteristica camminata strascicata vanta invece un’innaturale rapidità nei movimenti. Lo zombi perde quindi la sua forza classica, quella del numero e dell’inesorabilità, e guadagna in dinamicità, rendendo ogni singola unità una minaccia da prendere molto sul serio. Ma per una volta, rispetto alla tradizione dello zombie movie, ciò che più conta e che rende veramente indimenticabile il film non è tanto il suo lato orrorifico, quanto il fascino delle atmosfere, delle città e campagne completamente deserte che la macchina da presa di Boyle riprende facendone emergere tutta la poesia, grazie anche alla consueta straordinaria colonna sonora che il regista di Manchester non si fa mai mancare. Purtroppo la magia si esaurisce dopo un’ora di film, relegando la seconda metà a un semplice buon action horror che non resiste alla tentazione dei cliché di sempre, come ad esempio i soliti militari la cui idiozia e violenza fa precipitare la situazione. Il sequel, girato nel 2007 dallo spagnolo Juan Carlos Fresnadillo, rinuncia quasi del tutto alle suggestioni dell’ambientazione, e non fa che riprendere diligentemente il mood della mezzora finale del prototipo e aggiungere più infetti, sangue e azione, risultando comunque un godibilissimo giocattolone.
The Descent: orrore dal sottosuolo
Il regista britannico più interessante e conosciuto del periodo è forse Neil Marshall, che esordisce appena trentaduenne nel 2002 con Dog Soldiers, un bizzarro survival ambientato nei boschi della Scozia. Durante un’esercitazione, un gruppo di militari si ritrova a lottare per la propria vita contro un branco di famelici lupi mannari. Il film, che riprende i topoi più classici del cinema zombi, come la paura del contagio e il luogo apparentemente sicuro in cui barricarsi, non è il più riuscito di Marshall, ma pone le basi per il tema ricorrente del regista, ovvero quello del gruppo isolato in territorio ostile costretto a combattere per la propria sopravvivenza, contando unicamente sulle proprie forze. The Descent (2005), il suo capolavoro indiscusso, racconta la storia di un gruppo di amiche con la passione per gli sport estremi rimasto intrappolato in una grotta sui Monti Appalachi. Le sei donne saranno costrette ad affrontare non solo l’oscurità e i pericoli del sottosuolo, ma anche la tribù di cannibali subumani che dimora nelle profondità della terra, oltre che i propri demoni interiori. Lo stesso canovaccio viene ripetuto in Doomsday (2008) e Centurion (2010), che se non sono propriamente horror rimangono ottimi esempi di cinema di azione e d’avventura: il primo, citazionistico a livelli degni di Tarantino, segue la vicenda di una squadra di militari spedita nel nord di una Gran Bretagna devastata da un virus mortale alla ricerca di un antidoto, tra echi di 1997: fuga da New York e Mad Max (due personaggi si chiamano Carpenter e Miller); nel secondo, i sopravvissuti di una centuria romana, decimata da un attacco a sorpresa dei barbarici Pitti, si ritrovano sperduti dietro le linee nemiche e costretti a combattere per portare a casa la pelle.
Eden Lake: sono solo ragazzi
C’è del marcio in Inghilterra. Se il fenomeno degli hooligans è stato sconfitto, il problema della delinquenza minorile è ben lungi dall’essere risolto. L’alcolismo è estremamente diffuso tra i giovani e giovanissimi, così come l’abitudine a girare con il coltello e a non farsi scrupoli nell’usarlo (si parla di quattrocento feriti da arma da taglio al mese nella sola Londra). È sufficiente un weekend nella capitale per scoprire che è impossibile entrare in un locale senza mostrare un documento identificativo, o addirittura comprare un set di posate all’Ikea senza dover provare la propria maggiore età. In sostanza, gli inglesi hanno il terrore dei propri figli. Questa paura non poteva che essere raccontata sul grande schermo, e sono numerosi i film che negli ultimi anni hanno raccontato il disagio e la criminalità giovanile. Sweet Sixteen, This is England, Fish Tank, Neds, Starred Up sono pellicole dure e brutali che hanno scelto un taglio molto realistico per rappresentare il fenomeno, puntando su una messa in scena sobria e una narrazione essenziale. Eden Lake, l’esordio di James Watkins, sceglie di percorrere una strada diversa: abbandonato l’occhio realistico di questi film, il thriller horror del 2008 non ha paura dell’iperbole e dell’esagerazione. Così come in Harry Brown (un ottimo thriller del 2009, con un grande Michael Caine nei panni di un anziano vigilante), i giovani delinquenti non hanno storia, anima o motivazione: sono per lo più demoni dell’inferno venuti a portare orrore e sconvolgimento tra la gente per bene, senza motivo alcuno che non sia la malvagità fine a se stessa. Eden Lake racconta la storia di una coppia, interpretata da Michael Fassbender e Kelly Reilly (la Jordan moglie di Vince Vaughn in True Detective), la cui gita al lago si trasforma rapidamente in un viaggio nell’incubo. La premessa non è certo originale, così come lo svolgimento del film, ma ciò che stupisce è che i carnefici non sono i mutanti incestuosi o i redneck impazziti di Craven e Hooper, ma semplici minorenni che agiscono senza un vero perché sotto la guida di Brett, il terribile capo della gang interpretato da Jack O’Connell (l’emergente attore britannico protagonista di Starred Up e ’71). La crudeltà di Brett e la violenza sconsiderata che non cede il passo dinnanzi a nulla e nessuno possono apparire persino esagerate agli occhi dello spettatore, ma era probabilmente proprio questa la volontà del regista: trasformare una piaga sociale in un’iperbole, un male quasi metafisico, e renderla protagonista di quello che sotto l’aspetto convenzionale è un film radicale e dolorosissimo, dal finale nichilista e sconvolgente.
