Wes Craven e la sua banda di amici che di nome fanno Hooper, Romero, Carpenter sono entrati per sempre nella storia del cinema americano dell’orrore segnando un’epoca, quella degli anni Settanta e Ottanta, mai così florida per quantità e qualità di film di genere. Tuttavia, esaurita la loro onda, Hollywood non ha saputo raccogliere il testimone di questi vecchi maestri, lasciando un grande vuoto per tutti gli anni Novanta e delegando a più freschi cineasti europei il compito di portare avanti quel tipo di cinema. Se, come abbiamo visto, l’horror ha saputo negli ultimi anni trovare terreno fertile in Europa, lo stesso non si può dire per gli Stati Uniti. Naturalmente la macchina hollywoodiana produce ogni anno un numero altissimo di film horror, ma il genere sembra in qualche modo incancrenito e inaridito, incapace di portare sullo schermo proposte nuove e coraggiose, salvo poche meritevoli eccezioni.
A dimostrazione di questa penuria di idee c’è la tendenza, apparentemente inesauribile (vedi il recente Poltergeist), a rifare tutti, ma proprio tutti, i classici del passato. Dopotutto, la passione per gli americani per il remake è da anni radicata in profondità, e a Hollywood piuttosto che provare a importare un film straniero, si preferisce rifarlo da capo adattando storia e personaggi a un linguaggio cinematografico il più comprensibile, classico e diretto possibile, che si tratti dell’oscar argentino Il segreto dei suoi occhi, del cult coreano Old Boy o del mucciniano L’ultimo Bacio. Nel caso degli horror, non si tratta di superare barriere culturali o linguistiche, quanto di fronteggiare una crisi di idee (e, probabilmente, una mancanza di coraggio) che affligge produttori, registi e sceneggiatori, ben felici di attingere al tesoro lasciato dai propri padri trent’anni prima e riproporre vecchie idee e figure già viste, spesso arrangiate da mani non propriamente capaci. I risultati sono alterni, per non dire scoraggianti: ecco quindi che abbiamo Non aprite quella porta (2003) a fare da apripista all’imminente profluvio di remake, i suoi due seguiti nel 2006 e nel 2013, The Fog – Nebbia assassina, i mediocri Halloween del 2007 e del 2009 (i peggiori film di Rob Zombie, di cui parlerò fra poco), gli inutili Venerdì 13 (2009), L’ultima casa a sinistra (2009), I Spit on Your Grave (2010) con relativi seguiti (2013 e 2015), il pessimo Nightmare (2010), incapace di proporre alcunché se non qualche salto sulla sedia a basso costo. Tra tutti, vale la pena di ricordare il già citato Le colline hanno gli occhi, il solido La città verrà distrutta all‘alba (2010) o il violentissimo La casa (2013), l’unico film della saga creata da Raimi da cui sarebbe stato possibile trarre un remake. Se si pensa che questi titoli siano abbastanza, basti sapere che solo nel 2016 sono previsti Halloween Returns, un nuovo Venerdì 13 e un prequel di Non aprite quella porta, intitolato Leatherface (occhio però: la regia di quest’ultimo è affidata alla coppia Bustillo-Maury che abbiamo conosciuto per À l’intérieur; chissà se sapranno resistere alla macchina hollywoodiana o se ne verranno fagocitati). E la New Line ha appena annunciato di voler riazzerare la saga di Nightmare con un nuovo reboot…
Dato l’addio a Craven, e oramai perduti gli altri grandi vecchi (di Carpenter merita però il mediometraggio tv del 2005 Cigarette Burns, mentre The Ward del 2010 annega nella mediocrità), sono ben pochi gli autori del nuovo panorama horror americano. Eli Roth, esaurito il credito di Cabin Fever (2002, una gradevole variazione del tema teenager isolati in una casa tra i boschi) e dell’inspiegabile sponsorizzazione di Tarantino, passerà alla storia per aver definito il più deplorevole dei sottogeneri horror, il torture porn, in cui accanto al presunto gusto nel vedere torturati giovani corpi manca spesso regia, sceneggiatura e recitazione. Si vedano i pessimi Hostel o l’imbarazzante Green Inferno, ispirato al filone cannibale italiano degli anni Settanta. James Wan, creatore della fortunata saga di Saw, non è invece mai riuscito a dimostrare un vero talento che esuli dall’uso e abuso dei jump scare con i suoi Insidious e L’evocazione, anche se forse ha trovato una dimensione come regista d’azione, si veda il campione di incassi Fast & Furious 7 e il futuro Acquaman del nuovo corso DC, in uscita nel 2018.
