Ottobre, oltre alla consueta abbondanza discografica, ci ha regalato una notizia buona e una cattiva, entrambe legate allo stesso artista. Da quale cominciare? Questo mese è stato indubbiamente rallegrato dall’annuncio del ritorno di David Bowie: un nuovo disco di inediti, la cui uscita è prevista per il prossimo 8 gennaio, giusto in tempo per rendere speciale l’inizio dell’anno venturo. Tuttavia, a controbilanciare l’annuncio, abbiamo una certezza tutt’altro che felice: non ci sarà alcun tour del Duca Bianco a supporto dell’album.
Ma non spingiamoci troppo in là, l’inverno è ancora lontano, e noi abbiamo cinque ottimi dischi da ascoltare.
John Grant – Grey Tickles, Black Pressure
A due anni dal successo di Pale Green Ghosts, disco che aveva colpito per l’inaspettata piega elettronica, il barbuto John Grant ritorna sulle scene con questo Grey Tickles, Black Pressure, dodici canzoni che raccontano in maniera ironica e appassionata la crisi di mezza età di un uomo la cui parabola musicale rappresenta senza dubbio un’eccezione rispetto a quelle dei suoi colleghi. Arrivato al successo a più di quarant’anni risorgendo dalle macerie dei Czars, John Grant ha convinto tutti con la sua voce profonda e calda, una narrativa sincera e ricercata che, come quella di Mark Kozelek, non omette mai vicende molto personali con uno stile che reinterpreta in chiave contemporanea la new wave e il cantautorato americano. Nonostante il disco si apra con un passo dell’Inno all’amore di San Paolo ai Corinzi («Love is patient, love is kind. It does not envy, it does not boast, it is not proud»), la bellissima canzone eponima sembrerebbe suggerire un Grant ancora preso dai fantasmi del disco precedente, perso tra le corsie di un supermercato e medicinali contro le emorroidi, come lui stesso racconta tra il serio e l’ironico. Invece, canzoni come Snug Slacks e You and Him offrono il lato più divertente di questo artista, con le loro tastierone distorte e i ritmi danzerecci, mentre il singolo Disappointing, che lo vede duettare con Tracey Thorn, va a toccare il suo lato più zuccheroso. Ad ogni modo, sono le ballate a essere il pezzo forte di John Grant: Down Here, No More Tangles e Global Warming sono l’esempio di un talento fulgido che siamo felici di ascoltare di nuovo.
Joanna Newsom – Divers
Ascoltando Divers si ha la certezza che Joanna Newsom non voglia lasciare il mondo fiabesco a cui ha dato forma nei tre capitoli precedenti della sua saga. Custode di una musica fuori dallo spazio e dal tempo, in queste undici canzoni Joanna non si allontana da quanto fatto nell’ultimo Have One On Me, uscito quasi cinque anni fa, teletrasportandoci in un’epoca distante che oscilla tra la musica da camera del Settecento e la tradizione folk del primo Novecento. Eppure il risultato sorprende per l’attualità e la capacità di congelare quel tempo lontano grazie all’arte che è arrivata fino a noi. Secondo la stessa autrice, Divers è un disco d’amore che tenta di sconfiggere la caducità dell’esistenza immortalandola in musica. Diciamo subito che è difficile scindere i singoli brani dal totale, tanto che l’album sembra strutturato come un’opera circolare: la conclusiva Time, As a Symptom termina con la parola «trans» mentre l’iniziale Anectodes comincia con «sending». Aspettatevi un disco barocco, capace di meravigliare, con arrangiamenti orchestrali che accompagnano la voce gracile della Newsom e i diversi strumenti portanti, dal piano del primo brano, all’arpa dell’intensissima Divers, all’hammond e al clavicembalo di Goose Eggs. Un disco da ascoltare con attenzione per rifugiarsi in un tempo remoto e affascinante.
