Può la vita di un serial killer concentrare l’essenza dell’esperienza umana, produrre rigetto e compassione, inquietudine e immedesimazione? Può la stessa vita diventare il simbolo di un’intera società e di un complesso momento storico?
La somma di queste domande fa di Il giardino delle mosche di Andrea Tarabbia, edito da Ponte alle Grazie, un libro raro e importante. Raro perché prezioso, importante perché crudo, perché ambizioso. Alla seconda incursione nella storia della Russia contemporanea (dopo Il demone a Beslan, dedicato al tragico eccidio del 2004), Tarabbia costruisce un romanzo enorme e profondo, ripercorrendo la parabola criminale di Andrej Cikatilo, «il mostro di Rostov», carnefice di cinquantasei vittime tra il 1978 e il 1990, e insieme ricostruendo, in un affresco potente e minuzioso, il crepuscolo dell’Unione Sovietica.
Come se rendesse confessione, è lo stesso Cikatilo a esporre la sua vicenda, in un intreccio di richiami e flashback che somiglia a una matassa di pensieri. Rievoca la sua infanzia in Ucraina, l’orrore della povertà nei bui anni ’30, le umiliazioni che lo hanno stravolto, l’evoluzione dei suoi istinti perversi, lo svolgimento della sua carriera criminale fino alla tragica conclusione. Mostra lo strazio e l’abiezione della sua anima, il potere “narcotico” della devozione al comunismo, la menzogna dell’omologazione. Mente, innanzitutto a se stesso, o forse svela una verità inconfessabile. La propensione dell’uomo, quanto più maltrattato dal destino, aizzato dall’ideologia, protetto dall’anonimato, a farsi “dio della carne”.
Per almeno due ragioni Il giardino delle mosche è un libro che non si dimentica. Ha il pregio di raccontare “l’umanità” del male, di restituire tragicità all’esperienza umana, di riannetterle la malvagità che le appartiene. Che appartiene alla natura, alla storia prima ancora che alla volontà di ogni singolo uomo.
Ha, in più, il pregio di raccontare una vita estrema, come poche se ne incontrano nella società ovattata del mondo “libero”: una vita segnata dall’orma della miseria più nera, straziata da traumi indicibili, offesa da insopportabili “mutilazioni”: una vita marcita e fermentata nella bolla della “mostruosità”. La follia che nasce dalla mediocrità, la crudeltà inferta che scaturisce dalla crudeltà subita sono un classico del retroterra umano e della storia psicologica dei serial killer; ma qui la differenza la fa il tocco.
Il giardino delle mosche ha la tempra, quanto a stile e meccanismo narrativo, per affrontare l’argomento poderoso di cui tratta. È un liquido, denso, che cade sulla testa; esce da un contenitore piccolo, poche pagine in cui si narra la storia di un bimbo che viene al mondo nella più orribile, anonima desolazione, e si spande e cola sulla faccia, sul collo, sulle spalle, le braccia e tutto il corpo. Imbratta e infradicia. Non puoi fermarlo, solo seguirlo, sentirlo mentre penetra, rinfrescante e venefico.
Pagina dopo pagina Andrea Tarabbia svolge una brillante autopsia letteraria, di un’anima invece che di un corpo; compone un romanzo “scientifico”, scritto con la perizia e la nettezza di una dissezione, una narrazione senza artifici o facili concessioni, condotta a sangue freddo ma non fredda: un bisturi che incide i tessuti e provoca per ciò stesso, inevitabilmente, emozione.
Grazie al talento dell’autore, Il giardino delle mosche riesce nell’impresa di essere livido, crepuscolare e insieme fosforescente, galvanico: un libro di tinte fosche e illuminazioni artificiali, permeato dalla penombra di una dimensione intima, da un odore di tana, aspro e penetrante, di vita al suo stadio primigenio.
Sono, questa penombra e questo odore, questo scoppio di vita incontrollato e feroce, ancora più inquietanti perché avvengono nei meandri della mostruosa utopia comunista, di una società apparentemente metallica e meccanica, che quasi si fa vanto di perseguire l’omologazione e il controllo. Andrea Tarabbia ha scritto “1989”: una disamina reale e simbolica del crollo dell’Unione Sovietica e al tempo stesso un affresco orwelliano sulle assurde pretese, le storture disumane, le mostruosità della Rivoluzione concentrate nella vicenda emblematica di un uomo. Non un ribelle come il Winston di 1984, ma addirittura un (presunto) campione dell’etica di regime, una “scopa del sistema”, che uccide pretendendo di eliminare scorie, un comunista fallito eppure incallito, che del sistema diventa la perversa sublimazione e del sistema annuncia la fine, come di un’ipnosi collettiva, con un suono dirompente di gong.
L’epilogo della parabola di Cikatilo si identifica con quello di tutta un’epoca e di uno Stato intero. Il cuore che smette di battere nell’ultimo rigo – motore diabolico di un organismo deforme e insieme ultimo rifugio di una vita disperata – non appartiene solo al mostro di Rostov: è anche il cuore di un apparato e di un’ideologia, di un moloc politico, un virus della logica e della coscienza che per settant’anni aveva infettato e controllato milioni di persone. Alla fine vanno insieme sul patibolo, il mostro e il moloc; svaniscono in una specie di sanguinoso contrappasso che trasforma l’assassino in vittima e la repubblica socialista in un gigantesco inganno. Ma non c’è vittoria, anche nella giustizia: su tutto spira un alito di liberazione tanto quanto di desolazione. E forse è proprio questo il senso.
Nella sua spirale di eventi e sentimenti, nella sua pluralità di piani, Il giardino delle mosche è un romanzo per nulla edificante, a tratti raccapricciante eppure altamente “morale”, di grandezze e profondità assolute. È un romanzo che non può passare inosservato, che riporta la creazione letteraria alla sua dignità più alta.
Andrea Tarabbia, Il giardino delle mosche, Ponte alle grazie, 2015, pp. 336 €16,80