La casa dei 1000 corpi: simpatiche clownerie
L’unico vero autore su cui vale la pensa soffermarsi è dunque Rob Zombie, all’anagrafe Robert Bartleh Cummings, musicista, attore, regista, artista a tutto tondo. Zombie esordisce al cinema nel 2003 con La casa dei 1000 corpi, un film sin dal titolo decisamente sopra le righe. Ispirato al southern gothic tanto caro ai capisaldi degli anni Settanta, il film sembra riproporre le tematiche di sempre – i teenager in vacanza, la famiglia di psicopatici – ma lo fa con un’eleganza nei movimenti della macchina da presa che difficilmente si trova in questo genere di film, e soprattutto premendo al massimo l’acceleratore non tanto sul piano del gore, ma su quello del grottesco e della follia, grazie soprattutto all’azzeccatissima iconografia circense che caratterizza i cattivi. E se i componenti della famiglia Firefly possono sembrare sufficientemente fuori di testa, è nel finale che Zombie si spinge ancora più in là, portando lo spettatore a fare conoscenza con le entità che dimorano nel sottosuolo della casa.
La casa del diavolo: nessuno è senza peccato
La casa del diavolo (2005) è invece un esempio di sequel più unico che raro: infatti, ha la particolarità di promuovere a protagonisti nientemeno che gli antagonisti del film precedente, gli psicopatici Firefly, scoperti dalla polizia e braccati senza pietà dal sadico sceriffo Wydell in cerca di vendetta per la morte del fratello. Un film strano, senza figure positive, dove il regista non prova nemmeno per un istante a cercare di far affezionare il pubblico ai suoi personaggi, che si ritrovano sì contro un nemico forse peggiore di loro ma che non perdono l’occasione di commettere un paio di omicidi davvero sgradevoli per quanto sono gratuiti e brutali. Tuttavia, durante l’epico redde rationem finale realizzato con un memorabile rallenti, è impossibile non provare un pizzico di bizzarra simpatia per gli infami Firefly, lanciati verso i fucili nemici come Butch Cassidy e Sundance Kid. Completamente diverso dal primo capitolo per tematiche, stile e atmosfere, La casa del diavolo è una sorprendente commistione di thriller, horror e western, un istant cult del cinema pop di quegli anni.
Le streghe di Salem: pura poesia
Dopo l’infelice parentesi dei remake di Halloween, che davvero ben poco hanno di diverso rispetto alla media dei remake dell’epoca e su cui non vale la pena soffermarsi, Zombie torna sul grande schermo nel 2012 con un altro film assolutamente peculiare, Le streghe di Salem, il quale racconta la storia di una giovane Dj che dopo aver ascoltato un misterioso disco inizia ad avere terrificanti allucinazioni e a sentire il sussurro delle streghe vissute in quei luoghi centinaia di anni prima. La storia è tutta qui, ma ciò che conta non è la narrazione o i personaggi, ma le immagini, le suggestioni, le invenzioni visive culminanti con il finale più delirante che Zombie abbia mai concepito. Insomma, come direbbe Pasolini, puro cinema di poesia.
Zombie è dunque probabilmente l’ultimo vero autore horror americano, e dopo essersi dedicato negli ultimi anni alla musica, è pronto a tornare nel 2016 con il suo nuovo film, 31, la cui trama è tutta una programma: cinque persone vengono rapite e rinchiuse in un luogo chiamato Murder World, e costrette a combattere contro una banda di clown assassini per portare a casa la pelle.
Esistono tuttavia alcuni film, più o meno piccoli, che pur non facendo parte di nessuna saga in particolare meritano di essere menzionati, e in qualche caso riscoperti. La vendetta di Halloween (2007) – questo il demenziale titolo italiano appioppato a Trick ‘r Treat – è un delizioso e divertentissimo connubio tra horror e commedia, un film a episodi ambientato durante la notte di Halloween che racconta alcune storie sui miti della notte delle streghe. I racconti, che non si prendono mai troppo sul serio, toccano un ampio ventaglio di classici del genere, dai morti viventi, ai vampiri, ai killer psicopatici, anche se su tutto e tutti sembra regnare un’entità sfuggente, un essere dalla testa a forma di zucca che sembra personificare lo spirito stesso di Halloween.
