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Eliminare l’assoluto? – Intervista a Lorenzo Carlucci

Quando mi è stato chiesto quale autore volessi intervistare, fra quelli antologizzati nel Dodicesimo quaderno di Marcos y Marcos, non ho avuto dubbi sulla mia scelta. Non ho mai incontrato Lorenzo Carlucci. Avere un dialogo con lui mi interessava soprattutto per due motivi: innanzitutto perché è un poeta che non perde tempo a fare il poeta, cioè ad autorappresentarsi senza sosta (in modo più o meno patetico); quindi perché scrive soprattutto testi in prosa, tuttavia le sue prose sono diverse da quelle che oggi vengono considerate à la page. Ero in cerca di un autore in grado di descrivere un’idea di poesia e una visione del mondo, senza parlare di facili emozioni né riprendere topoi critici. Penso di avere ottenuto ciò che cercavo.

Claudia Crocco: Vorrei cominciare parlando di Prose per Baal, la plaquette contenuta nel Dodicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea a cura di Franco Buffoni, uscito questanno per Marcos y Marcos. Nel sottotitolo si legge: Una selezione da La comunità assoluta e Sono qui solo a scriverti e non so chi tu sia.  La comunità assoluta è un libro che hai pubblicato nel 2008; Sono qui solo a scriverti e non so chi tu sia è ancora inedito. Come sono nate queste due raccolte? Come hai iniziato a scrivere?

Lorenzo Carlucci: Come ho iniziato a scrivere? Dunque, La comunità assoluta è uscita nello stesso anno di un’altra raccolta, intitolata Il ciclo di Giuda. Ho scritto La comunità assoluta mentre facevo un dottorato negli USA. Alcuni testi sono ancora più vecchi; mi succede spesso di recuperare delle cose vecchissime che mi ritrovo tra le mani, dalle quali ritaglio alcune parti. Ma quella è stata scritta in particolare negli Stati Uniti, in un anno in cui sono stato in un paesino di provincia abbastanza marginale in solitudine quasi completa. Ho cominciato a scrivere la raccolta sull’onda di quella situazione esistenziale e delle letture che facevo in quel luogo.

Era la prima volta che scrivevi poesie?

No, ne scrivevo da molto tempo, anche se discontinuamente. Scrivevo poesie da adolescente e avevo pubblicato una piccola raccolta (molto rilkiana, se vuoi) già diversi anni prima, verso i diciotto o diciannove anni. Poi ho smesso di scrivere ‒ voglio dire, ho smesso di scrivere cose che avessero una certa coerenza e di pensare a pubblicarle; non avevo ancora neanche iniziato a guardare il panorama poetico circostante. Il primo testo che avevo pubblicato, in realtà, era stato un caso: un mio compagno di liceo curava un libro per un progetto legato agli Aeroporti di Roma e ci sono finito anche io. Però ero completamente sconnesso dal mondo della poesia contemporanea, ed è stato così per tanto tempo. Ho scritto in questo modo, per me, durante gli anni dell’università; poi mi sono riaffacciato a questo mondo sempre tramite questo amico, che era Jacopo Ricciardi. Lui doveva preparare di nuovo dei progetti per Scheiwiller e Aeroporti di Roma, così ci siamo letti insieme molti poeti contemporanei che mandavano i loro elaborati. Infine, sono arrivato  ai blog letterari. A quel punto ho pubblicato le due raccolte, che sono uscite insieme.

All’interno di La comunità assoluta è già presente una caratteristica formale (e strutturale) che rimarrà nella raccolta successiva, cioè lalternanza di verso e prosa. Questo mi ha incuriosita. La poesia in prosa oggi è molto di moda, e spesso viene letta come un tentativo di superamento del genere poesia. Se segui i blog letterari, sai di cosa sto parlando. Eppure la genealogia poetica del testo poetico in prosa novecentesco è più sfaccettata, ancora da ricostruire. Da qui la mia domanda. Come mai alcuni dei tuoi testi  non sono in versi? Come hai iniziato a scrivere poesie nelle quali non si va a capo se non quando finisce il rigo tipografico? E perché lo fai?

