La morte di Pasolini può essere considerata un vero e proprio spartiacque, non solo dal punto di vista letterario ma soprattutto storico. Dopo quella tragica notte all’Idroscalo, nei venticinque anni successivi l’Italia è stata teatro di alcuni eventi fondamentali: gli anni di piombo con l’assassinio Moro, il movimento del ’77 a Bologna, gli anni Ottanta, gli anni del cosiddetto “riflusso” che hanno visto l’ascesa economico-imprenditoriale di Silvio Berlusconi e quella politica di Bettino Craxi, il 1989 con il crollo del Muro di Berlino e la conseguente fine delle grandi narrazioni ideologiche, le stragi di Capaci e di via Amelio nel 1992, Mani Pulite e l’assassinio di Carlo Giuliani il 20 luglio del 2001 al G8 di Genova.
Nonostante i tanti anni passati, Pasolini continua, nella sua fantasmagoricità, ad avere un potere di seduzione unico, ed è ancora un corpo scomodo con cui dobbiamo fare i conti. Quando cade l’anniversario della sua morte, si organizzano importanti convegni, tavole rotonde, seminari, corsi universitari per discutere della sua eredità e di quello che ne resta. Non poteva non uscire l’argomento a quarant’anni dalla morte dello scrittore, poeta, saggista e regista bolognese. In questo caso, vorrei provare a rispondere alla domanda teorica (o forse retorica?) sulla ricezione di Pasolini negli anni Zero e Dieci del XXI secolo, su cosa è vivo e cosa è morto dell’autore in campo letterario e su che cosa si è tramandato di esso nella memoria culturale. Insomma, quello che vorrei tentare di fare è una ricerca archeologica per capire se nella letteratura esista una sorta di pasolinismo.
Sono convinto che alla domanda sulla ricezione di Pasolini nel XXI secolo si debba rispondere in modo negativo. La ricezione pasoliniana può essere raccontata solo in forma di sottrazione, unicamente scrivendo la storia della sua impossibilità; questo per una serie di motivi.
Pasolini è il prodotto di una cultura resistenziale e post-resistenziale che in Italia ha perso il suo potere evocativo alla fine degli anni Settanta. Si pensi, solo per fare un esempio, alle parole che Calvino scrisse nella prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, quando affermava come, proprio grazie alla guerra, si era creata un’immediatezza comunicativa tra lo scrittore e il suo pubblico. In effetti, usciti dalla guerra, questi autori si trovarono in una situazione unica: avere la possibilità di ricostruire il canone letterario italiano. Situazione completamente diversa per gli scrittori di oggi che sono nati e vivono, citando Francesco Pecoraro, in tempo di pace. In molte delle interviste che rilasciano, questi giovani scrittori pongono l’accento sul problema per cui si sentono legati ad una tradizione, per raggiungere la quale mancano gli anelli intermedi. Sono consapevoli di non aver vissuto nessun 8 settembre o 25 aprile, e di essere quindi alla costante ricerca del proprio «trauma senza evento». I narratori nati dopo gli anni Sessanta hanno sicuramente una formazione più extraletteraria e non italocentrica. Per costruire il proprio immaginario narrativo hanno fatto affidamento alla musica, al fumetto, al cinema e alla letteratura straniera, in particolare la letteratura nordamericana, penso a Truman Capote, Bret Easton Ellis, Don DeLillo e il Philip Roth della trilogia politica. Ha ragione Raffaello Palumbo Mosca quando scrive che la popolarità e l’influenza di Foster Wallace esemplificano perfettamente il declino del modello dei padri in favore di quello dei fratelli maggiori. Completamente diversa la situazione di Pasolini, la cui opera, con la costante sul mondo edipico e adolescenziale del Friuli, non può essere slegata dalla morte del fratello Guido a Porzüs per mano di partigiani titini. Pasolini, come gli intellettuali che hanno avuto un ruolo preminente all’interno dell’ambiente culturale italiano dal secondo dopoguerra in poi, sono i cosiddetti «Figli della Resistenza».
Pasolini ha fatto della sua vita la propria opera, autoproclamandosi vittima sacrificale per denunciare l’Italia neocapitalista del boom economico. Per questo motivo lo si deve considerare come un vero e proprio unicum nella storia della letteratura italiana, perché è passato da essere garante della sua opera ad esserne l’incarnazione completa, creando così una «letteratura corporale» che si scrive direttamente sul corpo del poeta e che lascia, come ha scritto Walter Siti, le tracce viventi della sua persona. La sua opera, e quindi la sua vita, non potevano assolutamente andare avanti senza l’identificazione di un nemico, senza denunce e critiche, pena una sorta di cortocircuito nella sua attività e nella vita stessa. Questo paradosso in Pasolini è stato acutamente messo in luce da Furio Colombo, che, intervistando il poeta il pomeriggio prima della sua morte, gli fece notare come non gli sarebbe rimasto nulla se avesse eliminato tutto il suo pubblico, compresi i detrattori che comunque consumavano il suo prodotto commerciale.
Bisogna poi dire che Pasolini, nonostante la sua indole da pedagogo, non aveva alcuna intenzione di essere maestro di nessuno, se non di se stesso. Basti pensare al capolavoro Uccellacci e uccellini, in particolare ad una scena fondamentale. Affamato ed esausto a causa del cammino e dei discorsi del Corvo, Totò si avvicina a questo e, con gesto tenero e affettuoso, lo strozza. Ma il Corvo del resto lo aveva previsto, secondo una frase del filologo Giorgio Pasquali, da lui stesso citata: «i maestri sono fatti per essere mangiati in salsa piccante». Come Totò, anche Pasolini ha operato una sorta di cannibalismo intellettuale: sono del resto note a tutti le sue interpretazioni soggettive e strumentali delle opere e del pensiero di Gianfranco Contini e Antonio Gramsci. Pasolini, da lettore onnivoro e rapinatore di libri qual era, prendeva dai testi solo quello che poteva servirgli in modo irrazionale e passionale.
Credo che l’unica soluzione per superare la scomodità di Pasolini sia di mangiarlo in salsa piccante. Oppure, meglio ancora, mi vengono in mente le parole dello scrittore argentino Alan Pauls pronunciate durante una tavola rotonda dedicata a Roberto Bolaño, tenutasi nel 2008 in occasione del Festival Internazionale di Letteratura di Buenos Aires, che affermavano come lo scrittore cileno avesse superato con atteggiamento teppistico i suoi maestri, Fuentes, Garcìa Màrquez e Vargas Llosa.
Quello che dovrebbero fare gli scrittori italiani degli anni Zero e Dieci, nonostante siano ancora alla ricerca del proprio narratore e del grande romanzo italiano, è proprio questo atto teppistico verso scrittori più anziani e più affermati. Del resto, come ha scritto il critico letterario Harold Bloom: i grandi scrittori sono ex figli ribelli che, scesi in agone contro i padri, hanno vinto l’ansia dell’influenza affrancandosene.
Non è un caso che alcuni scrittori, nati negli anni Settanta, abbiano cominciato a ironizzare sul poeta bolognese per esorcizzarlo, per liberarsi dalla sua soffocante aura. Penso, ad esempio, ad Addio, Monti di Michele Masneri, in particolare ad uno dei suoi personaggi, Roberto, un immobiliarista che sfrutta il mito di Pasolini per gonfiare le quotazioni delle periferie romane. Nel suo romanzo d’esordio Masneri mostra la pericolosità di aver mitizzato Pasolini, trasformato in un feticcio a cui si offre un rispetto irragionevole e fanatico, o a un santino come quelli in carta plastificata che si possono prendere in chiesa dopo aver acceso una candela alla modica cifra di un euro. Masneri svuota completamente la figura di Pasolini, la parodizza come aveva già fatto in alcuni articoli. In uno di questi scritti, con la solita scrittura ironica e briosa che lo contraddistingue, ha paragonato Pasolini a Fantozzi, spiegando come la fantomatica frase fantozziana «io sono stato azzurro di sci» e le poltrone in pelle umana rappresentino meglio degli Scritti corsari l’imborghesimento italiano. Fantozzi ha il grande merito di aver mostrato come le classi sociali più basse, lodate da scrittori come Pasolini per la loro vitalità e purezza, non abbiano nulla di eroico e, anzi, siano caratterizzate da un profondo e irritante servilismo vittimistico, oltre che una vera e propria ossessione per la borghesia che tanto li vitupera, le vittime si vorrebbero identificare nei carnefici. Masneri, con il gioco della porta girevole, ci fa tornare nel 1975 al funerale del ragionier Ugo Fantozzi, morto per un tragico e feroce assassinio, con Moravia che dice «di ragionieri ne nascono tre o quattro in un secolo» e con Pasolini ancora in vita. Ma lo scrittore bresciano pensa anche a come sarebbe oggi Pasolini, molto probabilmente un placido intellettuale No Tav che abita in una villa sull’Appia antica, che prenderebbe parte a favore o contro Dolce & Gabbana e firmerebbe valanghe di appelli sulla fusione Mondadori-Rizzoli. Quello che ci vuole dire Masneri e che riesce a dire benissimo il Roberto di Addio Monti è che l’Italia è molto più fantozziana che pasoliniana e viene rappresentata meglio da «io sono stato azzurro di sci» che dalla spocchiosa frase «io so i nomi». Non si può maliziosamente non sospettare che dietro quest’idea non ci sia una subdola critica a Roberto Saviano e al suo Gomorra.
Sono gli stessi spazi geografici ad aver subito profonde modifiche, la Roma descritta antropologicamente, letterariamente e psicologicamente da Pasolini non esiste più ed è sempre Masneri che ce lo dice, commentando la mostra Pasolini Roma. Pochi anni prima anche Emanuele Trevi aveva descritto alcuni luoghi letterari di Roma, in particolare la via Merulana di Gadda e il pratone della Casilina di Pasolini, mostrando come oggi siano del tutto cambiati e non rispecchino più le immagini che ne avevano offerto i due scrittori. Così può capitare che in via Merulana all’edicola di Antonio venga venduto Quer pasticciaccio insieme a la Repubblica: ecco la funzione di Gadda ridotta a mero feticcio. La stessa Visione del Merda deve avere uno spazio reale per essere verificabile, altrimenti la mappatura di Pasolini avrà il valore della carta straccia, ma purtroppo è proprio quello che accade. Quel posto, tra via Torpignattara e via Casilina, con i suoi negozi e i marciapiedi occupati da venditori ambulanti, non è molto dissimile da un qualunque angolo di periferia che un turista può trovare a Tel Aviv, Delhi o Osaka.
È sempre Trevi che mostra come Pasolini e Parise fossero invischiati nello stesso processo che descrivono: Roma come il teatro di un’inarrestabile decadenza antropologica. Ma questa decadenza è vista attraverso due diverse classi sociali: Pasolini parla del sottoproletariato urbano, mentre Parise dei figli della borghesia clericale e fascista. Ma anche questa rigida suddivisione classista scompare ai giorni nostri: la borghesia clericale e fascista è stata contagiata dai sottoproletari, dai borgatari che il fine settimana corrono in massa verso i centri commerciali, terribili Moloch che funestano la periferia romana. La classe subalterna è diventata come per magia egemone: la borghesia vuole pensare e vivere come i borgatari. Si dovrebbe cambiare la fine de La ricotta: Stracci sarebbe invitato al banchetto di questa borghesia rifatta, che tenta di parlare un romanesco sboccato e che lo imita nei gesti. Si è sicuramente andati oltre la mutazione antropologica profetizzata da Pasolini: il sottoproletariato non è scomparso perché attratto dalla borghesia seguendo il sogno di un fantomatico imborghesimento, ma perché è diventato la classe egemone, quella da imitare. Forse tra Fantozzi e Pasolini bisogna inserire un terzo contendente: Walter Siti, che con il suo libro Il contagio racconta questa strana mutazione antropologica che ha trasformato le persone in mostri.
