Cosa posso dire di Alessandro De Santis? Che non lo conoscevo, intanto. Che avevo intravisto da qualche parte il titolo del suo Metro C, ma che non avevo avuto modo di leggerlo almeno fino a quando non l’ho incontrato nelle pagine del XII Quaderno italiano di poesia contemporanea, insieme a un “totale” di tutta la sua opera: il primo libro dal bellissimo titolo Il cielo interrato, fino al germe di una raccolta ancora in fase di composizione: Mura amiche. La prima cosa che ho pensato utile per parlare con una persona che conoscevo solo attraverso la fresca lettura dei suoi versi è stata quella di dargli un appuntamento, vederlo di persona. Non riesco a intervistare qualcuno per mail o nella chat di un mezzo ottuso come Facebook, considero “compiute” solo quelle interviste che hanno avuto uno scambio umano, al di là delle parole. È stato molto piacevole incontrare Alessandro e parlare con lui, il dialogo si è protratto per tutta una mattinata e su fondali differenti, al bar, seduti su una panchina dell’università, in una classe deserta… Quello che ho riportato qui è dunque solo una piccola parte dello scambio che c’è stato fra noi, ciò che la presenza ansiogena del registratore ha potuto catturare delle sue parole e delle mie timide domande. In De Santis c’è un desiderio quasi sfrontato di raggiungere e parlare con un pubblico, non di educarlo, deriderlo, straniarlo, semplicemente parlargli. Alessandro potrebbe benissimo essere una pop-star (e non è una caso il ricorrere della parola pop), ma la sua indole e la sua coscienza di grande e attento lettore lo hanno indotto ad adottare il medium della scrittura, in prosa o in poesia per lui sembra non fare troppa differenza. Scrivere un libro di poesia rivolto a tutti i comuni mortali che salgono su un tram o scendono le scalette della metro, c’è qualcosa di più irriverente per un “poeta d’oggi”?
Fabrizio Miliucci: Il verso del taglio è un percorso costituito da testi per lo più editi, da Il cielo interrato a Metro C, e poi ci sono altre due sezioni di inediti, Tre poesie e alcuni brani di Mura amiche, la raccolta a cui stai lavorando.
Alessandro De Santis: Tre poesie va considerata un po’ alla stregua della sezione Carotaggi di Metro C, nel senso che a me piace, fra una raccolta e l’altra, fare dei tentativi in cui si tasta il terreno, ci si mette alla prova, perché da una raccolta all’altra si cerca di crescere, far diventare la propria poetica qualcosa di sempre un poco diverso, pur mantenendo un filo rosso, che poi è quello che ogni poeta ha dentro se stesso. A questo punto mi farebbe piacere precisare una cosa. Gran parte delle sillogi degli altri autori del Quaderno sono inedite o fanno parte di un percorso diverso. Io ho pensato al Verso del taglio come al fermo immagine di questo momento, di dove sono io in questo momento.
Arriva un certo punto in cui tu hai una visione più o meno chiara e organizzi la raccolta in maniera programmatica?
Diciamo di sì. La cosa che sottolineo, ma viene secondo me spontanea, è il fatto che scrivendo narrativa ed essendomene spesso occupato, lo steccato poesia-narrativa è per me inesistente, se mai esista davvero. Questa forma mentis sulla poesia l’ho importata dall’ideazione di un racconto o di un romanzo, perché in quel caso è tutto più schematico, c’è un processo definito. La scuola anglosassone da questo punto di vista ci insegna addirittura ad avere una sorta di sceneggiatura, spesso si scrivono dei romanzi quasi fossero fiction, in cui l’organizzazione per scene è fondamentale.
Sei un lettore disordinato?
Più che disordinato ho una mia, chiamiamola, teoria sull’arte e su ciò che è legato alla bellezza. Secondo me non è possibile aderire all’opera di una autore a prescindere. Mi piace giudicare di volta in volta. Amare una singola poesia, un libro, una sezione, piuttosto che tutto, a volte è anche un po’ pericoloso, ma mi sembra di sentire mio questo modo: non aderire mai a un singolo autore. Ci sono naturalmente i riferimenti immancabili, ma mi piace saper cogliere, non dico il difetto, ma il limite, e magari il pregio anche laddove sembrano esserci più limiti che qualità.