The Borderlands: non solo found footage
Una chiesetta nella bucolica campagna inglese, un paesino fuori dal tempo. Strani fenomeni sovrannaturali sembrano verificarsi durante la messa. Una squadra di investigatori del paranormale viene inviata dal Vaticano a indagare e accertare l’eventualità del miracolo, o a derubricare l’episodio a bufala o ancora peggio a truffa. La trama di The Borderlands (2013) è tutta qui, e pur essendo molto semplice è raccontata in modo farraginoso, poco lineare, come se l’esordiente regista Elliot Goldner non avesse ben chiaro come arrivare alla fine. Neanche la regia risulta particolarmente efficace, affidandosi, ma senza sfruttarne appieno le potenzialità, allo stratagemma del found footage, quel genere venuto alla ribalta negli ultimi anni per cui la macchina da presa è diegetica, cioè effettivamente presente nel mondo narrativo (sul found footage, o point of view, mi dilungherò nell’ultima parte di questo viaggio nell’horror, quello dedicato al cinema americano). A questo punto parrebbe lecito chiedersi per quale motivo ho deciso di inserire The Borderlands in questo articolo. La risposta è molto semplice: il finale. Tutto quanto scritto finora vale infatti per 85 minuti su 89 di durata, perché alla fine, tardi, ma non troppo tardi, il film si spalanca e regala allo spettatore un finale indimenticabile, una trovata folgorante, una follia degna di Miura o Ito (e chi conosce i maestri del fumetto giapponese sa di cosa parlo). Vale la pena vedere un film mediocre solo e unicamente per un finale capolavoro? In questo caso, almeno per me, decisamente sì.
Berberian Sound Studio: tra Dario Argento e Lynch
Come scritto nelle prime righe di questo articolo, il cinema inglese ha la caratteristica di puntare più sulle atmosfere che sull’azione e la narrazione, molto di più rispetto a quello francese o americano, anche a costo di spazientire lo spettatore meno preparato e bendisposto. È indubbiamente il caso di Berberian Sound Studio (2012) di Peter Strickland, uno dei film più particolari usciti negli ultimi anni. Il film si apre con l’immagine di un omino che cammina per un corridoio, e ogni cosa di lui, il passo, la postura, l’aspetto, suggerisce timidezza e inadeguatezza. Appena viene inquadrato in volto riconosciamo subito l’attore, anche se non riusciamo a ricordare dove l’abbiamo visto. Al termine del corridoio l’omino si rivolge a una segretaria, che con fare sgarbato gli si rivolge in italiano, e lo indirizza allo studio di registrazione, dove è atteso. Cominciano i titoli di testa, e rimaniamo per un attimo spiazzati nel vedere solo nomi italiani, compreso il regista. Anche il titolo del film è diverso, non Berberian Sound Studio, ma Il vortice equestre. Poi capiamo: non sono i titoli del film, ma del film nel film. Gibelroy, questo il nome dello stralunato protagonista interpretato da Toby Jones, è un tecnico del suono ingaggiato da un misterioso studio italiano per curare gli effetti speciali sonori di quello che si rivelerà essere un film horror, molto simile a quelli che girava Dario Argento. Siamo dopotutto negli anni Settanta, quando il cinema dell’orrore italiano era conosciuto e rispettato nel mondo e gli Argento, i Fulci, i Massaccesi facevano da contraltare ai Craven, ai Romero, ai Carpenter d’oltreoceano. Ciò che accade nel corso nel film è difficilmente comprensibile e ancor meno raccontabile: la finzione filtra nella realtà, lo schermo si sovrappone al mondo reale, la sanità lascia spazio alla follia. Berberian Sound Studio – le cui ispirazioni si chiamano Lynch, Polanski, Sclavi (impossibile non pensare a certi Dylan Dog) – è un horror senza sangue e senza omicidi, che punta tutto sugli eccezionali effetti sonori (ovviamente), sull’atmosfera inquietante e misteriosa, sulla presenza ossessiva di entità insondabili che premono ai margini e mai si palesano. Non resti deluso lo spettatore che alla fine della pellicola si sarà sentito orfano di una spiegazione o di una scena madre: per questo film vale più che mai il detto secondo cui più che la destinazione conta il viaggio.