Sì, è vero, ci sono famiglie di poesia in prosa molto diverse. Qualunque cosa – poesia in prosa o cut up – viene decerebrato o devitalizzato, quando ridotto a grammatica e a scuola. Guarda, io l’ho sempre fatto, e per ragioni soprattutto di influenza, se vuoi. C’entra la mia formazione su autori che non si intersecano con la tradizione italiana. Cerco di spiegarti, anche se non è una tecnica ragionata: è un’abitudine. Deriva dal fatto che per me scrivere è legato a studi filosofici, dunque si tratta di appunti. Fin dall’inizio la forma verso era un episodio occasionale: un momento particolarmente intenso o rilevante o di sintesi veniva scritto in versi; per il resto scrivevo e scrivo per lo più in prosa. Spesso la prosa, almeno nelle raccolte che ho pubblicato, è più metrica del verso.

Volevo arrivare a parlare anche di questo. In alcune delle tue prose è facile scovare endecasillabi e altri elementi metrici e prosodici tradizionali. Lo nota anche Dal Bianco nella nota introduttiva a Prose per Baal.

Io alternavo prosa e verso perché per me si trattava di riflessioni filosofiche, più che di componimenti poetici veri e propri. Alla poesia affidavo un compito di sintesi e di punteggiatura del macrotesto. E questa è diventata un’abitudine. Poi perché la prosa sia ritmata, non saprei. Per me ha a che fare con i testi biblici e con la tradizione ebraica come ideale, come prosa ritmica di quel tipo lì. Negli anni ho avuto modo di leggere anche esempi di prosimetri e di cose italiane che mi hanno influenzato, probabilmente…

Ad esempio?

Mah, ad esempio Sbarbaro.

Sbarbaro prosatore, intendi? I Trucioli?

Sì. E, prima ancora, Campana.

La prosa di Campana è poetica anche in quanto lirica. Il punto di vista dellio quasi deforma il paesaggio circostante, lo filtra e lo rappresenta in modo del tutto soggettivo. Invece la componente poetica delle tue prose – ciò che le sottrae al campo della prosa narrativa o saggistica – ha a che fare con la prosodia e con la postura filosofica.

Sì, è vero. Però Campana come lettore di Nietzsche, ad esempio, mi interessava.

Capisco. Nelle ultime risposte hai sfiorato altre questioni che volevo affrontare. Partiamo dalla prima: come mai fai riferimento ai testi biblici, allebraico?

Quei riferimenti sono presenti perché leggevo di continuo quei libri. È un po’ vacua come risposta, me ne rendo conto. Partiamo da questo, però. Ho sempre avuto un interesse molto spiccato per la letteratura religiosa: la teologia medievale, il testo biblico, i padri della chiesa, la letteratura mistica ebraica e cristiana. Così come ci sono i miei figli, ci sono anche queste altre cose con le quali ho a che fare quotidianamente, che per me sono importanti. Che significato hanno, poi, è un discorso enorme. Che significato ha la religione?

Dunque la poesia ha a che fare con la religione? Mi viene in mente un tuo testo, Metodo 6, dove si legge: «Ancora una volta, si vede davvero, che dietro al problema del noto equilibrio tra canto e parola, vi è sempre e soltanto il problema del concetto del mondo». Ho limpressione che il problema del «concetto del mondo» sia al centro della tua ricerca.

Questo senz’altro. La poesia è sempre una illustrazione di concetti e una espressione, la raffigurazione di un’idea del mondo.

Beh, questo non è scontato. Non direi lo stesso per tutte le poesie contemporanee.

Lo so. Per me tutte le forme di espressione umana sono tentativi di dare forma a un concetto del mondo. La poesia è più consapevole e ha delle peculiarità, ad esempio il fatto di essere molto sintetica e molto vicina alla dinamica della coscienza umana. Dato che evita il concetto in quanto tale…

In che senso evita il concetto in quanto tale?

