Diego Conticello è nato a Catania nel 1984. Si è laureato in Letteratura e filologia moderne all’Università di Padova con una tesi sulla poesia siciliana contemporanea. Risiede in provincia di Como. Il suo libro d’esordio, Barocco amorale, del 2010, è edito da LietoColle. Suoi testi e interventi sono apparsi in rivista e in rete. A razzo, come certi endecasillabi improvvisi tra gli altri versi di un poeta che amo, mi colpisce una frase uscitagli a un tratto sul finire della nostra conversazione. L’ho eletta a titolo. Ridursi al silenzio mai. Tocca forse qualcosa nel profondo della mia laconicità di ligure e, ciò che più conta, dice schiettamente l’imperativo che muove le sue liriche. La lenta costruzione delle mie domande e la tempestività meravigliosa delle sue risposte trovano un tempo per parlarsi di questo: della loquace articolazione della parola poetica in Le radici del senso, la raccolta con la quale Diego figura in Poesia contemporanea. Dodicesimo quaderno italiano Marcos y Marcos (pp. 165-203, prefazione di Fabio Pusterla).
Michel Cattaneo: Il titolo della tua silloge, Le radici del senso, viene ribaltato in quello, più esplicito, dell’ultima sezione, Il senso delle radici. Come anche nelle due liriche che la preparano, Lì sola e Sud-are e sommamente in All’evidenza dei vinti, mi sembra meglio risalti in questa parte del libro l’innovativa transizione notata da Fabio Pusterla nella prefazione alle poesie dal «paesaggio» non esclusivamente ma soprattutto «interiore» della tua prima raccolta, Barocco amorale, a una sfera che, pur centrandosi sulla geografia delle tue origini siciliane e della tua esistenza privata, si allarga a una «dimensione storica e politica». L’operazione di ‘scavo’ che conduci nella sezione maggiore del libro pare tendere ad un “limite” perfino più alto, universale, come, per altro verso, si potrebbe evincere anche da un testo quale Cosmagonia: si propone di ricercare la «mina del mondo», di raggiungere il suo «succo», di individuare il «perno» che lo regge e sottoporne la già dubbia stabilità a verifica. E il «reale», seppure sfuggente come nei versi di Gioco a nascondere di Lucio Piccolo posti in epigrafe, del resto si offre alla percezione e all’intellezione umana, dell’io, fin dalla seconda poesia della raccolta. Ti domanderei dunque se potessi innanzitutto chiarire il significato dell’intitolazione, se ritieni corretto legarla a questa attitudine che mi sembra presente e forte nella raccolta, e in quale rapporto evolutivo (ammesso sia tale), dal punto di vista dello sviluppo della tua scrittura e del tuo interesse, delle tue preoccupazioni poetiche, stia quindi il «senso delle radici» con le «radici del senso».
Diego Conticello: Quello che hai rilevato non può che essere più rispondente al vero. In particolare il titolo porta nei due sostantivi il doppio significato di ‛origine’ e di ‛radici’ in senso etimologico e, inoltre, qualcosa di attaccato alla terra, quindi una indagine sulla realtà e, nel contempo, l’eredità trasmessa dalle radici. Di conseguenza il «senso» è sia quello delle parole (cosa importantissima nel mio tentativo di ricerca linguistica) che ‛senso’ inteso in maniera più ampia come senso dell’esistenza, dello stare al mondo e cercare di comprenderlo in una continua indagine sul reale attraverso i ‛sensi’. Infatti il tentativo di inserire la scienza in poesia va proprio nella direzione di sottoporre la fisica, la natura, la realtà ad una verifica serrata per comprenderne meglio i meccanismi e, di conseguenza, l’esistenza stessa. Poi ovviamente come dice anche Pusterla nella prefazione, il gioco allusivo si sposta anche sul piano semantico e stilistico-formale per cui le radici sono certamente il barocco siciliano col senso di riempire il vuoto anche esistenziale che ci assilla e per cercare di trovare anche dei pieni significanti in termini di immagini e, dunque, anche di metafore e allegorie.
