Giorni natalizi, giorni di classifiche, consigli e Top 10. Come sempre, la Balena Bianca non scampa al proprio dovere e si lancia nel “pastone” di fine anno. Ce n’è per tutti i gusti: 7 uscite targate 2015, 2 classici del Novecento, 1 libro a metà strada tra le due categorie. Italiani, americani, tedeschi e francesi; esordienti o autori affermati: l’unico paletto che ci siamo dati è quello di scegliere tra titoli di cui per vari motivi non si è parlato abbastanza (o tra quei classici che sempre vengono nominati, ma raramente letti con sincerità). Insomma, ecco qui:
Gabriele Romagnoli, Solo bagaglio a mano (Feltrinelli 2015)
Nell’anno che si apriva con Quando siete felici, fateci caso di Kurt Vonnegut, ecco Gabriele Romagnoli rompere gli ultimi indugi del 2015 in una giornata di Indian Summer, con il lucido positivismo di Solo bagaglio a mano. Come in un manuale self-help, ma iniziando da qualcosa di più estremo visto che l’autore va al suo funerale, e comincia a raccontare quel che ha pensato mentre era morto, pur di imparare qualcosa sulla vita. È una questione di relativismo delle cose umane, di rispondenze temporali e pragmatismi emotivi a ogni latitudine: col piano di visitare 100 paesi nel corso di un’unica vita, eliminando cioè quella “di scorta”, l’autore inizia il suo tragitto senza certezze (che mica nessuno stiverebbe davvero un cappello nella cappelliera di un aereo, a meno di volersene disfare prima nella forma e poi nella sostanza…) bensì accogliendo il privilegio del limite. Non una diminuzione delle possibilità, ma un bagaglio sostanziale di affrancamento dai bisogni; non un tao del viaggio come lo chiamava Paul Theroux, ma nemmeno un dettame ascetico come per Tiziano Terzani. Più facilmente perché, come s’impara in Ruanda, “I bersagli mobili sono più difficili da colpire”. One Life, One Bag. Non buon viaggio, ma avanti viaggiatori. Fabio Disingrini
Adrien Bosc, Prendere il volo (Guanda 2015)
È la notte tra il 27 e il 28 ottobre 1949 quando il Lockheed Constellation F-BAZN, decollato da Parigi e diretto a New York, si schianta su una montagna delle Azzorre. Muoiono tutti, equipaggio e passeggeri. A bordo del velivolo c’è Marcel Cerdan, il pugile più famoso dell’epoca, atteso in America dalla diva Édith Piaf e dalla cintura dei pesi massimi; c’è Kay Kamen, l’inventore del merchandise targato Disney, c’è Ginette Neveu, la virtuosa del violino, in viaggio con il suo Stradivari verso la definitiva consacrazione, alla Carnegie Hall. Ci sono loro, ma anche molta gente normale, pastori baschi ed emigranti alla ricerca di una vita migliore. Il breve – ma intenso – “romanzo” di Adrien Bosc (classe 1986, Grand prix du roman de l’Académie française) va alla scoperta delle quarantasette vittime, delle loro storie. E l’autore si comporta con loro come un fratello maggiore che non vuole rassegnarsi all’inevitabile e allora solleva e abbassa sipari, alla costante ricerca della luce perfetta, del riverbero giusto, senza perdersi nel melodramma. A guidare la sua penna, quelle coincidenze che, legate le une con le altre, si trasformano in destino. Michele Turazzi
Jack London, Il richiamo della foresta (Bompiani 2015)