Beach House – Thank Your Lucky Stars
A quanto pare, i Beach House proprio non ne volevano sapere di lasciare lo studio e, così, a solo un mese e mezzo dall’uscita dell’ottimo Depression Cherry (non a caso nella Top 5 di settembre), sorprendono un po’ tutti pubblicando il loro sesto disco, Thank Your Lucky Stars, nove canzoni che pur non discostandosi dalle tipiche atmosfere sognanti del duo sfoggiano un’impressionante verve creativa. Ad essere sinceri, questa pubblicazione inaspettata lasciava sperare che Legrand e Scally volessero approfittare dell’occasione per offrire qualcosa di più originale e, invece, l’album stupisce proprio per l’assenza di qualsiasi effetto sorpresa, un po’ come se a Natale trovaste sotto l’albero lo stesso fichissimo regalo di dieci anni fa, ma in una nuova confezione. Già nell’iniziale Majorette assistiamo alla classica struttura delle loro canzoni, con l’entrata a scaglioni degli strumenti. Ciò detto, bisogna riconoscere che in questo disco non troverete un brano che non sia all’altezza dei classici del gruppo, dal piglio rock del singolo One Thing alle intense The Traveller e Somewhere Tonight in cui Victoria Legrand supera se stessa fornendo una delle sue performance più riuscite. Insomma, Thank Your Lucky Stars è un ottimo disco che avrebbe fatto più scalpore se non fosse uscito così a ridosso di Depression Cherry.
Deerhunter – Fading Frontier
Per lungo tempo un segreto custodito da pochi, nei loro quindici anni di carriera i Deerhunter hanno raramente deluso i propri seguaci, anche se Monomania, uscito nel 2013, non era riuscito a bissare il clamore con cui il fantastico Halcyon Digest era stato accolto. La ragione del loro successo risiede principalmente nella carismatica figura del cantante Bradford Cox, l’uomo che si nasconde dietro il progetto solista Atlas Sound, capace di performance canore variegate ma sempre molto intense. In Fading Frontier il gruppo abbraccia diversi generi, dalla cavalcata post-punk di All the Same al pop di Breaker, e impressiona per la creatività di scrittura, al netto degli strumenti che rimangono sempre gli stessi (batteria, basso, chitarra, tastiere). L’andamento in minore e l’approccio lo-fi fanno apparire Laether Wood come l’episodio che più ricorda il side-project del cantante, ma sono le tremolanti tastiere di Ad Astra a colpire maggiormente. Fading Frontier non deluderà né i fan consolidati della band né i neofiti, e senza dubbio merita di essere ascoltato live (Si attende novembre, quando i Deerhunter saranno in Italia, a Milano e a Ravenna).
Sexwitch – Sexwitch
Cosa succede quando due artisti decidono di passare un pomeriggio insieme per fare shopping di dischi in qualche negozio di vinili usati a Londra? Se si ha fortuna può accadere che questo incontro porti alla nascita di gruppi come i Sexwitch, che si prefiggono di riscoprire la musica popolare di Paesi come l’Iran, la Thailandia o il Marocco, per poi interpretare in inglese canzoni praticamente sconosciute alla maggior parte di noi occidentali. Sexwitch rappresenta anche il sodalizio artistico tra Natasha Khan, conosciuta ai più come Bat for Lashes, e i Toy, uno dei gruppi psichedelici più interessanti del panorama britannico, che già avevano lavorato insieme a una cover di una canzone iraniana, The Bride. Registrati in appena una giornata dal buon Dan Carey, gli otto pezzi di questo debutto sono una piacevole sorpresa. L’iniziale Ghoroobaa Ghashangan sembra proprio una canzone di Bat for Lashes e certo non avrebbe sfigurato se inserita nel suo repertorio, così come la conclusiva Lam Plearn Kiew Bao. Ma è con Kassidat El Hakka che il disco prende una piega sorprendente raggiungendo il suo apice: otto minuti in cui le ritmiche dei Toy e la voce della Khan disegnano un paesaggio inedito per entrambi. Per la fortuna di noi ascoltatori.