Kill List: puro folk horror
Un altro regista da tenere d’occhio è il coetaneo di Neil Marshall Ben Wheatley: il suo Kill List (2011) è una gemma nascosta inedita nelle sale italiane tutta da riscoprire. Misterioso e straniante, il film ha per protagonista Jay, ex militare in crisi con la moglie e alle prese con conti e bollette, convinto da un suo ex commilitone a svolgere un lavoro che lo metterebbe finalmente a posto dal punto di vista economico: ingaggiati da un misterioso e luciferino committente, il compito dei due è quello di uccidere tre persone (un prete, un bibliotecario e un politico) senza apparente collegamento tra loro. La vicenda comincia ad assumere caratteri sempre più inquietanti quando le vittime, prima di venire eliminate, non solo non sembrano affatto temere la morte, ma arrivano al punto di ringraziare i propri killer al momento dell’esecuzione. E dal thriller che era, il film si trasforma all’improvviso in film dell’orrore crudo e radicale, figlio di quelle atmosfere rurali tipiche del folk horror. Misterioso e inafferrabile, Kill List è un film sorprendente e difficilmente classificabile che fa della volontà di non spiegare nulla il suo punto di forza.
A Field in England: l’orrore inefferrabile
La tendenza di Wheatley a creare mondi tanto fascinosi quanto insondabili viene portata alle estreme conseguenze con il suo film successivo, A Field in England (2013). Siamo nel diciassettesimo secolo, nel bel mezzo della guerra civile inglese. Tre soldati, sopravvissuti alla battaglia, disertori, si uniscono a un quarto strano personaggio, il quale afferma di essere in missione per conto dell’alchimista suo maestro. Insieme vagabondano per la campagna inglese giocandosi scherzi e raccontandosi storie, fino a giungere al campo che dà il titolo al film. Qui trovano una spessa corda legata a uno strano oggetto di legno conficcato nel terreno, e dopo averla tirata (o esserne tirati…), ecco che accade qualcosa. Come per i due film precedenti non è molto semplice comprendere ciò che ci viene mostrato sullo schermo. Nuovamente, protagonisti assoluti non sono la narrazione o la caratterizzazione dei personaggi, quanto le visioni, gli squarci surreali, le sequenze ipnotiche ora inquietanti, ora poetiche, ora commoventi. Il tutto girato con una raffinatissima fotografia monocromatica e con un gusto non comune per l’inquadratura, come dimostrano i sorprendenti tableaux vivants o le sequenze stroboscopiche. Se Kill List rimane, almeno a un primo livello, un film capace di intrattenere, A Field in England, così come Berberian Sound Studio, non è per tutti i gusti e richiede allo spettatore una notevole dose di pazienza e sforzo intellettuale. Tuttavia, la ricompensa è davvero qualcosa di originale e inedito, soprattutto se proveniente da film classificabili in questo vasto e sfaccettato genere che è l’horror.
Dead set: lo zombi-reality
Infine, passando dal grande al piccolo schermo (e tirando il fiato dopo le fatiche dei film precedenti), è impossibile non citare la miniserie Dead Set, creata dal geniale conduttore, sceneggiatore e produttore inglese Charlie Brooker, già autore della serie fantascientifica Black Mirror. Il tema è quello dei più classici, quello dell’epidemia zombi (che sembra godere di fortuna illimitata, tanto in Europa quanto – e soprattutto – in America, come vedremo), ma a spiccare per originalità è stavolta l’ambientazione: l’azione si svolge per quasi tutte e cinque le puntate all’interno dell’edizione inglese del Grande fratello, e i protagonisti sono i partecipanti, il produttore e i membri della crew tecnica. Grazie anche all’esiguo numero di puntate, Dead Set procede rapido e teso, martellante nel ritmo e privo di filler, ricco di azione e abbondante nel gore. Rispetto a Black Mirror la componente satirica è ridotta e limitata all’idiozia dei partecipanti dello show e alla volgarità dei produttori, ma i personaggi sono ben scritti e il ritmo incalzante, e a trionfare è l’intrattenimento puro e semplice.