Spagna, terra di lotte fratricide. E di fantasmi. Anche qui il genere horror ha trovato terreno fertile, assumendo forme inedite e inaspettate, con cineasti pronti a prendere il testimone del maestro Wes Craven. Tra i principali esponenti del genere c’è di certo il messicano Guillermo del Toro, che dopo i gradevoli Cronos (1993) e Mimic (1997) trova grande ispirazione nel periodo più buio della storia recente spagnola, la guerra civile e la conseguente dittatura di Francisco Franco.
La spina del diavolo: orrori dalla storia
La spina del diavolo (2001) è una (apparentemente) classica ghost story ambientata durante gli ultimi anni del conflitto all’interno di un orfanotrofio infestato da inquietanti presenze, un edificio fatiscente circondato da un ambiente brullo e desolato in cui la guerra, sempre incombente, non arriva mai. È soprattutto una gigantesca bomba inesplosa nel chiostro dell’istituto a ricordare la tragedia che si sta consumando nel paese, come un oscuro vessillo a memoria dell’ineluttabilità della guerra e della violenza. Il film ci ricorda però che oltre all’orrore del reale siamo costretti ad affrontare anche quello dell’irreale, qui impersonato dallo spirito di Santi, un orfano scomparso, ucciso, tornato infine dalla morte. Annunciato da passi strascicati, Santi perpetua la sua non-vita nei corridoi della struttura, nei dormitori, nella cisterna, risoluto a dimostrare ai suoi assassini che un fantasma non dimentica e che alla fine l’ingiustizia conoscerà la giustizia.
Nonostante non sia un horror ma un fantasy (per quanto sui generis), non si può non ricordare Il labirinto del fauno (2006), l’inevitabile evoluzione del discorso iniziato con La spina del diavolo, in cui tutti i temi del film precedente trovano compimento in una veste ancor più sontuosa. Il confronto tra il mondo fantastico, spaventoso ma affascinante, e quello reale, sporco, tragico, ma non privo di una luce di speranza, non è mai stato reso con tale efficacia: allo spettatore rimarranno impresse le avventure di Ofelia nella dimensione fatata (indimenticabile l’uomo dalla pelle pendula con gli occhi sulle mani), ma anche e soprattutto la crudeltà del capitano Vidal.
Dopo il seguito di Hellboy, girato due anni dopo Il labirinto del fauno, la carriera di Del Toro subisce un brutto intoppo. Ingaggiato nel 2008 per occuparsi della regia di Lo Hobbit, Del Toro si dedica per due anni anima e corpo alla pre produzione, scrivendo la sceneggiatura, disegnando le creature e ideando le sequenze di azione, salvo poi tirarsi fuori dal progetto nel 2010 dopo i continui ritardi all’inizio delle riprese, lasciando il destino della trilogia fantasy nelle stanche mani di Peter Jackson. Tra i numerosi progetti che mai hanno visto la luce è da ricordare – anche e soprattutto in un articolo che parla di horror – il sogno della vita di Del Toro, la trasposizione del celebre romanzo breve di H.P. Lovecraft Alle montagne della follia, tanto affascinante quanto intraducibile su schermo. Tra Pacific Rim e Crimson Peak, l’horror dalle atmosfere gotiche in questi giorni nelle sale italiane, Del Toro si è impegnato in questi anni anche in veste di produttore, aiutando tra gli altri giovani registi iberici a esordire sul grande schermo.
El Habitante incierto: strane convivenze
I due nomi più interessanti della scuderia di Del Toro sono Guillem Morales e Juan Antonio Bayona, ora entrambi quarantenni. Morales esordisce nel 2004 con un film tanto interessante quanto particolare e complesso come El habitante incierto. La trama è intrigante e all’apparenza semplice: il protagonista Felix, da poco separato, riceve una visita notturna da parte di un uomo che gli chiede di usare il telefono per una chiamata urgente. Fatto entrare il visitatore, Felix si distrae per un istante e lo perde di vista. Dov’è finito l’uomo? Sarà uscito di corsa? Oppure si sarà nascosto in una delle tante stanze della grande casa a due piani? È possibile vivere in casa di qualcun altro senza farsi vedere né sentire, come un parassita, lasciando fugaci tracce di sé? El habitante incierto sembra concentrarsi sul facile tema dell’intruso che gioca al gatto e il topo con il proprietario della casa, ma ecco che a metà film tutto cambia, i ruoli si confondono, la realtà vacilla e lo spettatore si piega in avanti sulla sedia per cercare di capire cosa stia accadendo, disorientato ma attento. La vera forza dell’ottimo esordio di Morales sta dunque in questo cambio improvviso di tono che trasforma un thriller grottesco in un incubo kafkiano, con un ribaltamento che ricorda quello di Mulholland Drive. Insomma, uno di quei classici film da vedere due volte per coglierne ogni snodo narrativo.