Oppure mi viene in mente un altro racconto che tenta di esorcizzare la figura di Pasolini: Calvino contro Pasolini di Christian Raimo che, facendo il verso al saggio di Carla Benedetti Pasolini contro Calvino, parla di uno studente universitario precario che ospita nel suo piccolo appartamento Calvino, scrittore fuggito a Cuba dopo aver pubblicato un unico libro, Il sentiero dei nidi di ragno, che ha sempre un pezzo di hashish in mano e la testa piena di pensieri ostili contro il capo dell’editoria nazionale, tale Pier Paolo Pasolini. Raimo in questo racconto prende una posizione ben precisa e lo dice al lettore: io sto con Italo Calvino e mi oppongo agli scrittori che rendono il gesto della scrittura sacrale e profondamente necessario. Senza voler rispondere alla Benedetti e alla sua polemica intertestuale e vuota tra impegno e disimpegno, Raimo capisce che è un problema arretrare fino al Pasolini del 1975 per spiegare le ansie, le paure, le crisi della sua generazione. Bisogna smettere di dire: «Pasolini l’aveva già detto o profetizzato». La soluzione però è a portata di mano, e la si vede benissimo nei racconti del libro Le persone soltanto le persone di chiara impostazione wallaciana: per controbilanciare il Pasolini degli Scritti corsari si dovrebbe rileggere la prima lezione americana di Calvino, quella dedicata alla leggerezza. Solo in questo modo è possibile che quegli scrittori che si definiscono civili, non siano appesantiti dal proprio piglio moralistico. Raimo potrebbe essere definito, riprendendo le parole di Pascale, uno «scrittore tragicomico» che porta al collasso, al disordine e alla scomposizione le proprie trame e i propri personaggi. Questo tipo di scrittore, che diventa lui stesso personaggio, è da opporre a quella che Pascale definisce la «figura dell’intellettuale come sacerdote che insegna agli umili la strada giusta». Il vero problema è che quando si pensa ad un intellettuale si guarda sempre al passato e si torna ad elogiare Pasolini; ma questi scrittori non stanno più comodi nel passato. Sono talmente scomodi che Gilda Policastro esprime letteralmente il suo odio per Pasolini, scrivendogli una lettera nella quale in chiosa gli spiega come sarebbe ormai ora che nascessero altri poeti. Il corpo scomodo di Pasolini ritorna negli incubi di questi scrittori.
Altro punto che rende difficile una ricezione di Pasolini nel XXI secolo è la sua idea per la quale la letteratura avrebbe potuto resistere contro il mondo e modificarlo. Ma già il romanzo Petrolio, uscito postumo nel 1992, contraddice tale teoria: il romanzo, atto di accusa sulle stragi degli anni Sessanta e Settanta, esce nell’anno dell’ennesimo romanzo delle stragi, ossia la morte di Falcone e Borsellino. Ancora prima di uscire l’opera risultava inattuale, rendeva chiara, soprattutto, l’assoluta impossibilità di un’eredità pasoliniana e, in particolare, di un’idea di letteratura che implicasse la trasformazione radicale della realtà. Lo scrittore barese Nicola Lagioia ironizza sul concetto di letteratura come forza preponderante per modificare la realtà, affermando come l’Occidente per arginare il pericolo che incombeva negli anni Settanta avrebbe avuto bisogno di San Francesco, mentre invece aveva avuto solo Fortini e Pasolini.
Questo significa che si deve dimenticare Pasolini? Assolutamente no, mangiarlo in salsa piccante facendo un atto da teppista significa farlo proprio, assimilare la sua lezione, ma vuol dire anche liberarlo e liberarci da lui. Ha sicuramente ragione Gilda Policastro quando scrive che l’odiare persiste nel tempo più che l’essere stati odiati. È importante ricordare che molti sono gli autori italiani degli anni Zero e Dieci del XXI secolo che sono coinvolti e sanno quale sia la loro responsabilità di scrittori. Questi scrittori stanno scrivendo la loro personale storia, anzi meglio dire controstoria, d’Italia. Per noi lettori è importante ascoltare la loro voce.