In questo tuo atteggiamento di lettore critico di poesia, indirizzato, da quello che posso capire dagli esergo di Il verso del taglio, a una zona abbastanza definita della nostra tradizione, c’è da parte tua una volontà di acquisizione e superamento del medio-Novecento? Mi riferisco ai versi di Simone Cattaneo che aprono Mura amiche…
Usando gli esergo delle varie sezioni ho fatto riferimento agli specifici poeti in funzione alla sezione stessa. Diciamo che c’è una continuità nei primi tre autori [Rebora, Sbarbaro, Caproni, n.d.r.], ma anche, è vero, un saltellare, un piccolo slittamento su Cattaneo. C’è stato un periodo per esempio in cui stavo rileggendo Pianissimo, soprattutto le sue modalità espressive. Per quanto mi riguarda, la poesia può prevedere momenti di grande innamoramento per testi che riletti anni dopo mostrano che l’innamoramento era troppo acceso.
Quali sono i tuoi testi sacri, da questo punto di vista? Quelli che hai letto e riletto?
È una domanda complicata. Sicuramente, facendo un po’ il totale soprattutto della fase più recente, un poeta che ho letto e rileggo, che amo molto, è Umberto Fiori. Per altri motivi sicuramente Mario Benedetti, che tra l’altro è colui che ha scritto, con mio grande piacere, la nota introduttiva alla silloge. Lui adesso ahimé versa in condizioni piuttosto difficili e questo dà un strana sensazione ogni volta che riprendo in mano un suo libro perché il pensiero va, umanamente, anche a questa situazione. Io ero un suo lettore, non lo conoscevo di persona, anche perché lui è un poeta abbastanza appartato. È capitata un’occasione qui a Roma [Ritratti di poesia – 2014, n.d.r.] e lui era venuto come ospite. Abbiamo avuto modo di conoscerci velocemente, per quanto possibile in un’occasione così dispersiva, e ci siamo scambiati delle impressioni. Gli avevo inviato Metro C, e mi ha fatto piacere sapere che avesse letto il libro. È stato uno scambio rapido ma intenso, è una persona un po’ “intagliata nel legno” direi, ruvida, secca, ma al tempo stesso molto umana e profonda. Mi aveva detto parole molto personali sulla conclusione del libro, dicendomi, non so quanto giustamente, che le nostre poesie si assomigliavano e che entrambi per il futuro avremmo dovuto aprirci ancora di più all’esterno, al lettore. È stata una frase che mi è rimasta impressa.
Fiori, Benedetti e…
Direi anche lo stesso Cattaneo, poeta abbastanza parlato e poco letto, spesso frainteso, spesso banalizzato in diverse direzioni. È un poeta secondo me di grandi lampi, fragori. Ultimamente stavo rileggendo Peace & love, dato che Il ponte del sale (2012) ha fatto questa opera meritoria di raccogliere tutte le sue poesie. Specie in Metro C un accenno a Cattaneo potrebbe esserci, anche se non lo riconosco in maniera esplicita. Il punto verso il quale cerco di andare è quello di una poesia di chiarezza, abbastanza nitida nel suo dettato. Anche leggendo l’introduzione di Afribo nell’Oscar di Fiori si fa riferimento al “perdere le bravure”, a una poesia nella quale ci siano anche semplici artifici, enjembement, un uso della metrica per rendere tutto più lineare nella direzione del lettore. Non una linearità minimalista, però, semplicistica; una linearità di pensiero che si dovrebbe risolvere in una poesia leggibile, non dico cantabile, ma che abbia in sé una musicalità, una semplicità, al tempo stesso anche ricercata dal punto di vista linguistico.
Metro C. Per chi vive a Roma una specie di Eldorado, un mondo che deve arrivare, un’icona, un paradiso che prima o poi si paleserà e nel frattempo passano i decenni e si scoperchia tutto il marcio di un’amministrazione che lucra su quell’insegna. È una suggestione che sei libero di ricusare, naturalmente, ma anche nei riferimenti realistici di questi movimenti che descrivi, di queste scene in sequenza, credo che ci sia un piano di lettura potenzialmente allegorico, ad esempio a me veniva in mente la funicolare di Caproni, un mezzo di trasporto realmente esistente che, in questo caso al massimo grado, diventa allegoria.