The Mist: la nebbia che uccide
The Mist parte da una base solidissima, l’eccellente racconto omonimo di Stephen King incluso nella raccolta Scheletri. La trama è tanto semplice quanto accattivante: una misteriosa nebbia cala su una tranquilla cittadina americana, portando con sé mostruose creature aliene assetate di sangue. Costretto a barricarsi in un supermercato, un gruppo di sopravvissuti scoprirà sulla propria pelle che il male alberga nell’animo umano più che in ogni altro luogo o creatura… The Mist è un vera e propria pietra miliare del genere, un grandissimo film che sopperisce a effetti speciali in CG scadenti e a una recitazione piuttosto approssimativa con una scrittura di altissimo livello, un ritmo sempre teso e serrato e un finale indimenticabile che cambia totalmente quello del racconto (per il resto il film è fedelissimo), regalandoci una delle conclusioni più agghiaccianti e disperate che si siano mai viste sullo schermo.
Stake land e La casa nel bosco: rivisitazioni horror
Stake Land esce nel 2010, quando il genere postapocalittico non era ancora così abusato. Stavolta, il collasso della società è dovuto a un’invasione di vampiri, mostri bestiali privi di raziocinio molto più simili a zombi che a Nosferatu o Dracula. L’adolescente Martin, che ha visto la propria famiglia venire sterminata, lotta per raggiungere il Canada, dove forse l’epidemia non è ancora arrivata in compagnia dell’ammazzavampiri chiamato Mister: saranno molte le sorprese e le insidie che il nuovo mondo metterà sulla loro strada. Stake land è un piccolo film che nonostante il budget modestissimo riesce a creare un universo postapocalittico riuscito e credibile, dove come sempre gli esseri umani oltre che con i mostri sono costretti a confrontarsi anche e soprattutto con i propri simili.
Quella casa nel bosco (2012) è una geniale parodia de La casa e dei suoi epigoni che dimostra come sia possibile partire da un canovaccio classico e farlo rifiorire grazie al talento e alle idee: se all’inizio finge di andare verso strade già battute con i soliti studentelli in villeggiatura, nella seconda parte prende tutti gli stereotipi del genere, li mischia sapientemente, e ci regala qualcosa di assolutamente originale e inedito.
It Follows: finalmente il terrore
Infine It Follows (2014), un film strano, misterioso e davvero terrorizzante. Per le strade di una cittadina che pare misteriosamente priva di adulti, aleggia una maledizione: chi ne viene colpito è destinato ad essere seguito in eterno da una creatura che ogni volta assume un aspetto differente, in grado di uccidere orribilmente la propria vittima una volta raggiunta. L’entità non corre, non parla, non ha sentimenti, si limita a camminare, inesorabile, inarrestabile, a metà tra uno zombi e un terminator. L’unica possibilità di salvezza è “passare” la maledizione a un’altra persona tramite un rapporto sessuale, sapendo però che se questa verrà uccisa la creatura tornerà a tormentare la vittima precedente. Le regole sono chiare ed esposte durante una delle prime sequenze del film, la premessa è semplice ma accattivante, la regia elegante ed efficacissima nel rappresentare gli assalti della creatura. It Follows soffre purtroppo un vistoso calo nella seconda parte, che però non gli impedisce di essere, a pari merito col canadese Babadook, uno degli horror più interessanti e originali degli ultimi anni.
L’alba dei morti viventi: un remake riuscito
Se c’è però una creatura più di tutte rappresentativa di questi anni, quella è senza dubbio il morto vivente, il ritornante, il non morto, sua maestà lo zombi. È indubbiamente lui il mostro del nuovo millennio, l’icona horror più amata dal pubblico e sfruttata dai produttori, capace di resuscitare dal cimitero degli anni Novanta in cui era stato seppellito per tornare a cibarsi dei viventi.
Inaugurato da 28 giorni dopo, è lo zombi veloce ad essere protagonista de L’alba dei morti viventi, l’eccellente remake del capolavoro di George Romero realizzato da Zack Snyder nel 2004. Nuovamente ambientato in un centro commerciale, il film di Snyder perde ogni velleità di satira politica e sociale su cui si fondava il prototipo (gli zombi, memori di ciò che erano abituati a fare in vita, tendevano a sciamare verso il centro commerciale), e si limita a un solidissimo intrattenimento e a un grande senso dell’azione. I personaggi non sono tutti riusciti allo stesso modo, ma il gruppo di sopravvissuti funziona, le dinamiche interne sono originali e accattivanti (si veda l’evoluzione del personaggio di CJ ad esempio), e nel finale Snyder riesce persino a commuovere lo spettatore.