1903, Yukon (Canada). Nel bel mezzo della Klondike Gold Rush il cane Buck, dopo esser stato rapito al suo amorevole e benestante proprietario con cui viveva nella temperata e comoda California, arriva in quello che è in quel periodo con ogni probabilità il posto più freddo, scomodo e pieno di pazzi sul pianeta. The call of the wild è uno dei più grandi romanzi di avventura mai scritti, ma come tutti i grandi romanzi non è solo il racconto di un’avventura. Il più che antropoformizzato Buck vive la sua vicenda, a metà tra un romanzo di formazione darwiniano e costruzione dell’ideale nietzschiano, in un mondo degli uomini dominato dal materialismo, dalla mancanza di valori e dalla smodata febbre dell’oro, cui fa da contraltare una natura ostile e meravigliosa, affascinante e pericolosa. Di questa pietra miliare della letteratura novecentesca finora, per varie ragioni, mancava in italiano una traduzione all’altezza. Bompiani risolve questa mancanza con questa nuova traduzione di Michele Mari. E alla fine vi assicuro che lo spettacolo vale il biglietto e anche l’attesa. Un classico ma anche un libro di avventura, profondo e appassionante, denso ma di facile lettura, in una nuova vitale traduzione di uno dei più rispettati scrittori italiani, cosa volete di più? Davide Saini
Asaf e Tomer Hanuka sono gemelli, come Luther e Johnny Htoo, reali attori della nostra storia recente e protagonisti de Il Divino, graphic novel che gli Hanuka hanno illustrato su una sceneggiatura di Boaz Lavie. Anche Boaz ha un fratello, il musicista Oren Lavie, e in passato ha dedicato proprio a questo rapporto il cortometraggio The Lake. Non risulta allora incredibile che sia stata scelta la leggenda dei Gemelli Divini a fare da sfondo a un racconto che vede intrecciarsi magia e guerra, attualità e fantasia. Una storia di interessi occidentali in un paese immaginario del sud-est asiatico, il Quanlom, in cui gli invasori sono spietati e le popolazioni autoctone, sostenute dal magico potere della loro terra, reagiscono con ferocia e crudeltà all’incombente minaccia di distruzione. Abbiamo allora Mark, esperto di esplosivi che viene convinto dal vecchio amico dell’army Jason a seguirlo in un lavoro che garantisce guadagni facili: far saltare in aria condotti lavici in Quanlom per il governo americano. È qui che Mark incontrerà dei ragazzini magici, che lottano senza paura per la salvezza delle loro montagne. È allora interessante il tentativo de Il Divino di riportare un fatto di attualità, come quello del massacro del popolo Karen in Birmania a cui fa capo la storia dei gemelli Htoo, a una dimensione di invenzione quasi onirica. Le illustrazioni di Asaf e Tomer Hanuka, poi, palpitano energia come il magico paese che raffigurano, con colori accesi e definiti, pronti ad esplodere in illustrazioni decisamente pulp appena la scena di sposta, dalle ambientazioni occidentali, alle immaginifiche foreste del Quanlom. Matilde Quarti
Filippo Tuena, Memoriali sul caso Schumann (il Saggiatore 2015)
Un compositore preso da follia e rinchiuso in una casa di cura, dove trascorre i suoi ultimi, inconsolabili anni di vita; un tema musicale inquietante e misterioso, che sopravvive al suo autore attraverso variazioni fantasmatiche. Tra La scomparsa di Majorana di Sciascia e Les variations Goldberg di Nancy Huston, Memoriali sul caso Schumann, libro raffinato e cupo, si pone all’incrocio tra due tradizioni: da un lato l’inchiesta documentaria, la ricostruzione delle storie attraverso le fonti – in questo caso “miste di vero e invenzione” – e la loro interpretazione; dall’altra la linea del romanzo musicale, che attraverso la logica delle variazioni apre il campo a una costruzione polifonica, che fa risuonare da una voce all’altra il mistero di una verità enigmatica. A queste linee Tuena aggiunge i toni oscuri del romanzo gotico, lo spiritismo di certi circoli intellettuali di metà Ottocento e le presenze fantasmatiche che ingombrano i sonni dei folli come dei savi. La scrittura si modula sulle inflessioni dei diversi interlocutori: da Rosalie Leser, amica del Maestro, al figlio Ludwig, anch’egli uscito di senno, fino all’allievo amato, l’efebico Johannes Brahms. Personaggi in carne e ossa, le cui voci si avvicendano e si intrecciano in una conversazione ininterrotta e allo stesso tempo incomunicante: “non arriverete mai a sapere esattamente cosa è accaduto. E non perché vi manchino gli indizi, ma perché non è possibile sapere più di quanto non si intuisca”. La ricerca della verità a cui tutti tendono è destinata a rimanere frustrata; unica soddisfazione per il lettore, allora, sarà il mistico gioco del riconoscimento, tra le righe di questo romanzo-sudario, di un’unica, opprimente presenza, quella del folle e geniale maestro Robert Schumann. Giacomo Raccis
Kamel Daoud, Il caso Meursault (Bompiani 2015)
Un libro che in realtà è due libri. Il giornalista algerino Kamel Daoud sceglie un testo celeberrimo, Lo straniero di Albert Camus, e decide di dargli un volto completamente nuovo. Quella vittima senza nome del primo libro, diventa protagonista assoluto e rivendica la propria identità nel secondo e, con lui, il suo paese: l’Algeria. L’autore ha detto: “Ho voluto salire sulle spalle di un gigante per vedere più lontano e, attraverso il suo genio, interrogare il proprio tempo sul tema dell’incontro con l’altro”. Il suo tempo è anche il nostro: fatto di stranieri e paure isteriche, di mancata conoscenza e rifiuto immotivato dell’altro, di ricerca di una libertà che per ciascuno di noi si realizza in modi estremamente diversi. Il romanzo, non a caso, è molto più di una risposta a una grande opera e molto più che un insieme di vicende legate a un paese solo. È il tentativo di fare di una semplice storia, il racconto di una condizione umana universale la quale, forse, potrà finalmente trovarci tutti allo stesso livello. Francesca Salamino
David James Poissant, Il paradiso degli animali (NN 2015)
L’ho rincorso per librerie per un paio di settimane – devo ammettere – senza vera convinzione; finché è successo che l’ho comprato in ebook pigiando per sbaglio il tasto giallo di Amazon.
Ne Il paradiso degli animali, esordio di David James Poissant, tradotto da Gioia Guerzoni, c’è la storia di Luke, 6 anni, un quoziente intellettivo sopra la media, un’insegnante che se ne accorge, una madre che si impegna perché le frequentazioni del bambino cambino, un padre scettico, un padre che guarda suo figlio mentre gioca con treni e binari. Nella storia che Poissant ci racconta, la mamma di Luke lavora in un negozio di cosmetici, è una truccatrice che a cena con gli altri genitori – una cena esclusiva piena di genitori divenuti esclusivi grazie ai loro figli esclusivi – si proclama pittrice. Una madre che più volte chiede a suo marito di farle da modello, di lasciarla provare, di farsi truccare, che truccare gli uomini è diverso: più che truccare è cambiare, più che aggiungere è togliere.
Ho letto qua e là che i personaggi che affollano i racconti di Poissant sono personaggi disperati. Non ci credo. I personaggi di Carver sono personaggi disperati. Quelli di Poissant sono zeppi di speranza, di buchi neri e resurrezione. Come quelli di Flannery O’Connor e come certa America del sud. Non lo so da dove venga Poissant, ma la forza dei suoi personaggi viene da un posto in cui la disperazione non ha spazio. I racconti sono sedici, di cui almeno dieci folgoranti. Sembra che Poissant stia lavorando a un romanzo, se posso chiedere, mr. Poissant, dacci i racconti, daccene altri. Carolina Crespi
Hermann Hesse, Il lupo della steppa (Mondadori 1946)
Per un’esigenza personale vado da un po’ in cerca di una “guida delle epoche critiche”. Niente ci si avvicina quanto Il lupo della steppa di Hermann Hesse. Se Siddharta è il libro dell’oriente, dell’ordine, dell’elevazione e dell’armonia, questo è senza dubbio il libro dell’occidente, della lacerazione, della decadenza, del caos. Scritto nel 1927, nel pieno di una crisi che doveva stravolgere il volto dell’Europa e minare alle basi la sua civiltà, ripropone il tema prediletto dell’autore, quel viaggio spirituale che stavolta conduce un uomo di mezza età – un solitario, idealista, deluso dal mondo e dalla vita – a un estremo tentativo di conciliazione con la società. La percezione della realtà come labirinto e lo smarrimento che ne deriva, il logoramento della società che porta il singolo all’insoddisfazione, a un’esorbitante malinconia che diventa annichilimento, sono presenti con forza inaudita. E insieme si intravvede il rifugio: l’ironia che scherma dalla meschinità, l’impulso genuino e lo slancio ideale, lo sforzo di “trascendere” che ci apre – noi esseri imperfetti, scomposti, irrequieti – a un respiro di eternità. Leonardo Guzzo
Guido Piovene, Lettere di una novizia (Bompiani 1941)
Un libro in cui la verità evapora nella foschia che avvolge, nei mesi freddi, il paesaggio veneto, sfondo della tormentata vicenda di Rita, costretta dalla madre a chiudersi in convento per compensare una tragedia avvenuta durante l’adolescenza. Lettere di una novizia è un romanzo epistolare in cui i meccanismi della coscienza sono esposti con un’eccezionale – e morbosa – capacità di penetrazione, rivelando l’influenza di una certa letteratura moralistica. Confessioni appassionate, colpevoli reticenze e fughe ambigue si inseriscono in un quadro torbido e sporco, giustificato dalla premessa dell’autore che esplicita la divergenza tra la condizione dei moderni, “costretti all’acume”, e la “diplomazia” che regola l’anima. Un libro che in qualche modo rappresenta l’erosione della coscienza. Davide Valtolina
William Goldman, La principessa sposa (Marcos y Marcos 2007)
Sapere in modo del tutto tardivo che dietro a La storia fantastica – uno di quei 20 film che scampano di sicuro all’apocalisse – c’è un libro, e che questo libro è opera dello stesso sceneggiatore del film, William Goldman, è uno shock da cui non potrai riprenderti. La pellicola non potrebbe essere più fedele, e tuttavia soffre di quelle corruttele, dei necessari cambi di fase, del lost in translation imposto dalla riduzione cinematografica. Arrivare dal film al libro è come risalire in modo catafatico all’origine in cui ogni qualità si trova al massimo grado. E tra queste, scegliamo:
1) Il racconto nel racconto, con inserti da manuale e una pseudo-sincerità acuminata, tra amarezza, parodia, satira e raffinata tecnica “del distacco”, con cui l’ironia smantella ogni ingorgo, ogni investimento.
2) L’iperbole, praticata al livello dei grandi maestri… diciamo un Villaggio prima maniera ma senza gli obblighi alla Taine, senza l’inetto. L’iperbole che come un buco di vermi apre gli spazi oltre “il” limite, ma che sa anche essere smentita dai tonfi, dagli imprevisti della demenza (la donna più bella del mondo che “non si lava”).
3) Il sapore semi-leggendario di ogni scelta narrativa cela il crudo del disinganno. Come fai a scrivere una fiaba così se dentro hai anche Leopardi? Come puoi fare il Mulino bianco senza il Mulino bianco? Goldman ce la fa, e dispensa la lucidità di A se stesso in quella che al primo, al secondo, al terzo sguardo sembra sempre una storiella.
Perché è una storiella… La principessa sposa ci obbliga anche a ripensare alle solite care chimere: la superficie la profondità, la gravitas, le migliori speranze, la teodicea… In modo sottile e pure strafottente, Goldman ci fa vedere come si cambia ciò che ferisce nell’infrangibile, in un’inesauribile e combusta felicità creativa. Lorenzo Cardilli
Immagine di copertina: Kazimir Malevich, Sportsmen