«Perché? Cosa stiamo facendo? A che scopo?» Chiuso il libro, è finalmente questo il dubbio che segna il ritorno dello sguardo del lettore al contesto urbanistico pure già noto, in cui si consuma una parte della quotidianità di molti. Anche l’osservatore già attento e consapevole si porrà, magari con più lucidità, queste domande, come una forma meglio individuata di quel vago senso di malessere provato durante le inevitabili traversate di certi spazi extraurbani e allo stesso tempo extrarurali, alla fine indefinibili, così tipici del Nord Italia.
Raccordi e arterie stradali, aree industriali, centri e agglomerati commerciali, nuclei residenziali sparpagliati fuori città, fuori paese, ma neppure in campagna (a meno che per campagna non si intendano quei residui di prati spezzettati da manufatti di ogni foggia e dimensione) sono l’oggetto dell’Atlante dei Classici Padani (2015), che raccoglie e ordina il materiale fotografico e verbale collezionato dalla pagina Facebook Padania Classics. Concepito come «osservatorio della Macroregione», il progetto è condotto dal 2010 dal fotografo e artista Filippo Minelli, secondo le linee di un lavoro di ricerca «volto a identificare il paesaggio, l’estetica e l’architettura contemporanei della “Padania”», avendo assunto – con sottinteso sarcasmo – a indicazione “sociogeografica” il nome dello sgangherato disegno politico leghista.
L’Atlante – nei contenuti, nella loro organizzazione e nella postura autoriale – rivela e bene serve la natura e l’intenzione del progetto: la proposta di uno sguardo critico su questa regione geografica e umana. Al livello materiale e grafico del libro, dove il risultato complessivo è anche esteticamente felice, lo sfruttamento delle potenzialità di elementi quali lettering, colori ricorrenti di sfondo delle pagine, disegni, schemi e schede asseconda la scelta di un rigoroso ordinamento dell’Atlante a livelli (argomenti, capitoli, sottocapitoli), spiegato in una pagina introduttiva in cui pure sono illustrati i «Sistemi di navigazione» (codice del materiale, localizzazione, contenuti della pagina). In questo disegno, che conferisce al volume un senso di rigore e analiticità da ricerca scientifica, sono istallate le fotografie, il suo vero oggetto: scattate da un punto di vista neutro, presentano nella loro nota e nuda – e di norma sui toni del grigio cemento – realtà gli elementi del paesaggio sopra elencati. Accanto vi sono istallate le parti testuali, le introduzioni ai temi e alle sezioni, e le didascalie apposte ad alcune fotografie esemplari: qui elementi di linguaggio ancora una volta tecnico si miscelano ai toni di un’ironia fatta di iperbole, parodia, con punte di vero e proprio sarcasmo.
Composto da questi ingranaggi testuali e paratestuali, il meccanismo del sezionamento critico dei “classici padani” funziona alla perfezione. In primo luogo ponendoli nella posizione più congeniale a un’osservazione diversa da quella abituale. Capannoni, strade e rampe, discariche, i famigerati “Compro oro”, insediamenti commerciali e abitativi sconnessi, e per giunta imbellettati secondo i canoni di una tristezza infinita, scorrono infatti abitualmente nel nostro campo visivo; li vediamo, anche per via della loro natura ingombrante, chiassosa, dichiaratamente esibizionista, che si palesa in insegne, luci, decorazioni, manifesti pubblicitari e un florilegio di palme, palmette, piscine di plastica e nani – ma anche statue animalesche o similneoclassiche – da giardino (su questo aspetto torna utile il volume di Giandomenico Amendola su La città postmoderna, per quanto i “classici padani” raccolgano i cascami stereotipati di quella tendenza più squisitamente urbana). Ma poi rimuoviamo presto tutto ciò dalla nostra percezione e dalla nostra attenzione, di norma senza sottoporli a un processo di giudizio a livello di estetica e di senso. Come si fa con le cose date per scontate. Sono insomma, questi, i classici oggetti che il comune osservatore (la natura social del progetto Padania classics non colloca il lettore necessariamente tra i cultori di urbanistica e geografia umana) tenderebbe a tagliare da una fotografia, magari dedicata a uno scampolo di paesaggio giudicato gradevole e a essi adiacente. Nell’Atlante gli stessi manufatti sono invece i protagonisti delle fotografie, disposte in pagine costruite con una larga misura di bianchi: isolati, come si fa con le opere d’arte o gli elementi di interesse, essi diventano oggetto di attenzione e, inevitabilmente, di riflessione. Il processo critico inizia, stimolato e indirizzato dall’ironia tagliente delle didascalie e dei commenti verbali.