Mi interessa il discorso sull’annessione alla tua complessa lingua poetica del lessico specialistico della scienza, in particolare della fisica, ma anche della chimica, della neurologia. A proposito della tua ricerca linguistica, nell’Avvertenza a Barocco amorale segnalavi la tendenza, di derivazione ermetica, a «caricare certe parole chiave di sensi plurimi, di sovrasensi pronti a scattare in direzioni anche contrapposte, cercando un effetto di completezza, a volte di voluta disarticolazione». Insomma, il «gioco allusivo» del quale dicevi poc’anzi. Se ne hanno numerosi esempi anche in Le radici del senso. Le parole della scienza esigono viceversa una scarna concisione. Il luogo di più acceso scontro tra i due diversi registri è ai vv. 31-38 di Cosmagonia: «entropia / non è piacere di belle metafore e brune / ma morte della luce, / fuga da grazia / materna, / totale penetrazione / del gelo». La risoluzione a sfavore della paraetimologia poetica, con prevalenza di un’ardita espressione lirica ma fisicamente corretta del concetto scientifico non rappresenta in qualche modo una nuova predilezione per la seconda modalità argomentativa che è forse professata fino dal testo incipitario, La distruzione delle cose: «E i nomi lì a rifulgere, / rifiutare di piegarsi, // di nuovo fare luce»? Spiego meglio: questo passaggio e quello di Cosmagonia mi paiono rivelare stringente affinità e rimandare entrambi al perseguimento di una nuova chiarezza enunciativa, che sia di sostegno alla forza del messaggio e, di conseguenza, soprattutto esprimere grande fiducia in una luminosa parola poetica, capace di opporsi all’«entropia», «alla morsa del tempo», al «buio come morte», di resistere in un universo agonizzante.
Assolutamente sì; probabilmente tutto questo deriva anche da un’esigenza personale di fare chiarezza nella vita, di sciogliere quanti più dubbi esistenziali possibili. Resta però il vezzo di giocare ancora con le parole, con i significati e i significanti forse, come scriveva anche l’indimenticato Ripellino, per ingannare la morte, poiché la bellezza della poesia è forse quella più pregnante perché inutile e disinteressata. Ad ogni modo una forte esigenza chiarificatrice è presente ed è la medesima derivante dal sondare e porre in continua verifica il reale, per «fare luce» sulle cose, attraverso le parole, i nomi.
Hai fatto il nome di Ripellino, ai cui versi si appoggia dichiaratamente Sfiniti e forse l’intitolazione del tuo primo libro poteva avere memoria anche del ripelliniano Autunnale barocco, oltre che dei Canti barocchi di Piccolo. Le fonti che spesso esibisci con dediche o citazioni epigrafiche riportano ancora alle tue «radici» in senso stretto: Scandurra (Se il reale), Freni (Il senso delle radici), Cattafi (All’evidenza dei vinti), De Vita (’A parola) e, sopra tutti, appunto Piccolo (Cosmagonia): autori di una ‘linea siciliana’, della quale sei studioso ed entro la quale mi pare tu senta di trovare una naturale collocazione. La tua versificazione breve è stata pure accostata a quella del primo Ungaretti e sei stato tu stesso, come accennavamo, a voler precisare che lo «scheletro invariante» della tua poesia è di «taglio ermetico». In alcuni movimenti di queste liriche mi è poi sembrato di poter sentire anche più di un’eco montaliana. Le «nere fantàsime» del v. 16 di Eterno/Interno mi riportano alle «numinose fantasime» del v. 20 di Divinità in incognito; si tratta però di un lessema isolato e allora penso piuttosto all’esito dei vv. 1-4 di Non credere: «Non credere alla misura, / all’abbocco finale che fa / vivo / il succo del mondo», che mi ricorda i vv. 10-11 di Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale…: «Volli cercare il male / che tarla il mondo»; alla costruzione dei vv. 5-6 di Cosmagonia: «sfondasse i fragili / veli sferici», la quale sembra condividere qualcosa con «seguissi le fragili architetture» di Notizie dall’Amiata; o, ancora, ai vv. 13-16 di Tempo di sabbia: «in questo / semilago / annidato / del cuore», dove il paesaggio emotivo di una grigia quotidianità lariana è restituito con una potente immagine e fortunata, di memoria innanzitutto dantesca, poi giustappunto montaliana e infine sereniana. Come si rapporta la tua poesia con questa tradizione alta, montaliana e dopo post-ermetica, post-montaliana, della poesia italiana del Novecento, che ancora rappresenta un riferimento imprescindibile per i poeti della generazione precedente alla tua?