Il caso Max Broox e il suo manuale tradito
Se l’anziano Romero dimostra con i tre mediocri seguiti della sua celebre saga che oramai gli zombi non sono più cosa sua, due sono i più meritevoli eredi della sua creatura, ossia i giovani Max Brooks e Robert Kirkman. Brooks, figlio del celebre Mel, scrive nel 2003 Il manuale per sopravvivere agli zombi, una divertente parodia sui manuali di sopravvivenza tanto cari agli americani, me soprattutto dà alle stampe nel 2006 il suo capolavoro Word War Z, il resoconto fittizio di un giornalista in viaggio per un mondo oramai quasi del tutto sanato dall’epidemia zombi per intervistare numerosi sopravvissuti: il romanzo adotta una struttura molto particolare, per cui il personaggio principale serve da collante per un nutritissimo numero di racconti che altro non sono se non le storie di chi è riuscito a sopravvivere all’apocalisse. Un romanzo ben scritto che per sua natura spazia per vari generi e scandaglia i più disparati comportamenti e sentimenti umani: alla fine, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, emerge un quadro di grande speranza per un’umanità per nulla disposta ad arrendersi all’estinzione e a lasciare il pianeta ai morti che camminano. Il suo passaggio sul grande schermo, purtroppo, è stato a dir poco traumatico: per quanto sarebbe stato velleitario sperare in una trasposizione cinematografia fedele, ci si sarebbe aspettato quantomeno un buon prodotto dall’omonimo film del 2013 con Brad Pitt. Il risultato è invece un mediocre zombi kolossal senza una goccia di sangue per rientrare nel PG-13 e privo di tutte quelle peculiarità che rendevano invece grande il romanzo.
The walking dead: la serie non è il fumetto
Su Kirkman e il celeberrimo The Walking Dead non c’è molto da dire, se non che si tratta di una delle serie televisive più seguite di sempre e che promette di arrivare, almeno a sentire i produttori, fino a dodici stagioni, senza contare lo spin off Fear the Walking Dead trasmesso lo scorso agosto e concentrato sulle prime fasi del crollo della civiltà. Purtroppo, come nel caso di War World Z, la riduzione televisiva non è qualitativamente all’altezza del fumetto, sia per qualità dei dialoghi che per discutibili scelte su alcuni personaggi fondamentali (Andrea, Tyreese, il Governatore…), oltre che per qualche eccessiva lungaggine probabilmente necessaria a raggiungere un numero congruo di puntate per stagione. Nonostante alcuni archi narrativi siano davvero validi, come la fuga dalla prigione verso Terminus, la saga dei cannibali o l’arrivo ad Alexandria, le vette raggiunte dall’inglese Dead Set rimangono lontane. In questo momento siamo nel bel mezzo della sesta stagione, con Rick e compagni impegnati su più fronti: oltre a guadagnarsi la fiducia degli abitanti di Alexandria devono guardarsi dal gregge di zombi alle porte della città e dalla minaccia dei Lupi, una banda di spietati predoni che sembra avere nella violenza l’unico scopo di vita. Come sempre, le puntate ricche di azione sanno regalare grande spettacolo, anche grazie stavolta a un numero davvero cospicuo di zombi che mai si era visto prima, mentre non appena il ritmo rallenta la serie incappa nei difetti di sempre: dialoghi scontati, comportamenti incongrui, relazioni tra personaggi poco credibili.
Scream, la serie: l’ultimo omaggio a Wes Cravern
La scomparsa di Wes Craven è stata lo spunto per intraprendere questa avventura nel cinema dell’orrore occidentale, e mi piacerebbe concludere la carrellata tornando in qualche modo proprio a lui, il papà di Freddy Krueger e tanti altri incubi. Nel 2015 è infatti uscita la serie televisiva di Scream, ispirata all’omonima quadrilogia, e nonostante non promettesse molto di buono si è rivelata una piacevolissima sorpresa. Aggiornando i tempi e passando dagli anni Novanta del telefono fisso ai collegatissimi anni Duemila dove imperano smartphone, Facebook e social network vari, la serie riesce nuovamente a giocare con gli stereotipi del genere senza mostrare segni di stanchezza. Certo, la formula dei soliti teenager tanto belli quanto irritanti ammazzati a uno a uno dal killer in maschera è sempre la stessa, ma la struttura seriale (che permette storie parallele e maggiore approfondimento), gli omicidi particolarmente brutali e gustosi e qualche personaggio decisamente azzeccato (come il nerd Noah, che più di una volta strizza l’occhio allo spettatore) sono qualità che elevano la serie targata Mtv a un livello forse superiore a quella del prototipo. Cosa che, credo, non abbia fatto che piacere al vecchio Wes qui in veste di produttore, alla cui memoria sono dedicate le ultime puntate.
Le altre puntate di Bagni di sangue: gli eredi di Wes Craven, a cura di Niccolò Petruzzelli:
1) Il cinema horror francese
2) Il cinema horror inglese
3) Il cinema horror ispanico