La suggestione, il titolo, è nato casualmente, mentre guidavo. Cercavo un titolo in qualche modo pop. Sia mio padre che mio zio hanno sempre lavorato nel settore delle perforazioni, e negli ultimi anni proprio alla famosa Metro C romana; la suggestione quindi era anche proveniente da un dato reale. Io ero intenzionato a scrivere, rispetto a Il cielo interrato, dentro cui c’erano un po’ tutte le mie prime suggestioni poetiche, qualcosa di più ampio respiro, soprattutto legato a una struttura organica, compatta, se vogliamo un termine che si rifà al terreno, quindi cercavo, partendo dal titolo pop, qualcosa che in un’unica parola raccogliesse insieme, come hai detto tu, il senso di passato, presente e futuro. Di partenza c’era la suggestione del concept album musicale, e da lì ho lavorato su questa sottosequenza estremamente realistica da un certo lato, e dall’altro molto immaginifica. La mia idea era quella di attenermi alle fermate presunte o previste, ma al tempo stesso di non avere un’adesione totale alla realtà. Il titolo della poesia si rifà alla fermata, poi c’è questo commento orario che è fittizio, e poi una o due frasi abbastanza lapidarie che propongono un gioco al lettore dando in maniera quasi omeopatica una goccia di suggestione che a volte introduce o allude al testo che poi seguirà e in altri casi è invece totalmente straniante. È in parte anche un gioco con il lettore, una captatio dell’attenzione quasi in maniera narrativa ma al tempo stesso cerco di sviare eliminando riferimenti chiari, anche perché le poesie sono delle scene, ognuna ha un suo “protagonista” e in questo seguono uno schema abbastanza preciso; per cui l’idea era quella di accompagnare a una “rigidità” sulla sequenzialità, un testo che fosse un po’ più fluttuante, ambivalente. La considerazione principale era incentrata sulla narrativa. In quel periodo stavo leggendo un libro in cui si affermava che i grandi personaggi dei romanzi, in particolare otto-novecenteschi, avevano sempre un forte elemento appunto di ambivalenza. È una boutade, una riflessione semplice, ma che dà da pensare. Il mio obiettivo in tutte le singole poesie era contrapporre a tematiche potenzialmente anche molto drammatiche un dettaglio che rende la scena diversa da come uno iniziando a leggere avrebbe potuto immaginarla. Quasi una collocazione sequenziale di oggetti. Immaginandosela cinematograficamente, Picca nell’introduzione di Metro C parlava di polaroid. C’è un riferimento forte all’immagine, all’aspetto visivo. Un lettore leggendo le singole poesie credo che tenda a immaginarsele dentro di sé. C’è sempre un momento in cui, comunque, la messa a fuoco salta, con effetto di sfocamento, questo dovrebbe non disorientare il lettore ma ricordargli che il tragitto, il viaggio che Metro C immagina, è comunque un viaggio anche allegorico, come dicevi tu, sotterraneo ma anche terrestre, umano ma anche animalesco, che fa pure riferimento alla natura, ai minerali. Spesso parlo proprio dello scavo archeologico, dei cocci, della materia.
Leggiamo la destinazione del viaggio: Giuochi istmici.
Ore 12,22. C’è pure la lirica. Le scarpe scendono
Sei, i gradi di separazione
tra un trivellatore e un centurione
e ferri, cocci, e materiali.
Si scava verso un fondo
che un fondo non è mai
e quando il gran lavoro
(s’) appressa al taglio-nastro,
ossa e occhiaie vengon fuori
e la gente scalpita,
mescola da bere col ricordo,
in un banchetto scomodo,
dove il rumore di fondo è un
ballo felice e rovinoso.