Certamente l’influenza di Montale è innegabile e nemmeno tanto velata, anche se l’impianto e la costruzione sono certamente più di taglio e misura ermetica. Ti devo contraddire però sulla geografia che ha ispirato la lirica Tempo di sabbia, la quale rimanda non al lago ma a un «semilago». Ovvero, nella mia immaginazione, a una precisa parte della Sicilia proprio di fronte alle isole Eolie che fanno quasi da muro socchiuso creando quello che impropriamente chiamo «semilago», ma che è mare a tutti gli effetti. Lo stesso mare che ha ispirato i toponimi del Gattopardo (Salina) e di Piccolo stesso. Credo che la mia poesia sia andata quasi naturalmente in quella direzione della cultura della crisi pre e post primo conflitto mondiale, proprio per rispecchiare il senso di crisi che si vive in questo momento. Per cui, oltre a Montale, autori quali Campana, Rebora, Gozzano, ma poi anche Luzi e Gatto sono rimasti nell’immaginario proprio perché parlavano dalla crisi e sulla crisi, con tutto il portato di perdita di valori che ne consegue. Sul titolo hai ragione dicendo che è più frutto di Autunnale di Ripellino che dei Canti barocchi di Piccolo. Per quanto riguarda le dediche nelle poesie e nelle sezioni sono tutte sentite anche dal punto di vista umano, perché ho conosciuto tutti gli autori viventi da te menzionati e studiato fino all’ossessione Piccolo, Cattafi, Ripellino, ecc… Per cui li sento internamente come trascurati dalla poesia ufficiale ma altrettanto necessari e imprescindibili. Ammetto di essere non un lettore onnivoro ma assai selezionante, per cui gli autori citati li ho letti e riletti integralmente assieme a Sinigaglia, Orelli, Pusterla, ecc… La cultura della crisi, oltre ad averla vissuta sulla mia pelle in Sicilia durante l’infanzia e l’adolescenza, la si vive ancora oggi con la crisi internazionale, ma il richiamo costante è sempre a quella situazione di sottomissione isolana e del sud denunciata in Sud-are o in Lì sola, che poi ovviamente non è altro che la Sicilia anche di All’evidenza dei vinti. Solo una precisazione. Anche lo schema brevilineo di matrice ermetica è tale per rispecchiare lo stato di perdita, di fragilità e di incertezza in cui versa la nostra epoca.
La nostra epoca, la crisi internazionale, di cui hai parlato, finiscono quindi per spingere la poesia alla brevità, fino al silenzio? O all’amaro e sfiduciato rispecchiamento di tale condizione di «vuoto», di «queste nostre vite / ammansite», si può ancora contrapporre qualcosa: proprio in Sta a noi, da dove citavo, ad esempio, esorti a sopperirvi con un «guizzo», che non è il medesimo, di nuovo, caratterizzante, in diversi toni, la tua parola: «’na cosa / chi primintìu / nun si fa azzuffàri»?
Ridursi al silenzio mai. È sempre una lotta difficoltosa e ardua ma l’importante è l’agone – anche se agonizzante – della poesia che si contrappone alla morte della bellezza (cosa che sembra avvenire nella odierna società iperveloce). È proprio quel «guizzo» che ci salva. Quel «guizzo» è sapere che un tentativo lo stiamo facendo ancora e che non siamo «vinti» per citare l’altra poesia in dialetto. È chiaro che la bellezza, o la vitalità che rispecchia la tensione alla bellezza, non sono facili da «azzuffàri», come le parole, ma il tentativo non va mai esaurito perché è solo tramite le stesse parole che si può ricucire il filo del bello e della vita e, al contempo, evitare che si spezzi (e qui subentra il discorso sulla memoria e sull’eredità).
Ciò forse ci riporta anche ai modi e soprattutto ai motivi della tua ricerca formale. Ti chiederei allora in quale direzione, ora che ne hai così consolidato le «radici», pensi dovrà muoversi la tua poesia per stare dietro alla fuga della bellezza che denunci?
Dovrà comunque sempre stare dietro alla bellezza. Ricercarla continuamente. Probabilmente dovrebbe ancora di più esasperarsi nel gioco delle parole e votarsi ancora di più alla ricerca linguistica e stilistica. Va sicuramente spinto il nesso col linguaggio scientifico, armonizzandolo con quello poetico, per trovare nuove rotte. Tornerà ancora più indietro, magari anche alle origini, all’infanzia, poiché del resto la poesia non è altro che figlia di Mnemosine, dunque della memoria come identità e specchio di confronto dove intravedere anche la bellezza della vita in tutte le sue forme.
Qui si possono leggere le altre puntate del ciclo dedicato ai poeti del Quaderno di poesia Marcos y Marcos:
Tommaso Di Dio, Il crollo e il canto – per il XII Quaderno di poesia
Alessandro Giammei, Fingendo te – Intervista a Maddalena Bergamin
Alberto Comparini, La sabbia e il fuoco – Intervista a Maria Borio
Claudia Crocco, Eliminare l’assoluto? – Intervista a Lorenzo Carlucci
Daniele Visentini, Lo spazio bianco che viene dopo – Intervista a Marco Corsi