Nel senso che considera il concetto soltanto “quo ad nos”, ossia per come esso può essere ricevuto da una coscienza individuale e per come esso possa integrarsi nella dinamica di una esistenza individuale.  Lo dice molto bene Pascoli: «il poeta è quello e la poesia è ciò che DELLA SCIENZA FA COSCIENZA».  Inoltre la poesia non è uno strumento trasparente di espressione della verità. La poesia si pone in quanto strumento consapevole di avere una sua consistenza estetica, la quale è rilevante ai fini dell’espressione. Le cose sono un po’ diverse per la filosofia, che fino almeno al secolo scorso non rifletteva su se stessa come mezzo, e che comunque questo problema non lo aveva se non concettualmente (la Retorica di Aristotele, le categorie ecc…). Studiamo filosoficamente la natura dei mezzi con cui facciamo filosofia. Però, ogni volta che ciò accade in un testo filosofico, la riflessione si stacca dall’oggetto e riflette su di esso. Nella poesia viene tutto compresso, anche quando c’è metapoesia. Mi pare che il meccanismo della poesia non possa oggettualizzare, cioè porre in oggetto qualcosa e ragionare su di essa con altri strumenti, creare una gerarchia di livelli di espressione. Io nella vita mi interesso di filosofia, di religione, di varie cose; queste rientrano nella poesia, perché io che la scrivo me ne interesso. Ecco, si potrebbe minimizzare così, guardando dall’esterno. Non necessariamente penso che la poesia debba parlare di quelle cose, se scritta da altri. Però è importante che il concetto del mondo di chi scrive si esprima il più compiutamente nella poesia che scrive. Ciò non vuol dire per forza che sia necessario l’autobiografismo; è piuttosto un modo di rappresentare l’esistenza, una traccia di una coscienza di una persona X.

E a chi si rivolgono i testi? Chi è il tu ricorrente?

Di solito è un “tu” astratto, in alcuni casi poi è una persona concreta. Ma l’importante è che possa riferirsi a qualunque altro soggetto.

A proposito di figure astratte o concrete, cosa rappresenta la figura della danaide?

È la mitologizzazione di una figura reale. La madre dei figli che ho. Ma non importa realmente chi sia.

Mi ha incuriosito il personaggio mitologico perché nella prima raccolta ci sono anche molti dialoghi. Come tecnica lhai abbandonata, in seguito

Un po’ perché ho visto che diventava una tecnica sempre più usata. Ma c’è anche un altro motivo, esistenziale e biografico. La prima raccolta è stata scritta in uno stato di solitudine reale. E quindi, in uno stato di solitudine reale, l’uomo cerca un dialogo. La seconda opera è stata scritta in una situazione di rottura di un dialogo reale e di spinta a monologare. Penso che siano cose alle quali tutti vanno incontro, e che dunque possono essere condivise.

Inizialmente tenti anche forme di scomposizione del verso. Ad esempio, enespace11. Questi versi spezzati sembrano quasi neoavanguardisti, ma è unaltra tecnica che poi abbandoni.

Sì, ora completamente. Anche lì è residuale, è abbastanza raro in quella raccolta. Nel mio bagaglio di influenze dirette del primo periodo di formazione ci sono le avanguardie storiche ma pure, per esempio, il simbolismo. Sono tra le prime cose che ho letto e che mi hanno appassionato alla poesia: le avanguardie storiche italiane e non. Non mi piace che una poetica sia basata solo sull’aspetto formale della faccenda; ma mi piace che, in quanto parte di un bagaglio ormai condiviso, queste tecniche vengano inserite in altri contesti, più liberamente. È uno degli usi acquisiti della parola e del verso che possono essere impiegati senza che questo significhi una dichiarazione di credo a qualche dogma o filosofia di riferimento.

Sono daccordo. Quali autori hanno inciso di più sulla tua poesia, su ciò che cerchi attraverso il verso?

Ti dico la lista di quelli che ho letto di più nei periodi iniziali di formazione: Rilke, Lorca, Dante, Cavalcanti, Petrarca, Shakespeare, Stănescu, Eliot, e Jarry. L’unico italiano che inizialmente mi ha davvero influenzato è stato Luzi, per il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini

Questo non lavrei mai detto.

Quel libro, però, non altri. In seguito ho letto le altre cose, ma quando ero giovane ho letto il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini e mi ha molto influenzato.

Tornando al Dodicesimo quaderno curato da Buffoni: vedi parentele rispetto agli altri poeti o senti una totale estraneità? Secondo me non centri nulla, ad esempio.

Neanche secondo me. Comunque è stata una bella sorpresa. Sarà stata la terza volta che mandavo i testi ai Quaderni. L’ho fatto una volta all’inizio, su suggerimento di Damiani; poi, più o meno, ad anni alterni.

E rispetto alla poesia italiana contemporanea come ti collochi? Ti interessa, innanzitutto?

Certo, mi interessa molto. Anzi, diciamo che, da quando ho cominciato a leggere, l’ho letta continuativamente. Ho iniziato con i blog letterari quando ero fuori dall’Italia.

Quali blog leggevi?

Absolutepoetry, LiberInVersi, La poesia e lo spirito, La dimora del tempo sospeso. Poi Nazione Indiana, ma solo per litigare.

Ho letto il tuo intervento su Nazione Indiana sulle nuove avanguardie.

Quello non era scritto per litigare sul web, anche se poi è andata così.

Io lho trovato interessante. Perché litigavi, dunque?

Perché vedevo cose che ancora ora mi danno fastidio e ritengo deleterie. Mi riferisco alle poetiche chiuse, alle formazioni calcistiche, ai tentativi ridicoli di formarsi una genealogia per inserirsi in un canone. Mi riferisco sia alla parte neo-avanguardista sia a quella montaliana.

Non la definirei montaliana. Gli autori ai quali ti riferisci non centrano con Montale, se non perché lo usano come archivio di citazioni.

Allora diciamo la parte di chi come nonno si sceglie Montale. L’adozione non è colpa del nonno.

Mi divertivo a fare queste cose. Poi le formazioni e le dinamiche sociali mi hanno sempre divertito, anche perché ero un osservatore esterno. È stata anche una bella esperienza. Partivo prevenuto, ho avuto molti vantaggi: ad esempio non è il mio mestiere, dunque non me ne fregava nulla di dire al tipo di turno che era un imbecille. Stavo fuori da quel giro, non mi interessava farne parte… E poi non avevo l’ossequio per la tradizione italiana contemporanea, per via della mia formazione scolastica. Del Novecento avevo letto solo Campana, Sbarbaro e poco altro; del secondo Novecento amavo molto Pasolini, ma per il resto avevo letto giusto l’antologia di Sanguineti, e per me erano pippe. Sbagliavo su molti di loro, certo. Vedere un mondo in cui erano osannati come se fossero Leopardi mi faceva ridere. Ma anche lì avevo gioco facile, perché non avevo avuto quella formazione. Comunque è stato positivo per me, perché ho conosciuto anche poeti che mi piacciono tanto.

Quali? 

Beh, molti. Tra i miei più o meno coetanei direi Ronchi, Baldi, Di Spigno, Lanfranchi, Zuliani. Tra i poeti di generazioni precedenti, il primo è stato Damiani. Mi piacque, gli mandai la prima raccolta su un file text. Anche Dal Bianco mi piace. Ma sono cose che ho letto negli ultimi anni. E mi piace di più l’ultimo libro dei precedenti.

Per me è il contrario. Considero Ritorno a Planaval, che è del 2001, il suo libro migliore.

Non l’ho mai posseduto, ma mi piaceva.

Nei tuoi testi c’è sempre uno straniamento rispetto alla realtà rappresentata. La persona che parla vive in un mondo di cui riporta particolari quotidiani, ma accosta scene ed episodi logicamente scollegati, passa dal tu al voi senza continuità logica (ad esempio qui: «Tra una pattumiera e un distributore, su una panchina rossa / La mia  vita è uno straccio. / È evidente, il mio cuore ti accoglie come un cielo. / [] Le mie mani sono vuote. Il mio petto respira il respiro del cielo./ [] Voi andate, avete sangue. Andate», Enespace10 ) Questo produce un effetto di straniamento. Volevo sapere se ti  ritrovi in quanto ho detto e se si tratta di una forma di critica al mondo che rappresenti.

Ci sono entrambe le cose. Se mi chiedessi se l’effetto di straniamento sia ricercato per dire al lettore: «Guarda, devi essere straniato per questo questo ecc..», ti direi di no. Non si tratta di un effetto mimetico: chi dice “io” è straniato, in questo caso. Se una mano ha cinque dita, l’impronta avrà cinque dita. Non c’è un tentativo ‒ se non contingente ‒ di mettere in risalto quell’aspetto rispetto al mondo circostante. È solo che, nell’esperienza, si tende allo straniamento più che alla comunione. Certo, mi sarò chiesto se si trattasse solo di un’esperienza mia o meno, altrimenti non avrei cercato di pubblicare la raccolta. Però ecco, non è che ci tenessi a dire a chi legge che deve essere straniato, come succede in certa poesia. Capisci cosa voglio dire?

Sì.

Quindi, se c’è uno straniamento, vuol dire che c’è qualcosa che non va, nel soggetto o nel mondo esterno. Secondo me un po’ di qua e un po’ di là.

«Dal distributore dal quale mi aspetto che esca / una coca-cola / esce una coca-cola»Leggo ancora da Enespace10. Questa poesia è una descrizione dellangoscia. Chi scrive si trova in un contesto banale, seduto su una panchina in un parco, e tutto ciò che lo circonda – la vita stessa – gli è «insopportabile». Gli oggetti che descrive sono semplici (la panchina, le buste della spesa, la pattumiera), ma la loro rappresentazione è accostata a quella di sensazioni interiori. Leffetto è di straniamento; gli oggetti stessi risultano inquietanti, come se amplificassero lansia di chi scrive.

Le cose sono descritte nell’ordine in cui può percepirle un soggetto. Il disordine è fenomenologico, percettivo.

Ed è permeato di elementi violenti.

Che sono elementi pulsionali della soggettività umana, dai quali sarebbe strano prescindere.

Capisco. Torniamo al tuo testo. La conclusione che ho citato mi ha ricordato la conclusione di una celebre poesia di Sbarbaro, Taci, anima stanca di godere. In quel caso il tormento interiore di chi parla si conclude con laccettazione del mondo nella sua finitezza e mancanza di trascendenza; leffetto è amplificato da una celebre tautologia.

Mi stai dicendo che ho fatto una prosecuzione della tautologia di Sbarbaro? Io vorrei scrivere una cosa sulle tautologie estetiche in poesia e sull’estetica della tautologia. Quindi mi interessa. Parliamone.

Daccordo, parliamone. Sbarbaro scrive che «E gli alberi son alberi, le case / sono case, le donne / son donne e tutto quello che è  che gli alberi sono alberi, le donne che passano son donne, e tutto è quello / che è, soltanto quel che è»La tua non è propriamente una tautologia. Notavo, però, che da un lato descrivi un mondo in cui le percezioni sono caotiche, lunica legge che organizza parole e cose è quella dellangoscia interiore; dallaltro la poesia si conclude con la descrizione di un oggetto meccanico, un distributore, che fa esattamente ciò che ci si aspetta da un distributore: fa uscire una lattina di coca-cola. È un altro evento banale. Eppure sembra che sia lunica azione del testo non caricata di angoscia, quasi ne venisse accettata la mancanza di significato. Ma non forzerei il paragone.

Tu hai scritto qualcosa su questo, sulle tautologie?

Penso di sì. Ma non è una osservazione originale. Credo di averne sentito parlare per la prima volta durante un corso di Guido Mazzoni, a Siena; contemporaneamente ho letto le pagine di Pier Vincenzo Mengaldo su Sbarbaro (nella sua antologia e in alcune raccolte di saggi).

E cosa se ne dice? Voglio dire, come se ne parla? Perché credo che ci sia è una constatazione. C’è anche nei libri di Mazzoni stesso, sintatticamente. Poi cosa significhi è altro conto.

Credo che a un certo punto, soprattutto a inizio Novecento, sia una accettazione della finitezza del mondo e una rinuncia alla proiezione metafisica in poesia. La poesia di Sbarbaro è così. Anche nei testi di Montale accade qualcosa di simile. Nel Novecento la tautologia percorre trasversalmente molta poesia lirico-tragica.

Sì. Ma è anche una forma della trascendenza. Ha un’origine anche di derivazione wittgensteiniana, secondo te?

Dipende. Cosa intendi esattamente per accezione wittgensteiniana, in questo caso?

Senza tirare in ballo cose orientali, zen ecc., anche nella mistica occidentale ci sono forme di questo tipo. L’unica forma corretta per esprimere la trascendenza è quella della tautologia o della contraddizione. Sono forme complementari, ma servono a esprimere quel concetto. Tu puoi dire che si riconosce il limite nel riconoscimento della trascendenza. Il limite si dà solo sullo sfondo di una trascendenza, di un oltre. Il limite è un riconoscimento del finito sullo sfondo dell’infinito.

E qual è loltre?

Ah, questo è da vedere. Però, se vedi… prendiamo il libro di Mazzoni, che conosciamo entrambi.

Sì.

Dunque, se questi autori hanno fatto questo da una prospettiva materialistica, hanno fatto una cosa che forse neanche volevano, ma che si sono portati dietro. Perché anche il libro di Mazzoni ha una parte moraleggiante.

In che senso?

Nel senso che è un percorso di liberazione, è un percorso volto a qualcosa di identificato come bene. È un po’ difficile da spiegare.

Il mio stupore deriva dal fatto che lo definirei un libro senza prospettive trascendenti.

Certo, è vero: quella è l’ideologia consapevole del libro. Ma le forme che usa per dirlo hanno dentro un riferimento a una forma di trascendenza.

E sarebbe?

Se tu prendi Wittgenstein, diresti che il Tractatus distrugge la metafisica. Però una delle pochissime cose di cui viene riconosciuta l’indubitabile esistenza è il mistico: «V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé: è il mistico». E non si può dire se non mostrandolo: ecco, questo è quello che fa Mazzoni. La forma di tautologia non è informativa, perché non dice nulla. È informativa nel suo non dare altro se non una informazione concettuale. Stai dicendo che tutto quello che puoi dire sul mondo è quello. In Wittgenstein c’è indiscutibilmente una dimensione trascendente, perché così sta scritto anche se il suo libro è una distruzione del discorso sulla trascendenza e della metafisica occidentale. Secondo me, anche se non volontariamente, gli autori che ricorrono alla forma della tautologia si portano dietro questo discorso.

Dunque secondo te parlare della tautologia, quindi del fatto che le cose sono quello che sono, è automaticamente un modo di manifestare una nostalgia dellassoluto?

Sì. O, per essere più massimalisti: è una manifestazione dell’ineliminabilità dell’assoluto.

È interessante.

Di fatto quelle espressioni hanno una storia, anche in Occidente, che è legata alla mistica. Essendo così, va bene che sei un ex marxista e vuoi dire certe cose in modo diverso, ma se usi quelle ti porti dietro la tradizione che hanno.

E nel tuo caso dal distributore di coca-cola esce la coca-cola Non è una tautologia, ma è comunque una accettazione della prosaicità del mondo.

Sì. Ed è anche una cosa molto positiva per il soggetto. Perché taglia la parte pulsionale, che rimane delusa nel rapporto col mondo. 

«Non credo si possa desiderare di fare qualcosa della propria vita. Tutte le forme sono rotte. Canto» (La selva a Mirigliano). Mi hai fatto venire in mente questo tuo testo. La rinuncia alla realizzazione nella vita attiva, il senso di impotenza dellio, costituiscono un altro topos della poesia contemporanea.

Non tanto di realizzarsi, quanto di ordinarsi a una realizzazione. Impossibilità giusta e benefica di non tramutare sé in un oggetto. C’è una forma dinamica non oggettivabile dell’identità.

In un testo di poco successivo parli di guardare luomo come se fosse un animale di unaltra specie. Scrivi che questo è un modo di sapere «tutto quello che  conta sapere nella vita». Mi chiedo se tutta la tua poesia possa essere considerata un modo di parlare delluomo come se fosse di unaltra specie, per poterlo comprendere meglio.

Quella è una forma che ordina la comprensione. Poi non può essere normativa, è una postura utile alla comprensione; che è diverso dall’oggettivare la propria soggettività in senso normativo e manipolatorio, in un certo senso.


Qui si possono leggere le altre puntate del ciclo dedicato ai poeti del Quaderno di poesia Marcos y Marcos:

Tommaso Di Dio, Il crollo e il canto – per il XII Quaderno di poesia

Alessandro Giammei, Fingendo te. Intervista a Maddalena Bergamin

Alberto Comparini, La sabbia e il fuoco. Intervista a Maria Borio

 

Immagine di copertina: Danaide, di Auguste Rodin