Una piccola considerazione di colore su questa poesia. Nel sottotitolo è scritto C’è pure la lirica. Inizialmente nella raccolta c’erano solo le poesie, non le frasi introduttive. Facendo leggere i testi a un amico poeta, Carlo Carabba, mi diceva che le poesie gli piacevano ma che secondo le sue impressioni mancava un po’ la lirica. E allora mi è venuto in mente di mettere questo divertissement. Questa è la poesia che chiude la raccolta dopo una serie di fermate molto serrate, è quasi un voler prendere un respiro, un tic impercettibile, un gesto rituale prima di scendere.
A questo punto mi viene da chiederti chi sono i narratori che leggi e rileggi…
Quando si legge bisogna ricercare qualcosa che ci permette di aver fatto un piccolo passo non dico in avanti ma un passo diverso da quello che sarebbe stato il nostro. Mi capita, sia in poesia che in narrativa, di leggere cose che probabilmente, in situazioni di normalità, di grande serenità di scelta, non leggerei, ma non dico come imposizione ma come sforzo anche creativo. Pagliarani per esempio.
Ti dico sinceramente che io pensavo a Penna mentre leggevo la raccolta.
Anche Penna. Il primo lettore delle bozze di Metro C, che poi ne è diventato anche il prefatore, Aurelio Picca, mi parlava, così un po’ fuori dai denti, in amicizia, di Penna. Questo ovviamente non poteva e non può che farmi enormemente piacere. Chiudo la domanda sulla narrativa. Uno scrittore che amo è sicuramente Céline, a prescindere dalla sua spigolosità umana. Facendo riferimento a una singola opera, quasi tutti parlano del Viaggio come del suo miglior lavoro, secondo me Morte a credito (tradotto da Caproni) è il libro sul Novecento. Ma non voglio assurgere a interprete della poetica céliniana. È un autore per il quale il discorso che facevo inizialmente tentenna un po’, in questo caso sarei quasi tentato di recepirlo tutto. Fra i contemporanei poi Bolaño, forse D.F. Wallace, Bernhard, Sebald, scrittori nei quali ricerco una cifra che mi permetta di fare un piccolo scatto in avanti rispetto alla letteratura più mainstream, senza nulla togliere a questo genere di narrativa.
Mura amiche sarà il tuo prossimo lavoro. Te la senti di dirci qualcosa?
Partiamo sempre dal titolo, che è la suggestione più immediata e decifrabile. Per ora sono nella fase di tranquillità anche un po’ impetuosa di letture, annotazioni. Dal primo al secondo lavoro ho fatto passare diversi anni: sono tra quelli che pensano che tra un libro e l’altro debba e possa passare diverso tempo. Non riesco ad essere particolarmente veloce e “produttivo”. Mura amiche dovrebbe essere il prossimo lavoro, il titolo gioca un po’ su un luogo comune, la mia idea è quella di fare un lavoro dedicato alla famiglia intesa in maniera molto ampia, sia l’interno di famiglia borghese ma anche l’aspetto abitativo, inteso come senso materiale, abitazione, edificio. In questo può esserci, sia pur solo come suggestione, un riferimento anche all’opera di Fiori, che con Case e altri testi aveva declinato proprio questi temi. L’idea è quella di mantenere un lavoro organico e compatto ma anche di ampliarlo a livello di sezioni e di aprire alla poesia narrativa, come ad esempio in Tersa morte di Benedetti; ma anche su questo c’è una discussione più che aperta, su narrativa in poesia e poesia in narrativa. Nel Quaderno c’è Carlucci per esempio che fa un uso estremamente interessante di questo tipo di approccio.
Qui si possono leggere le altre puntate del ciclo dedicato ai poeti del Quaderno di poesia Marcos y Marcos:
Tommaso Di Dio, Il crollo e il canto – per il XII Quaderno di poesia
Alessandro Giammei, Fingendo te – Intervista a Maddalena Bergamin
Alberto Comparini, La sabbia e il fuoco – Intervista a Maria Borio
Claudia Crocco, Eliminare l’assoluto? – Intervista a Lorenzo Carlucci
Daniele Visentini, Lo spazio bianco che viene dopo – Intervista a Marco Corsi
Michel Cattaneo, Ridursi al silenzio mai – Intervista a Diego Conticello
Immagine di copertina. Sun On The Pool Los Angeles @David Hockney, 13 aprile 1982