Isolare la foto, altrimenti anonima, di un cantiere; associare all’oggetto della gru l’idea dell’erezione e parlare della carica erotica del «vedo non vedo» prodotto dalla graticola semovente (per giunta in una scheda “tecnica” dedicata a questo manufatto) sono i modi per smascherare la smania, la voracità quasi istintuale per il costruire e il fare che impera nella Macroregione. Per l’uomo di queste terre, il costruire è quasi atto da mito fondativo: l’Atlante svela «l’epica del cantiere», come fonte di soddisfacimento intimo di un bisogno primario, quasi sessuale. Nel capannone si ravvisa la virilità, nella villetta ad esso adiacente la corrispondente parte femminile, destabilizzando così la certa e storica giustezza della tipica architettura dell’azienda familiare. E per inciso, a proposito di questa irridente chiave di lettura erotica dei manufatti e del fare “padani”, la sua associazione all’armamentario della toponomastica leghista (Padania, Macroregione…) assunto nell’Atlante, non può che ricondurre a quel machismo di certi paradigmi politici e sociali nati e cresciuti sopra il Po e oggi ampiamente esportati per la Penisola tutta. Anche la storia della Lega Nord e del concetto di Padania è, in un capitolo preliminare, individuata e sinteticamente riferita nel libro con parole e immagini: il meccanismo descritto a cui sono sottoposti i “classici padani” si replica per questo frammento di storia politica italiana, che messo finalmente a fuoco nell’isolamento della pagina rivela tutta la sua tragica e grossolana superficialità.
Smascherati dunque il cosa e il come, l’esercizio critico si arricchisce della ricerca del perché. Perché nella Macroregione si fa così? La risposta non sembra essere quella di una razionale funzionalità. Le autostrade, specie quella di recente inaugurazione, sono l’esito del «modo residuale e vorace con cui si progettano le infrastrutture»: in maniera non meditata, non organica, «senza una visione d’insieme»; si fanno per farle, si potrebbe concludere, anche alla luce del fatto che le nuove che assediano Milano rimangono sostanzialmente inutilizzate. Così come molti capannoni e manufatti in generale rimangono vuoti, abbandonati o mai impiegati, prima testimonianza nel paesaggio della Macroregione di quel «disastro» – altra parola chiave dell’Atlante – che sembra alla fin fine incombere sull’operosissimo formicaio padano; le gallerie fotografiche dei non finiti e dei luoghi abbandonati, su cui talvolta ancora campeggiano le insegne che inneggiavano alla possibilità di consumismo totale e “scacciacrisi”, sono tra le più forti e significative del volume.
Se tutto questo non serve, come le case costruite e invendute, perché allora lo si fa? Neppure quella di una vita più confortevole sembra la risposta. L’Atlante si sforza di mettere in luce la natura innaturale – e alla fine disagevole, spaesante – del modello di antropizzazione “padano” della fascia di non-città e non-campagna: le cave abbandonate immiseriscono il paesaggio, ferite inferte da un modello di sviluppo economico ed edilizio insostenibile e ora esangue; i rifiuti si accumulano, le discariche e gli inceneritori crescono, si integrano nel paesaggio e si camuffano alla ricerca di una legittimazione estetica, come a inverare l’inquietante possibilità di una poetica della spazzatura al modo di DeLillo in Underworld. Allora si ripiega nel microcosmo del giardinetto o del retro del capannone, addobbati allo scopo ma senz’anima, quasi secondo lo standard imposto dalla grande distribuzione dell’arredamento, ripetitivo, senza un guizzo di intenzione identitaria e personale. La piscina di plastica vuota, oggetto di molte fotografie, giace inutilizzata a sbiadire appoggiata a una delle formidabili recinzioni: «murati vivi» è l’opportuno titolo di una didascalia. Vivere e morire a Treviso, opera di un progetto musicale nato significativamente in una sala prove di Marghera, tragica perla del tessuto produttivo “padano”, è la colonna sonora ideale per la lettura degli argomenti «Quotidiano» e «Tempo libero» dell’Atlante. No, quella forma di soddisfacimento che nella Macroregione si trae dal fare, dalla gran norma della produttività, non sta nei risultati, nei frutti, in un “vivere bene”: perché sono costati il tempo, lo spazio (giustificando i moniti di Gillo Dorfles nel suo Horror Pleni), e anche le energie in cui e con cui, eventualmente, goderli.
Perché, allora, a fronte di tanti costi, di tanta fatica, di tanti danni, si fa? Per fare, verrebbe da dire. Ed è questa la tesi di fondo di questo Atlante dei Classici Padani. Il fare per il fare. Secondo un riflesso acquisito e tramandato nelle generazioni. Talvolta con un qualche tornaconto, talaltra nemmeno con questo. Si fa, e si guarda tutto ciò, troppo spesso, senza una verifica di senso. Per questo il libro, e il progetto tutto di Padania Classics, oltre a reggere in quanto ai meccanismi interni descritti, appaiono felicemente concepiti. Perché incoraggiano e determinano l’esercizio critico delle domande: «perché?» «A che scopo?», fino a farne uno strumento di indagine collettiva. L’Atlante è stato finanziato con un crowdfunding online ed offline, «attraverso il quale numerosi donatori privati hanno sponsorizzato il progetto rendendolo partecipativo». Il progetto della pagina Facebook si arricchisce e vive degli invii degli scatti dei numerosi fruitori.
Non si tratterà questo, naturalmente, di un atto culturale che modificherà la natura e le sorti della Macroregione; ma può modificarne la percezione da parte di alcuni, contro la diffusa assuefazione ai “classici padani”. Che oltre a essere classici sono brutti e soffocanti. Anche se, per l’uomo della Macroregione, comunque sia, «tutte le rotonde escono col buco».