Con gli occhi dell’assassino: ascoltare l’orrore
Oltre a El habitante incierto merita una menzione anche il successivo film di Morales, Con gli occhi dell’assassino, un altro horror/thriller psicologico meno originale del precedente ma di certo più elegante dal punto di vista formale. La trama ruota attorno alle indagini di Julia sull’apparente suicidio della sorella Sara, e alla ricerca del killer responsabile della sua morte. Ma la trama gialla, per quanto solida, passa in secondo piano rispetto all’efficacissima regia di Morales: essendo Julia, come Sara, affetta da una malattia degenerativa della cornea, il regista ha dovuto trovare un modo di rendere sullo schermo la sua progressiva discesa verso la cecità, allo scopo di far identificare lo spettatore con la protagonista e il suo incubo. Non potendo ovviamente affidarsi a una ripresa in soggettiva della protagonista, oramai quasi del tutto cieca, Morales sceglie per una regia in terza persona che simuli la prima persona: avvicinando la macchina da presa il più possibile a Julia, lo spettatore rimane così all’oscuro del mondo esterno, cogliendo frammenti e particolari dell’ambiente circostante e dei personaggi senza poterli mai inquadrare con esattezza, costretto ad affidarsi all’udito più che alla vista, esattamente come la protagonista alla mercé dell’assassino.
El Orfanato: cattivi istituti
El Orfanato (2007), l’esordio di Juan Antonio Bayona, è sicuramente più ricco e raffinato rispetto a quello di Morales, ma decisamente meno originale. Forse influenzato dal produttore Del Toro, il film ricalca ambientazione e atmosfere di La spina del diavolo, senza però averne la forza espressiva e il sottotesto politico. L’orfanotrofio del titolo è quello in cui ha vissuto da bambina la protagonista Laura (interpretata da Belén Rueda, la stessa attrice di Con gli occhi dell’assassino), la quale, una volta cresciuta, intende trasformare la struttura oramai in disuso in una sorta di asilo per bambini con la sindrome di Down. Peccato che ovviamente l’orfanotrofio abbia un passato oscuro, e che ectoplasmiche presenze si aggirino per i corridoi… Elegantemente confezionato, il film procede però senza grandi sorprese, tra le indagini di Laura sulle origini della possessione dell’edificio e le apparizioni più o meno inquietanti (menzione d’onore alla sequenza del “un due tre stella” con gli spiriti) degli spettri.
Dei due figliocci di Del Toro è indubbiamente Bayona quello destinato al grande salto: il regista iberico è stato infatti scelto per dirigere il seguito di Word War Z, il film prodotto e interpretato da Brad Pitt e tratto dal romanzo di Max Brooks (di entrambi parlerò nell’articolo dedicato all’horror USA); non sarà facile per Bayona tradurre su pellicola un romanzo molto poco cinematografico restando fedele al testo di partenza e allo stesso tempo ricollegandosi al film precedente, ma lo spagnolo ad oggi ha quantomeno dimostrato un ottimo mestiere. Oltre a World War Z 2, ed è forse il progetto più interessante, è già in fase di post produzione il suo A Monster Calls, tratto dal memorabile romanzo di formazione scritto da Patrick Ness a partire da un’idea di Siobhan Dowd, celebre scrittrice per ragazzi la cui malattia le impedì di completare il libro.
La saga di Rec: zombi con crema catalana
Non si può però negare che il massimo rappresentante del cinema horror iberico sia Jaume Balagueró, l’ideatore, in collaborazione con Paco Plaza, della popolarissima serie di Rec (2007), forse l’unica vera saga dell’orrore degna di entrare nella storia del cinema di genere recente.
Prima di girare il suo capolavoro, Balagueró può già vantare un robusto curriculum di film solidi ed efficaci, anche se mai geniali. Il precoce esordio risale al 1999, quando il regista appena trentunenne dirige Nameless – Entità nascosta, un film abbastanza piatto salvato però da un finale originale e di rara cattiveria. Nel 2002 esce Darkness, che tra fantasmi e poltergeist annega però nella mediocrità. Frágiles (2005), girato in lingua inglese, è un’altra ghost story piuttosto classica che fa del suo punto di forza la suggestiva ambientazione, un vecchio ospedale nel cui reparto al secondo piano, oramai abbandonato e in disuso, dimora un’inquietante presenza. Para entrar a vivir (2006) è un episodio delle Películas para no dormir, sei film per la tv commissionati ad altrettanti registi dell’orrore, e uno dei pochi a salvarsi dalla mediocrità generale (anche se l’episodio più gustoso è sicuramente quello di Álex de la Iglesia, La habitación del niño, un delizioso omaggio a certa fantascienza americana anni Cinquanta).
