Tra me e Marco Corsi – i cui componimenti, assieme a quelli d’altri sei giovani poeti, sono stati pubblicati nel Dodicesimo quaderno italiano della Marcos y Marcos, 2015 – si para una distanza fisica notevole. Ci si è visti due volte appena: a Salisburgo la prima, in occasione di una conferenza; a Firenze, per puro caso, la seconda. Di Marco non so nulla in particolare, ricordo poco la sua voce – ora disponiamo le domande via social network, una dopo l’altra, senza pianificazioni; simuliamo la nostra viva voce pestando tasti muti, lui a Milano, io a Padova.
D’altronde l’intervista, a sé e all’altro, assume al tempo di Facebook un ché del ready made. Ingenera abitudine la parola scritta, e, tesa sul filo del comunitarismo e dell’implicito bisogno di velocizzarsi, di frammentarsi, s’impoverisce; questo, fintantoché non si decide di fare di quello stesso mezzo un uso illecito. Di tradirlo.
Io e Marco, in due giorni, diciamo la poesia via Facebook. Eppure la mia voce e la sua non soffrono alcun imbarazzo. L’interrogazione è ipotesi, la risposta è principio d’ipotesi nuove. Ci diamo reciprocamente spazio, leggendo contemporaneamente e da angolature opposte le medesime parole poetiche. Che sia proprio la poesia a consentirci di scoprire per la prima volta qui, in un non luogo, uno spazio inedito e comune di dialogo?
Daniele Visentini: Marco, la poesia dà spazio alla vita? Forse tu ne sai più di me…
Marco Corsi: Lo spazio è una misura del tempo, quell’intermittenza musicale in cui prendono corpo le figure. Ultimamente mi trovo spesso a riflettere sul valore dell’ipotesi informale in pittura e per certi versi, pur con le debite cautele, scopro vicine certe necessità di campitura… La poesia, sì, come dici tu, è lasciare spazio tra quell’orlo che è il senso e il pensiero di chi incontra una parola. Quando scrivo, la mia preoccupazione maggiore è quella di calamitare le immagini intorno al nucleo del senso, per costruire una trama fono-sintattica più o meno capace di raggiungere l’idea “originaria”. Lo spazio bianco che viene dopo è la risposta di chi legge. Non è mia intenzione, mi ripeto, costringere qualcuno a un significato, ma trovare quel segno, quel minimo gesto che accenna una figura. Una figura che da più parti ciascuno, tu o io, può riscoprire come propria, appartenente a un immaginario archetipico, benché spesso modernissimo.
Parli di pittura. Perché, per la poesia, scegli questo termine di paragone? Lo spazio della pittura è spazio tridimensionale in potenza: l’osservatore di un dipinto non può prescindere da un momento di traduzione del linguaggio originario in un altro linguaggio – non può ‘dire’ letteralmente il dipinto, non può ‘ripeterlo’ se non vuole falsificarlo. Secondo te, in che cosa consiste la falsificazione in poesia?
Anche lo spazio della scrittura è tridimensionale solo in potenza: si muove tra l’ascissa del senso e il piano ordinato del ritmo. Allo stesso modo, io vedo degli oggetti discreti che intrattengono rapporti geometrici tra di loro: penso ai rapporti che redigeva Antonio Porta, un figurativo terribile in certe sue rappresentazioni, per la nudità che di fronte ad esse proviamo. Ecco, forse la terza dimensione della poesia s’insinua nel tentativo di mettere a nudo ciò che sta all’interno dell’uomo – dell’uomo che scrive e di quello che legge – fino a un estremo punto di tangenza che pure si riscontra all’infinito anche per i sentieri paralleli. Lo spazio è curvo, lo sappiamo; è il nostro adattarci alla superficie delle parole; crea inevitabilmente angolature che virano verso l’esterno. Nella direzione a loro più consona che non sta più né dentro al sostantivo né nella sua pronuncia.
Hai evaso la mia domanda? L’hai aggirata? Mi chiedo se in poesia, come tout court nel dialogo, come tout court in ogni tentativo di comunicazione, non si possa che procedere parallelamente, come dici tu, a ogni possibile forma d’alterità, scorgendola senza incontrarla. Non lascia una scia tragica, questo tragitto binario da un uomo a un altro uomo?
È, in fondo, il destino stesso della nostra esistenza. Quella continua ricerca di radici e speranze, di persone date o eventi dietro ai quali si scorge sempre una ineliminabile solitudine. Non penso al sentimento di vuoto romantico e post-romantico, ma a quella condizione laica per cui, vuoi le esigenze della materia, la nostra biologia, vuoi invece l’essere brullo dei pensieri, ecco, tutti i parametri che possiamo misurare sono come le traversine dei binari: tengono unito il cammino mentre segnano una distanza irriducibile.
È questa per te la «vita vissuta tout court, che non guasta»? La stessa che Franco Buffoni, stando a quanto scritto da lui stesso nella prefazione al Dodicesimo quaderno, ti “raccomandava” di mettere dentro ai tuoi versi?
La vita vissuta tout court per me coincide tanto con un dato di natura, quanto coi fatti di cultura. Non credo sia possibile un’interpretazione di ciò che è per noi quotidiano senza la preventiva mediazione di un mito, senza quella particolare maieutica e che porta subito alla coscienza, dopo un evento, tutta la tradizione, l’essere storico di quello stesso evento. Solo attraverso la codificazione di ogni gesto – non lo stereotipo, certamente – si può raggiungere la sintesi tra letteratura e vita: in quella terza dimensione che già dicevamo e che ora acquisisce nuovo spazio in senso trasversale, interumano. Peraltro non credo all’esemplarità dell’esperienza del singolo: per questo motivo qualcuno leggendo ciò che scrivo ha perso le coordinate oggettive del discorso e ha accennato a fenomeni astratti. Il percorso in levare ha diversi modi di astrazione.
A mio parere, il titolo della tua raccolta (da un uomo a un altro uomo) dà adito a molteplici interpretazioni. Mi sembra di scorgervi, in particolare, proprio questa non esemplarità, questa indeterminazione del singolo cui hai appena accennato. Mi sbaglio?
Ho inteso da un uomo a un altro uomo come titolo estremamente gestuale, immaginando un passaggio di consegne, un’eredità che davvero si affida di mano in mano. La mia generazione è in parte priva di padri e questo credo sia stato il motivo che più mi ha fatto riflettere sull’esigenza di mettere a fuoco i “motivi” della trasmissione, i legami davvero necessari. Mentre chiudevo la silloge, inoltre, stavo leggendo A single man di Isherwood (di cui rimane traccia tra le poesie per via di uno dei titoli, das glück, che a un certo punto compare nel romanzo come uno dei termini costretti ad indicare la “felicità”): ecco che allora quel da un uomo a un altro uomo ha acquisito anche il significato di una irrimediabile distanza, personale e, se vogliamo, anche politica. Politica nel senso antico, guardando con occhio non etico e non morale a quei rapporti di cui già dicevo, ma riducendo l’etica al suo aspetto reale, ad essere una sorta di guida attraverso la realtà stessa. Sul valore di padri, della tradizione, poi, questo ha agito soprattutto in senso musicale, espandendo le trame connettive di quanto mi sono provato a scrivere con quei grandi esempi del medio Novecento che più amo, dal Sereni del Posto di vacanza agli spazi metrici della Rosselli, alla certezza del verso di Giudici nello splendido esperimento di Salutz. Da qui discenderebbe anche il bisogno di chiarire cosa significhi per me il termine di eredità – e cosa intuisco si palesi come eredità negli scritti altrui. Per quello che mi riguarda, appunto, ancora nel titolo da un uomo a un altro uomo sono impliciti tutti quei mutamenti fisiologici che, di tratto in tratto, cambiano i profili esteriori della materia tradotta, pur senza alterarne la sostanza. Possediamo una tradizione talmente vasta da poterne abusare; il limite sta qui, credo: nella scelta consapevole dell’abuso.
Rimanendo su questo argomento, ho ritrovato nella tua raccolta una grande attenzione agli aspetti paratestuali e macrotestuali. La potenza evocativa dei titoli scelti per i singoli brani, l’altrettanto evocativa presenza di citazioni ed epigrafi, nonché la scansione stessa delle varie sezioni testimoniano, si direbbe, la volontà di costruire un edificio poetico saldo e coerente, tutt’altro che frammentario. Cosa puoi dirmi a proposito di questa tensione all’unità?
In termini compositivi, i titoli che scelgo per le sequenze di testo hanno una funzione ben precisa: servono a definire l’immagine centrale, di seguito scomposta quasi analiticamente dai ritmi della poesia stessa. Dire le acque, o le aquile equivale a ripulire il campo da eventuali equivoci, quasi appellarsi all’idolo platonico. Una volta fissato il baricentro, tutto ciò che gravita intorno assume un peso specifico diverso, non in termini di rilevanza, ma per la consistenza specifica che ottiene ad ogni movimento: così, ad esempio, le acque sono sintomatiche di una biologia nostalgica, che culmina nell’immagine dell’Alzheimer; così la biologia delle piante torna nell’elegia d’amore in das glück perché ipostasi ricorrente. Elementi testuali e paratestuali corrispondono al compromesso tra l’inconcludenza della parola e dell’intuizione, con la possibilità compositiva. Mi è capitato di dire a proposito di Mario Benedetti che la poesia può essere paragonata, ancora in termini artistici, allo studio per la composizione di un oggetto. Quell’oggetto che vive nell’immaginazione collettiva e che solo attraverso di essa, quasi per virtù archeologica, può divenire, a sua volta, poesia.
La domanda finale della mia intervista vorrei che fosse una domanda da parte della tua stessa poesia. Che cosa vedi, inquadrando da una certa distanza lo spazio lasciato alla composizione della tua tela?
Vedo il vuoto che precede e segue il gesto, forse ne percepisco come all’inizio il suono, il movimento breve o ampio della mano. Nulla di più.
Immagine di copertina. Concetto spaziale. Attesa @Lucio Fontana, 1964
Qui si possono leggere le altre puntate del ciclo dedicato ai poeti del Quaderno di poesia Marcos y Marcos:
Tommaso Di Dio, Il crollo e il canto – per il XII Quaderno di poesia
Alessandro Giammei, Fingendo te – Intervista a Maddalena Bergamin
Alberto Comparini, La sabbia e il fuoco – Intervista a Maria Borio
Claudia Crocco, Eliminare l’assoluto? – Intervista a Lorenzo Carlucci