Nel 2007 arriva la svolta con Rec, girato a quattro mani con Paco Plaza. Rec è tra i primi film a riprendere e a rilanciare la formula del found footage – secondo cui la macchina da presa è diegetica e l’intero girato è da considerare realizzato non dal regista del film ma dai personaggi stessi – che aveva fatto la fortuna di Blair Witch Project, ed è uno dei migliori film di zombi mai realizzati. Il suo maggiore punto di forza è proprio la tecnica della ripresa in soggettiva, che garantisce maggiore realismo ed coinvolgimento nella vicenda, costringendo lo spettatore a calarsi nei panni della reporter Angela e del cameraman Pablo rinchiusi in un appartamento brulicante di zombi. I due registi realizzano un film perfetto, in cui il contrasto tra l’orrore inspiegabile e il vivere quotidiano è risaltato magistralmente dalla grana della pellicola più televisiva che cinematografica e dai movimenti di macchina apparentemente casuali (va ricordato tutto ciò che si vede è la registrazione effettiva di un uomo terrorizzato). Le creature sono voraci, aggressive e velocissime, e l’unità di tempo e spazio comprimono lo spettatore in un angusto spazio dell’incubo, dove non esiste luogo sicuro e il pericolo può arrivare da qualsiasi direzione. Contrariamente agli stereotipi delle case stregate, il male primordiale non si nasconde nei sotterranei, ma in soffitta, vero e proprio punto d’arrivo di questa discesa/ascesa all’inferno. L’epilogo nell’attico buio, in compagnia di una delle più terrificanti creature mai viste sullo schermo, è un pezzo da antologia che entra di diritto nella storia del cinema horror.
Soprassedendo sui deplorevoli remake americani, la saga prosegue con fortune alterne: Rec 2 (2009) è un solidissimo seguito all’insegna dell’action che comincia pochi minuti dopo la fine del primo e racconta l’irruzione nel palazzo infestato da parte di una squadra speciale guidata da un prete, i cui reali obiettivi rimangono oscuri. Senza più bisogno di preamboli, il film ci immerge subito nell’azione, e dà coerentemente seguito alla virata metafisica della vicenda introdotta dal finale del prototipo. Per quanto non più originale, la formula non mostra segni di stanchezza e offre al pubblico più azione, più zombi e un finale nuovamente memorabile, capace di gettare una luce completamente nuova sull’epilogo del primo capitolo. Rec 3 – La genesi (2012), diretto stavolta dal solo Plaza e inferiore ai precedenti capitoli, costituisce un brusco cambio di direzione per la saga, costituendone quasi uno spin off: abbandonato il famigerato condominio, il film (che di fatto è una sorta di prequel), è ambientato durante un matrimonio interrotto dall’irruzione dei primi contagiati, e comporta due fondamentali elementi di rottura rispetto ai precedenti capitoli. Per prima cosa, dopo circa venti minuti, senza nessun motivo o particolari spiegazioni, la ripresa in soggettiva viene abbandonata, creando un bizzarro – e voluto – effetto di straniamento nello spettatore. Secondo, il mood serioso dei primi capitoli è stavolta contagiato da una vena di umorismo grottesco, attraverso la contaminazione dell’horror con la commedia: una virata che ricorda quella occorsa alla saga de La casa, qui omaggiata esplicitamente con una sequenza in cui la protagonista imbraccia una motosega per fronteggiare gli zombi. Rec 4: Apocalipsis (2014), infine, tenta di rilanciare una storia che sicuramente aveva ancora molto da dire, ma fallisce clamorosamente nell’intento: ambientato su una nave, il film diretto dal solo Balagueró non è diverso dal più banale e scontato film di zombi da quattro soldi. Tra regia anonima (la ripresa in soggettiva è ormai rigorosamente abbandonata), brutti effetti speciali, exploit grotteschi fuori luogo e incoerenze con la mitologia della saga (che fine ha fatto l’elemento diabolico?), il film naufraga nella mediocrità. In ogni caso, il finale lascia nuovamente le porte aperte a un ulteriore seguito, anche se c’è la sensazione che la saga necessiti un cambio di testimone alla regia che porti aria fresca e idee nuove.
Prima del flop di Rec 4, Balagueró si era comunque distinto con un film forse minore ma intelligente e ricco di spunti. Mientras duermes (2011) è una di quelle opere che sotto la scorza di film di genere nascondono una riflessione sulla società o sull’animo umano. Il tema, scandaloso, di Mientras duermes è semplice e fondamentale: quello dell’infelicità. O meglio, dell’ingiustizia della felicità. Il protagonista è César, il grigio custode di un condominio a Barcellona; solitario e sociopatico, César è incapace di relazionarsi con gli altri e di avere sentimenti normali verso le persone, e l’unica forma di felicità che è in grado di provare consiste nel rovinare di nascosto le vite di coloro che lo circondano, cosa che peraltro gli riesce piuttosto bene grazie al proprio mestiere di portinaio. La particolarità del film consiste nel fare identificare lo spettatore nel “mostro”, spingendolo involontariamente a provare gli stessi sentimenti di César verso i vari inquilini, e soprattutto verso la solare Clara, la cui bellezza, spontaneità e leggerezza gridano vendetta. Per tutto il film siamo in compagnia di César, soffriamo con lui, ne comprendiamo le ragioni, rimaniamo con il cuore in gola nei momenti di maggiore crisi in cui rischia di essere scoperto… E solo alla fine ci rendiamo conto di aver parteggiato per il cattivo, non riuscendo comunque a provarne del tutto vergogna.
Le altre puntate di Bagni di sangue: gli eredi di Wes Craven, a cura di Niccolò Petruzzelli: